Gli Animali e la Bibbia. Una proposta di riflessione. #animali #bibbia #lanternadelcercatore

Un cane vive in un decennio ciò che un uomo esperisce in una vita intera. In poco tempo si vede il corpo che si usura senza poter essere ripristinato: il pelo sul muso diventa bianco, non riesce più a saltare sul letto da solo, appare un riflesso blu negli occhi a causa della degenerazione del cristallino, alcuni denti si fratturano…

Ho un bassotto, Mozart, che ormai ha 11 anni. Nella sua vita, vedo passare la mia. Questo usurarsi senza rimedio è ciò che accade ai miei genitori, ciò che (se siamo fortunati) accadrà a me, alla mia fidanzata, a tutti quelli che amiamo. Sora morte corporale diventa presente come un destino.

La vita animale ci dice molto, e da tempo rifletto su ciò che la Bibbia ci dice sugli animali.

Tante domande sorgono spontanee. Gli animali hanno un’anima? Ritroverò in paradiso i miei cani? Qual è il senso della sofferenza animale? È legittimo prendere la vita di un animale per mangiarlo? Oggi voglio parlare di questo.

Prima, una nota su di me. Non sono interessato alla dogmatica. Sono interessata alla teologia biblica prospettica (un termine che ho preso da padre Boschi OP). Certamente mi interessa la Bibbia. E mi interessa usare il Talmud e i Padri come aiuto all’interpretazione. E mi interessa avere una visione coerente con le scienze.

1.Gli animali hanno un’anima?

Com’è noto, il testo di Genesi 1 è di tradizione sacerdotale: descrive in modo sequenziale e poetico la creazione di vari aspetti della natura, fino ad un gruppo di uomini (non c’è una coppia qui). Il testo di Genesi 2, invece, di tradizione Jahvista, narra molto più nello specifico la creazione di uno specifico individuo.

Gn 1, 27 dice: Elohim creò [bara’] gli uomini a norma della sua immagine.

Gn 2, 7 invece dice: Jahvé-Elohim modellò [yatsar] l’uomo con la polvere del terreno.

Il verbo yatsar è tipico del secondo capitolo: nel primo non si trova mai. In Gn 1, sia l’uomo, sia i tanninim (Gn 1, 21: serpenti marini, chiaramente animali) sono detti creati (bara’). In Gn 2, invece, il verbo bara’ si riferisce a i cieli e la terra (Gn 2, 4) o in generale alle opere (Gn 2,3); per il resto, sia l’uomo, sia gli animali (Gn 2, 19) sono invece detti formati (yatsar).

Yatsar, rispetto a bara’, è più fortemente legato all’idea di modellare della materia preesistente: Dio forma l’uomo dalla terra letteralmente come il vasaio tira fuori il vaso dalla creta.

Gn 2, 7, però, dice anche: [Jahvé-Elohim] soffiò sulle sue narici un alito [neshamah] di vita; così l’uomo divenne un essere vivente. Questo, degli animali, non viene detto.

Da qui, si potrebbe dedurre: gli animali non hanno un’anima, altrimenti il testo avrebbe mostrato Dio soffiarla anche su di loro. Questa conclusione, però, appare ingiustificata.

Gn 2 sta probabilmente immaginando questo: Dio forma l’uomo come uno scultore crea una statua, ma la statua è immobile e morta, l’uomo invece vive e respira, e questo perché Dio gli ha dato la vita. Non c’è, qui, una particolare metafisica. Gli animali sono chiaramente viventi, e non era utile ripetere questa insufflazione dell’energia vitale.

Passando ad una lettura canonica, potremmo notare questo. Sembra che il verbo yatsar possa concretamente riferirsi solo ad una modellazione materiale, non alla creazione della vita. L’uomo quindi è prima formato, ma è poi creato nel momento in cui diventa un essere vivente. Se accettiamo ciò, allora il fatto che Gn 1, 21 dica che anche degli animali (i serpenti marini) sono creati ci fa capire in modo chiaro che anche loro devono aver ricevuto questa neshamah.

A conferma di ciò, leggiamo il racconto del Diluvio Universale. Gn 7, 21-22 ci dice: perì ogni carne strisciante sulla terra: volatili, bestiame e fiere e tutti gli esseri brulicanti sulla terra e tutti gli uomini, ogni essere che ha un alito [neshamah], uno spirito [ruach] di vita nelle sue narici… morì”. Questo verso assegna chiaramente sia la neshamah, sia la ruach, anche agli animali.

Ed è così anche nell’ultimo salmo. Sal 150, 6 dice: Ogni essere che ha respiro [neshamah] dia lode a Jahvé. Sarebbe davvero limitante se la cosa si riferisse solamente agli uomini.

