Dante e la libertà duplice: la corona e la mitria. #Dante #lanternadelcercatore

Negli scritti (strettamente o non) politici di Dante si può rilevare una forte tensione: quella tra il principio di una Monarchia universale che estenda il suo dominio su tutto il mondo e la libertà, «il dono più grande conferito da Dio alla natura umana, dal Signore immediatamente infuso (…) perché grazie ad esso siamo qui felici come uomini, e grazie ad esso altrove siamo felici come dèi»[1]. Luciano Canfora, molto opportunamente, vede incarnata questa tensione nella contrapposizione tra due personaggi: Catone Uticense e Giulio Cesare[2].

La necessità di Cesare e l’«uccel di Dio»

Per Dante infatti la Monarchia romana è necessaria e provvidenziale: questi due attributi sono fondamentalmente le tesi dei primi due libri del «Monarchia», e anche del canto VI del Paradiso, in cui il Poeta mette in bocca a Giustiniano l’elogio dell’Impero ed il racconto della sua storia. È un bene che si affermi ed un male che la cupidigia dei re si ribelli ad essa[3], in quanto è il mezzo attraverso cui Dio realizza la sua volontà[4] di un ordine in cui gli uomini possano realizzare il fine ultimo della vita dell’essere umano (la speculazione)[5], ovvero pace e tranquillità per tutti gli uomini[6], e quindi anche somma giustizia[7]. Anche la libertà, nella trattazione dantesca, è goduta al massimo grado, dal genere umano, quando questo è sottoposto al Monarca, perché nell’essere unificato nella persona del Monarca il genere umano «dipende da sé e non da altro»[8] e gode della massima concordia[9]. La Monarchia universale non è quindi affatto un problema per la libertà dell’umanità, che proprio grazie ad essa sarebbe massimamente libera di muoversi verso il suo fine naturale, determinato dalla volontà divina. Ma che ne è della libertà del singolo uomo?

Catone il martire

La realizzazione di questa Monarchia romana vede un punto di svolta proprio nel trionfo del dictator Giulio Cesare che Dante, a differenza di Tacito che posticipa l’evento al principato di Augusto[10], ritiene necessario per «redur lo mondo a suo modo (del Cielo n.d.r.) sereno»[11] in un solo uomo, una sola volontà[12]. E tuttavia è proprio di questo trionfo che Catone rimane vittima: era in Africa quando l’uccel di Dio «scese folgorando a Iuba», fedele alla «pompeana tuba»[13] anche se, come fa notare anche Canfora[14], Dante non osa nominarlo come nemico dell’Impero.

Dante nutre una profonda ammirazione per Catone: nel Convivio, come nel primo canto del Purgatorio, il suo è il «sacratissimo petto» di cui Dante non osa nemmeno parlare, ma che mette nel gruppo dei «divini cittadini» che «non sanza alcuna luce della divina bontade, aggiunta sopra la loro buona natura, essere tante mirabili operazioni state; e manifesto esser dee, questi eccellentissimi essere stati strumenti colli quali procedette la divina provedenza nello romano imperio, dove più volte parve esse braccia di Dio essere presenti»[15]; nella Monarchia, Catone, la cui opposizione a Cesare (che tra l’altro in questo trattato cede il ruolo di Monarca per eccellenza ad Augusto, tornando in un certo senso alla lezione tacitiana[16]) viene menzionata solo attraverso una citazione di Cicerone (che d’altronde lo chiama ”tiranno”)[17], è testimone del diritto all’Impero dei romani insieme a tutti quelli che con le loro azioni hanno mostrato di «avere posto da parte i propri interessi particolari per procacciare quelli pubblici, per la salvezza del genere umano. Per cui giustamente è stato scritto ”L’impero romano nasce dal fonte della pietà”»[18] In questo contesto «il sacrificio inenarrabile di Marco Catone, rigorosissimo custode della libertà»[19] è un agente della stessa Provvidenza che ha voluto che Cesare trionfasse perché l’Impero fosse unificato, e argomento a sostegno della legittimità di un Impero che si è affermato anche grazie alla sua sconfitta! Catone, «per suscitare al mondo l’amore per la libertà, mostrò quanto la libertà valesse, preferendo abbandonare la vita piuttosto che rimanere in vita senza la libertà»[20]. La sua (nonostante fosse pagano e contro il giudizio di molti cristiani, tra cui Agostino[21]) è la testimonianza dei martiri che gli merita il privilegio di uscire dal Limbo (in cui tra l’altro rimane Cesare[22]) e di diventare ministro di Dio come custode del Purgatorio: è lui ad accogliere Dante che è appena uscito dall’Inferno ed è sempre lui che lo lascia passare perché «libertà va cercando»: gliela sa indicare perché il suo esempio testimonia «ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta»[23].

