È il 28 Ottobre 1980, una mattina come tante nella cittadina basca di Ortuella, gli e le
donne si stanno recando al lavoro, i bambini e i ragazzi sono a scuola, ma una grande
esplosione e un boato rompono l’incantesimo. È mezzogiorno quando la scuola Marcelino
Ugalde esplode per una fuga di gas, 50 bambini e tre adulti perdono la vita e 128 persone
rimangono ferite. Una tragedia immane per l’intera popolazione…
È da questa tragedia che parte il libro di cui voglio parlarvi oggi: “Il bambino” di Fernando
Aramburu.
Aramburu ci narra il dopo, il lutto, il dolore, la sopravvivenza di chi da quella tragedia è
stato tremendamente colpito e lo fa attraverso la famiglia di Nuco, uno dei bimbi che ha
perso la vita nell’esplosione.
Nello scorrere delle pagine conosciamo Nicasio, il nonno materno, Mariaje, la mamma e
José Miguel, il papà.
Aramburu ci narra, con profondità e delicatezza quello strano, tremendo processo che
ognuno di noi deve fare davanti alla morte delle persone a noi più care, la terribile
“elaborazione del lutto”. Si, la chiamo terribile, perché se pur necessaria per andare avanti
non è per nulla semplice come alcune regolette vogliono farcela sembrare, non esistono
fasi da superare o vuoti numeri per cancellare o far diminuire quell’ atroce dolore che si
sente nel cuore e nell’anima. Tra le fasi ci si cammina in realtà avanti e indietro per anni e
molto spesso non c’è alcuna accettazione che possa permetterci di andare veramente
avanti. Ed è questo che ci narra Aramburu nel suo libro, come si può superare la morte di
un bambino? Nicasio, il nonno di Nuco non riesce a staccarsi da quel nipotino adorato che
amava accompagnare a scuola e con cui giocava ogni giorno ed è così che incomincia a
recarsi settimanalmente al cimitero e si mette a parlare con la lapide di Nico come farebbe
se fosse ancora vivo, gli racconta quello che accade, ci conversa e condivide in questo
modo con Nuco quella quotidianità che gli è stata strappata troppo presto. Un dolore che
lo porterò persino alla straziante decisione di costruire nella sua casa una cameretta per il
bambino.
E che dire di Mariaje, una mamma che è costretta ad andare in obitorio per riconoscere il
corpo senza vita del suo bambino e che aggiusta i calzini e toglie la polvere di calcinacci
dai suoi vestiti. Un gesto che una mamma fa automaticamente con il suo bambino ma che
appare terribilmente tragico se fatto davanti al corpo oramai senza vita del proprio unico
figlio, un desiderio di far si che sia ordinato e a posto anche davanti alla morte.
La scrittura di Aramburu è veramente in grado di trasportarti lì davanti a quella scuola
quando descrive quella piccola manina sepolta dalle macerie che regge ancora in mano
un pezzo di plastilina, immagini quel bimbo che pochi secondi prima stava giocando
felice, immaginando già cosa costruire con quel piccolo pezzo di plastilina e che ora giace
invece privo di vita.
Nella lettura non si può non pensare a quelle 50 piccole vite strappate troppo presto per
uno stupido errore umano che poteva essere evitato, a quelle famiglie che, seppur sopravvissute, non saranno mai più le stesse, costrette a vivere per sempre in un dolore con cui dovranno fare i conti ogni giorno.
Alessandra Fusco
Scopri di più da Club Theologicum
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

Lascia un commento