Il mistero di Oxford.5. Il necessario e il contingente #storie #dunsscoto

Lunedì, 25 marzo 1308

«…e così – concluse Scoto – quel caso venne risolto e i nostri confratelli consegnati alla giustizia».

«Maestro – chiese lo studente – come si è accorto della presenza della sarabatana?».

«Stavo scrutando attentamente ogni gesto dei miei confratelli e le loro posizioni. Dalla disposizione del nostro caro Filippo, ho compreso la direzione del colpo e il nostro rettore era spuntato proprio da lì insieme ad Iginio, che era andato a chiamarlo subito dopo la loro falsa scaramuccia. Due cose mi insospettirono: la prima la velocità del suo arrivo, la seconda la posizione serrata della mano destra, come se stesse mantenendo qualcosa. Allora ho pensato a quanto mi era stato confidato alcuni giorni prima sul cambio di reggenza e compresi l’abisso in cui l’animo del rettore era caduto».

«Come però dall’invidia si può passare all’omicidio?» – chiese un altro studente.

«L’invidia è una bestia che divora il cuore dell’uomo e tutti noi ne siamo soggetti: dobbiamo cercare di domarla, di lasciar correre i nostri pensieri e regolare il nostro desiderio. Il desiderio, infatti, cresce a dismisura se non obbedisce a qualcosa di superiore. Il rettore ha fatto proprio questo. Ha trasformato il desiderio legittimo di essere una guida nella ragione ultima della sua vita: ha capovolto completamente la scala dei beni. E l’invidia ha divorato il suo cuore. Quando si è reso conto che stava per perdere quello che ormai era la sua ragione di vita, ha pensato di sistemare tutto eliminando Filippo. L’abisso, cari studenti, chiama l’abisso[1]».

«Maestro, che cosa possiamo fare per evitare tutto questo?».

«Non bisogna mai confidare sulle sole proprie forze. Quando facciamo filosofia e riflettiamo sui grandi misteri della nostra vita scopriamo tutti i nostri limiti: la nostra esistenza è come un piccolo fiore di campo o come l’erba che – come dice il Salmo – germoglia al mattino, alla sera è falciata e dissecca[2]».

«Cosa vuol dire?».

Le giovani menti erano assetate di conoscenza e molti ancora non riuscivano a capire l’importanza della riflessione filosofica per la vita quotidiana e per la stessa vita dello spirito. Perciò Scoto con pazienza continuò la sua spiegazione.

«Vedete, la filosofia è una sapienza antica e come ogni sapere sapienziale ha un risvolto pratico importantissimo: quando capiamo che la nostra vita, il nostro essere è un essere finito, mi rendo conto di quanto grande debba essere Chi è al Principio di questo essere. Questa consapevolezza ci deve portare a vivere con umiltà la nostra vita, accettando i difetti e cercando di rialzarci dopo essere caduti. La filosofia ci mostra che cos’è necessario e cosa non lo è…».

«Quindi il rettore non ha compreso questo?».

«Esatto. Ha vissuto in un certo momento della sua vita sostituendo il necessario con il contingente».

«Perché ha detto “in un certo momento”, Maestro?».

«Perché, per noi uomini, non c’è nulla di certo e il bene non è mai acquisito del tutto. E soprattutto dobbiamo mostrare misericordia verso gli erranti pur non scusando l’errore. Dobbiamo pregare anche per i nostri confratelli che hanno sbagliato». Tutti annuirono. La lezione terminò con quest’ultimo insegnamento che mostrò ancora una volta la grandezza e l’umiltà di Giovanni Duns Scoto. Da un triste episodio della sua vita riuscì a trarre un prezioso insegnamento per gli studenti.

(continua)


[1] Nel capitolo V: «Abyssus abyssum invocat» è una locuzione latina tratta dalla traduzione della Vulgata del Salmo 42.

[2] Nel capitolo V il riferimento all’erba che germoglia è tratto dal Salmo 89.


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