Te Deum di Luglio #clubbersambrosiani

Te Deum laudámus: * te Dóminum confitémur.
Te ætérnum Patrem, * omnis terra venerátur.
Tibi omnes ángeli, *
tibi cæli et univérsæ potestátes:
tibi chérubim et séraphim *
incessábili voce proclamant:
 

«Mio Dio, noi ti lodiamo, in te confidiamo.[…] In Te, Signore, ho sperato: non lasciarci confusi in eterno»: queste erano le parole che mi risuonavano nel cuore, in questi ultimi, confusi, convulsi giorni, scanditi da una timeline un po’ improvvisata, ma, a suo modo, precisa quanto bastava. Perché, in quei giorni, la gratitudine, la commozione, la confusione, la trepidazione, l’inconsapevolezza, la gioia, l’amicizia, l’affetto senza pari si sono intrecciati assieme, in un groviglio inestricabile.

Ho pensato tante volte a questi momenti, in realtà. Ho pensato che il fatto che i miei genitori ci avessero avute “relativamente” tardi, non doveva illudermi sulla loro presenza  a lungo in questo mondo. Non volevo vivere come gli illusi, che preferiscono ignorare la morte, per poter pensare di essere eterni e non esserne mai toccati “da vicino”. Sembra comodo, sulle prime, ma, in realtà, non lo è, perché serve solo a rimandare il problema, che, nel momento in cui si presenta, ha il vigore di una valanga che, lungo le pendici della montagna, acquista forza, fino a schiacciarti, quando è completamente discesa.

Non che sia veramente possibile prepararsi ad una cosa simile. Rimane un evento che segna una sorta di caesura, nella vita di un figlio. Prima papà c’è. Poi, non lo puoi più chiamare. Non gli puoi chiedere un consiglio, non lo vedi più lavorare il legno, costruire modellini, preparare i video per il catechismo dei bambini.

Un primo avviso, in un certo senso, ci fu una decina d’anni fa. Passò una stagione in ospedale. Dai primi di gennaio fino alla primavera del 2011, per la spondilodiscite. Ricordo ancora la primavera che accompagnò il suo rientro a casa. Poi fu la volta del tumore, alla prostata. A febbraio, tutto pareva risolto, con la più classica delle formule (“Ci rivediamo tra sei mesi”), che sanciva, così pareva, la possibilità di stare un po’ tranquilli. Nonostante, come spesso accade con queste cure, gli strascichi c’erano stati con una sensibilizzazione dell’intestino, prima mai avuta. Forse, proprio questa è stata la via d’accesso a quel tumore così aggressivo che in così poco tempo ha posto fine alla sua permanenza, in mezzo a noi. Giovedì 24 giugno, il ricovero. Venerdì 9 luglio, alle 15,30, il suo cuore ha smesso di battere, dopo aver invano cercato di contrastare questo male che aveva aggredito con violenza prima il fegato e poi i reni.

Qualcuno lo vede come l’apice del non-senso, come un’ingiustizia, perché è difficile pensare altro se non che lui sia stato una persona buona. «E non perché ora è morto».


Impossibile non pensarlo sempre indaffarato, sempre intento a fare qualcosa. Tanto da provocare lo stupore di molti, perché se ci chiedevano chi fosse il più bravo in cucina, la risposta era «papà», perché era da lui che provenivano i piatti più elaborati, come il pesce con le mandorle o le patate tagliate e cotte in un modo speciale. Così come, per aggiustare qualunque cosa, elettrica, meccanica o di falegnameria, il punto di riferimento era sempre lui. L’unico ambito di cui proprio non aveva simpatia era la telefonia mobile; il suo telefono era il più vecchio, passato di mano in mano, perché «tanto a lui bastava che telefonasse» e, per di più, era sempre spento, perché non ha mai voluto sentire le nostre lamentele in cui gli dicevamo «ma come facciamo a chiamarti, se è sempre spento?»…la sua risposta era altrettanto pronta: «se ho bisogno, lo accendo… e, in ogni caso, sono sempre con la mamma: basta il suo!».