Risulta quindi a prima vista paradossale che quest’uomo che si è dato la morte per non servire chi grazie alla sua sconfitta si sarebbe posto legittimamente alla testa del legittimo Impero voluto da Dio sia indicato contemporaneamente come testimone della nascita di quell’impero «dal fonte della pietà» e come autore di «un atto divinamente ispirato ed esemplare»[24] che corrisponde al rifiuto di mettersi al servizio del Monarca di quello stesso Impero! Sembrerebbe corretto quanto afferma Canfora, che «la libertà per la quale Catone si è suicidato è l’esatto contrario del governo di Cesare, di quella reductio ad unum che Giustiniano indicherà invece come il frutto di una volontà divina che ha risolto la pacificazione di tutto ”lo mondo” nel potere di una sola persona»[25], eppure a mio parere uno sguardo più attento al Monarchia può aiutarci maggiormente a riconoscere come nella visione dantesca, sebbene ci sia effettivamente una tensione tra le due libertà di cui abbiamo parlato (quella del genere umano e quella dell’uomo, di Catone), non siamo al cospetto di una reale antinomia, bensì di un geniale paradosso.

La corona e la mitria

Un indizio per la sua risoluzione ce lo offre Canfora sottolineando un aspetto singolare del canto XXVII del Purgatorio: quando Virgilio spiega a Dante che non avrà più bisogno di un tutore perché «libero, dritto e sano è tuo arbitrio», lo invita a seguire il suo intelletto (sarebbe forse precoce l’uso del termine ”coscienza”) perché «io te sovra te corono e mitrio»[26]. Non è affatto casuale l’uso di due verbi (di cui il secondo è un neologismo dantesco coniato per l’occasione): nonostante l’unicità di Dio, che non viene certo negata, Dante riconosce sopra di sé non uno ma due ordini, e questo fa sì che anche la sua libertà possa essere intesa come duplice. Questo ci rimanda alla tesi del terzo libro del Monarchia, ovvero che «il regime temporale non riceve l’essere dallo spirituale, né la virtù che è la sua autorità, e nemmeno l’operare puro e semplice»[27]. Qui Dante compie molto esplicitamente l’operazione di distinguere i due ordini, affermando che Imperatore e Pontefice non debbano essere ricondotti ad un solo uomo perché «sono quello che sono in virtù di certe relazioni, cioè del Papato e dell’Impero, relazioni che sono l’una nell’ambito della paternità e l’altra in quello della signoria (dominium)»: il predicamento sotto cui vanno riposti Papa e Imperatore non è quello dell’essere uomini, ma quello della relazione, e non essendo l’Imperatore una specie del genere Papa né il Papa una specie dell’Imperatore, il loro principio di sovraordinazione deve essere un altro, ovvero Dio stesso. Nel momento, poi, in cui deve provare «dimostrativamente» che anche l’autorità dell’Impero viene direttamente da Dio, Dante ci offre una giustificazione di stampo antropologico: «l’uomo solo tra tutti gli esseri occupa il mezzo tra le cose corruttibili e le incorruttibili»[28], è, come l’orizzonte, a mezzo tra due emisferi; in maniera simile a Gesù Cristo, vero ed unico «unum» a cui si riconduce tutta l’umanità, ha due nature[29], «e poiché ogni natura è ordinata ad un fine ultimo, ne consegue che per l’uomo vi sia un fine duplice (…) così è anche il solo tra tutti gli esseri ad essere ordinato a due fini, dei quali l’uno è quello cui è ordinato in quanto corruttibile, l’altro invece in quanto incorruttibile»[30]: i due fini sono «la beatitudine di questa vita, che consiste nell’operare della propria virtù ed è raffigurata dal paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, che consiste nella fruizione della visione divina, a cui la propria virtù non può ascendere, se non sorretta dal lume divino, e che si può intendere per il paradiso celeste»[31]. Un duplice fine richiede dunque «un duplice rimedio direttivo, cioè del sommo Pontefice (…) e dell’Imperatore»[32].

Monarchia senza monismo

L’approdo sorprendente di queste considerazioni è la constatazione che il Monarchia persegue un progetto diametralmente opposto a quello che il suo titolo lascerebbe intendere: lungi dall’anelare ad una reductio ad unum assoluta del genere umano, Dante sembra piuttosto intento a scongiurarla. La giustificazione della necessità di un Monarca che unifichi nella relazione della signoria tutto il genere umano non era l’auspicio di un ordine terreno perfetto e definitivo, non era una visione utopica, ma il riconoscimento che l’ordine politico, necessario alla pace, è per sua natura universale, e tuttavia non «totale» (lo diciamo usando un linguaggio moderno). Questo era un messaggio diretto soprattutto alla Chiesa in un periodo storico in cui era essa stessa a perseguire l’ideale della Monarchia, come rileva Quaglioni:

Che nella reductio ad unum bonifaciana, nella pretesa del pontefice romano di essere il solo mediatore tra temporale e atemporale e il solo legislatore supremo, cardine dell’ordine del mondo, Dante dovesse vedere un pericolo non solo per l’ordine secolare ma più ancora per l’ordine spirituale, e dunque un problema di natura ecclesiologica prima ancora che giuridica o politica in senso ”moderno”, non c’è da dubitare.[33]

Per Dante era un dramma che il Papato sembrasse destinato a ricondurre la propria autorità a quella della relazione signorile: assumendo a sé una giurisdizione di signoria universale, facendosi sommo Imperatore, l’ordine a cui ubbidire diventava uno solo, un ordine di una necessità spietata, in nulla migliore dell’ordine che Catone aveva dovuto onorare con la morte. Ma è proprio con quella morte che Catone testimonia l’esistenza di un ordine diverso, più alto, che agli occhi di Dante gli merita la santità: è l’ordine della Mitria, che il Papa è chiamato a custodire, che apre uno spazio di libertà anche di fronte ad un potere legittimo. Anche se il dominio (o signoria) di Cesare è necessario e provvidenziale nel suo perseguire il fine terreno della beatitudine di questa vita nella pace e tranquillità per tutti, l’arbitrio umano, libero, diritto e sano, deve riconoscere un ordine ed un fine più alti, che non gli si impongono nella relazione del dominio ma in quella della paternità. E allora se Cesare ha legittimamente dei servi (pur essendo a sua volta servo dell’umanità[34]), il Papa essendo padre ha dei figli, ed è molto diversa la libertà dei servi da quella dei figli: è doveroso servire il Bene Comune insieme agli altri come un unico uomo con un’unica volontà di pace, ma l’autentica beatitudine ce la insegna soltanto chi ama tanto la libertà da considerare persino di rinunciare ai benefici di quell’ordine. Ce la insegnano dunque Cristo e i martiri, e per Dante tra loro c’è anche Catone Uticense, che non ha sottomesso la sua dignità di uomo libero alla sola corona di Cesare. Sapeva che c’era anche la mitria, che la sua coscienza gli indicava nonostante non conoscesse Cristo: la sua magnanimità gli aveva permesso di riconoscere che in lui c’era anche qualcosa di incorruttibile, che rispondeva ad un ordine diverso da quello delle leggi umane, e che ha la precedenza. Per questo contribuisce a legittimare il diritto dei romani all’Impero: è segno della sua origine nel «fonte di pietà» il fatto che da quel popolo sia uscito almeno un uomo che abbia riconosciuto la priorità della libertà della propria natura incorruttibile su quella della partecipazione alla libertà collettiva di perseguire il Bene Comune, onorando una Legge, benché da lui sconosciuta, che sta al di sopra delle leggi della Repubblica romana.

Libertà: una e duplice

Ecco dunque come si conciliano le due libertà in Dante: nella duplicità dell’unitaria libertà dell’arbitrio umano, che salva l’uomo dalla cruda necessità della legge delegittimando qualsiasi monismo utopico: poiché il vero «unum» è Cristo, nessun uomo può legare a sé contemporaneamente il corpo e lo spirito di tutti gli altri. Perciò il servo del Monarca, che grazie a lui è libero dalle meschine macchinazioni dei re per la giurisdizione, rimane libero rispetto al Monarca di rivolgersi all’ordine paterno se questi minacciasse la sua coscienza; perciò il cristiano, che grazie al Pontefice è libero di seguire Cristo verso la visione beatifica senza che la sua coscienza cada in errore, potrà mettersi al servizio del Bene Comune senza confonderlo con il Paradiso celeste, e quindi senza dover accettare i giudizi dei re come sentenze divine a cui conformare necessariamente tutto lo spirito.