Negli ultimi anni, dopo essere andato in pensione, si era appassionato al catechismo, che preparava ed insegnava insieme con la mamma e con il gruppo di cui facevano parte, in una parrocchia dei dintorni, ricevendo in cambio l’affetto puro, spontaneo ed incondizionato dei bimbi di tante parti del mondo, com’è ormai in ogni angolo di Milano, sempre più colorato dalla presenza di comunità provenienti da tutte le parti del globo.

Non è possibile prepararsi davvero ad un simile evento. È, però, forse, possibile, assaporarne ogni attimo, anche quelli il cui gusto è più amaro o difficile da digerire, per non dover, in seguito, rimuginare sui rimpianti di ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare e non si è fatto. Come è possibile, scrutarne tutta quella grazie e quella bellezza che, da quei momenti, è scaturita. Che, certamente, non elimina il dolore, ma lo illumina, anche grazie alla fede, di una luce nuova, che va verso quell’eternità solo immaginata e, forse, impossibile da comprendere appieno, in questa vita.

Non posso dimenticare un dettaglio di quella stanza di ospedale in cui sono entrata, il suo ultimo giorno: c’era da mangiare e da bere, ma il suo corpo, ormai esausto, era l’emblema della povertà assoluta. Non servivano più. In quel momento una Parola mi è risuonata nella mente «non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio» (Mc 14,25).

La realtà è che in questa realtà dolorosa si aprono squarci di bellezza da mozzare il fiato. Sono gli occhi lucidi di medici ed infermieri, che, nonostante abbiano fatto anche l’impossibile, «avrebbero voluto fare di più». È una comunità che si stringe attorno ad una persona che vi ha prestato a lungo un servizio. Sono amici che fanno km, pur di esserci. Sono sacerdoti che, diversi per formazione, sensibilità, personalità e cultura, sanno essere uniti intorno a Cristo. Sono i tanti volti e le tante voci che, conoscendolo o non conoscendolo, hanno pregato per lui. Sono i parenti che, pur vedendo da lontano, accettano di fare solo una visita lampo alla camera ardente, per poi tornare di nuovo due giorni dopo, il giorno del funerale. Sono i tanti parenti e conoscenti lontani, che, non potendo essere presenti al funerale, non hanno mancato di collegarsi su Zoom sabato sera, per pregare assieme il Rosario. È il collega che ha fatto da ponte con vecchi e nuovi ex colleghi delle due ditte, consentendo la presenza di coloro che erano stati formati da lui. Sono adolescenti che assicurano, tra le lacrime: «L’ho raccomandato alla mia nonna». Sono due chierichetti, suoi ragazzi del catechismo, disposti a spostare le vacanze, pur di esserci.

«Cristo non era uno sconosciuto, per lui» è il pensiero che hanno ripreso entrambi i sacerdoti che lo hanno ricordato. E, davvero, in quel grumo di persone riunite in quella chiesa della periferia di Milano si avvertiva il cuore pulsante di quel Corpo di Cristo che unisce cielo e terra in un unico abbraccio.

«Quid retribuam Domino pro omnibus, quæ retribuit mihi?» («Cosa renderò al Signore, per quanto mi ha dato», Can. Missae). Oggi ancora, queste parole mi risuonano nelle orecchie e non ne troverei di migliori, per descrivere quello che sto vivendo e ho vissuto. Un dono di grazia. Perché se, dovunque c’è amore, c’è un riflesso dell’Onnipotente, io ne sono stata inondata. Decine di persone, nell’operosità oppure nella preghiera, con le parole o con le opere, ciascuno, nel proprio stato e nella propria condizione, si è reso disponibile, con una generosità commovente, per venire incontro alle necessità della nostra famiglia, in un momento in cui è stata duramente provata negli affetti.

Credo che sia questa l’eredità più bella che porto con me. La fiducia in quella Chiesa, Corpo di Cristo che, al di là di tutte le sue fragilità, ancora guarda al suo Sposo e attinge al Suo amore, per dispensare la Sua grazia, sostentamento per questa vita, in vista della gloria che attende i credenti in Cristo.


Maddalena Negri


Rif. Maranatha

2 risposte a "Te Deum di Luglio #clubbersambrosiani"

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