Concludiamo dunque ribadendo come per Dante la libertà sia «il dono più grande conferito da Dio alla natura umana, dal Signore immediatamente infuso (…) perché grazie ad esso siamo qui felici come uomini, e grazie ad esso altrove siamo felici come dèi»[35]. Tale dono è la premessa necessaria di qualsiasi beatitudine, e per preservarlo dalla corruzione dovuta al peccato originale è necessario un duplice rimedio direttivo: questo sono l’Impero e il Papato, garanti della duplice libertà umana, tra cui il primo deve al secondo «quella reverenza che il figlio primogenito deve usare verso il padre: affinché, illustrato dalla grazia paterna, più virtuosamente illumini l’orbe della terra, a cui è stato preposto da Colui solo, che è il governatore di tutte le cose spirituali e temporali»[36]

                                                                                          Fra’ Michele Silvi, O. Carm.

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[1]      Dante, Monarchia, I, XII, 6, ed. Quaglioni, 111.

[2]     Canfora, Dante e la libertà, Solferino, Milano 2023, 6-sgg.

[3]     Dante, Monarchia, II, I, 1, ed. Quaglioni, 155.

[4]     Dante, Monarchia, I, VIII, 5, ed. Quaglioni, 69.

[5]     Dante, Monarchia, I, III, 10, ed. Quaglioni, 41.

[6]     Dante, Monarchia, I, IV, 2-6, ed. Quaglioni, 45-49.

[7]     Dante, Monarchia, I, XI, 2, ed. Quaglioni, 81.

[8]     Dante, Monarchia, I, XII, 8, ed. Quaglioni, 113.

[9]     Dante, Monarchia, I, XV, 4, ed. Quaglioni, 143.

[10]   Tacitus, Historiae, I, 1.

[11]   Dante, Paradiso, VI, 57.

[12]   Dante, Monarchia, I, XV, 8-9, ed. Quaglioni, 145.

[13]   Dante, Paradiso, VI, 70-72.

[14]   Canfora, Dante e la libertà, 8.

[15]   Dante, Convivio, IV, V, 16-17.

[16]   Dante, Monarchia, I, XVI, 1, ed. Quaglioni, 149.

[17]   Dante, Monarchia, II, V, 17, ed. Quaglioni, 225.

[18]   Dante, Monarchia, II, V, 5, ed. Quaglioni, 211.

[19]   Dante, Monarchia, II, V, 15, ed. Quaglioni, 221.

[20]   Ibidem, 225.

[21]   Cfr. Augustinus, De Civitate Dei, I, 22-23.

[22]   Dante, Inferno, IV, 123.

[23]   Dante, Purgatorio, I, 71.

[24]   Martina, A., Catone l’Uticense, in Enciclopedia Dantesca, Istituto della Enciclopedia italiana, I, Roma 1970, 884, citato in Dante, Monarchia, apparato critico-testuale, ed. Quaglioni, 222.

[25]   Canfora, Dante e la libertà, 13.

[26]   Dante, Purgatorio, XXVII, 140-142.

[27]   Dante, Monarchia, III, IV, 20, ed. Quaglioni, 381.

[28]   Dante, Monarchia, III, XV, 3, ed. Quaglioni, 495.

[29]   In questo riecheggia probabilmente Tommaso, cfr. STh I q.23, a.1.

[30]   Dante, Monarchia, III, XVI, 6, ed. Quaglioni, 499. È importante sottolineare che in Dante, diversamente dai teocratici, la distinzione tra corruttibile e incorruttibile non si riconduce a quella tra anima e corpo, bensì a quella tra natura e grazia. Cfr. Nardi, B., Dal «Convivio» alla «Commedia» (Sei saggi daneschi), Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma 1992, 288-289, citato in Dante, Monarchia, apparato critico-testuale, ed. Quaglioni, 499.

[31]   Dante, Monarchia, III, XVI, 7, ed. Quaglioni, 499-501.

[32]   Dante, Monarchia, III, XVI, 10, ed. Quaglioni, 505.

[33]   Dante, Monarchia, Introduzione, ed. Quaglioni, LXXIV.

[34]   Dante, Monarchia, I, XII, 12, ed. Quaglioni, 119.

[35]   Dante, Monarchia, I, XII, 6, ed. Quaglioni, 111.

[36]   Dante, Monarchia, III, XVI, 18, ed. Quaglioni, 517.


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