Come se non bastasse, sia in Gn 1, sia in Gn 2 gli animali sono più volte chiamati creature [nephesh]. Per esempio, in Gn 2, 19, Dio crea gli animali, li porta dall’uomo, e: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi [nephesh hayyah], quello doveva essere il loro nome. Questo è esattamente lo stesso modo in cui si chiama l’uomo in Gn 2, 7 dopo che gli viene insufflata la neshamah.

Ora, la tradizione teologica è abituata a pensare tramite un dualismo concettuale: corpo e anima. San Paolo ragiona invece tramite tre livelli: psyche, pneuma, e soma. Il Primo Testamento va ancora oltre, e prevede quattro livelli: neshama, nephesh, ruach, besar. Ma, qualsiasi sia la classificazione preferita, non può più esserci dubbio: sia l’uomo che gli animali hanno un corpo (soma, besar); sia l’uomo che gli animali hanno uno spirito creato (pneuma, ruach – che non è la Ruach Elohim); sia l’uomo che gli animali hanno un’anima (psyche), sia come neshamah, sia, essendo entrambi esseri viventi, come nephesh.

Gli animali vanno in paradiso?

Com’è noto, la tradizione teologica aristotelica ha distinto, all’interno del concetto di anima, diverse “tipologie” in base alle loro “funzioni”. Per esempio, nella Summa (I, q.76, a.3) Tommaso scrive: Bisogna perciò affermare che nell’uomo esiste un’unica anima, che è sensitiva, intellettiva e vegetativa.

La questione è nota: le piante hanno un’anima solo vegetativa; gli animali hanno un’anima vegetativa e sensitiva; l’uomo ha un’anima vegetativa, sensitiva e intellettiva. Al che, Aristotele, nella Metafisica (1070 a), scrive: Nulla impedisce che qualcosa rimanga [dopo la morte], per esempio l’anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma soltanto la parte intellettuale. Da qui l’idea che solo l’anima che è anche intellettiva, cioè solo quella umana, possa avere una vita dopo la morte: per gli animali, anche se dotati di anima, non ci sarebbe questa possibilità.

Purtroppo, com’è comprensibile, questa idea ha dato origine anche ad alcuni episodi spiacevoli. Ne ricordo uno. Scrivono al noto padre Angelo Bellon OP (qui): mi è morto il cane ieri, era dolcissimo, faceva compagnia a me e a mia moglie dato che siamo anziani […] Adesso le chiedo: ma esiste il paradiso dei cani? È facile immaginare la risposta strettamente tomista di padre Bellon: Quando un cane muore, muore del tutto perché non ha un’anima spirituale […] Pertanto non esiste un paradiso dei cani, ma in paradiso – e cioè nella mente di Dio – rivedrai eternamente il tuo cane in tutti i momenti della sua esistenza terrena.

Bisogna dire che la distinzione delle anime nei tre livelli – solo vegetative, vegetative e sensitive, anche intellettive – non trova un corrispettivo nella Bibbia. Ciò che vi è nella Bibbia, all’interno della psyche paolina, è la distinzione di neshamah e nephesh. Potremmo quindi dire al massimo (come fanno alcune tradizioni ebraiche) che la nephesh è una parte comune a uomini e animali, mentre la neshamah è una scintilla divina esclusiva dell’uomo. Ma abbiamo visto invece che possiamo assegnare entrambe sia a uomini che animali, e lo stesso per lo spirito. Non è quindi possibile fare questa distinzione su base biblica, con anime che sopravvivono e anime che non sopravvivono, con anime più e meno divine.

(ovviamente si può obiettare che nephesh, neshamah e gli altri termini ebraici hanno più significati: l’autore sacro, parlando di neshamah, non aveva in mente la nostra teologia, ma letteralmente il respiro. Ciò è storicamente plausibile, ma dal punto di vista teologico è perfettamente legittimo, sin dai middot di Hillel, interpretare il testo in questo modo: è un significato messo a disposizione dal testo.)

Qui si percepisce, però, una tensione. Da un lato, non si vede ragione per la quale l’anima di un animale non dovrebbe sopravvivere al pari di quella umana. Dall’altro, il parlare di “animali in paradiso” sembra ben strano. Un animale può forse andare all’inferno? In purgatorio, per le tradizioni che lo prevedono? Su che base viene giudicato? E se non viene giudicato, e tutti gli animali vanno in paradiso, be’, non era meglio per me nascere cane o cavallo, anziché uomo?

Tale questione va analizzata con calma.

Partiamo da una domanda. Quali sono, nel vangelo di Luca, i primi martiri, cioè i primi a dare la vita per il Cristo? Non sono gli infanti, che sono presenti solo in Matteo. Ebbene, sono i due colombi sacrificati al tempio per la purificazione di Gesù (Lc 2, 24): lo portarono a Gerusalemme per offrirlo al Signore… e per offrire in sacrificio, come dice la legge del Signore, un paio di tortore o due giovani colombi.

Dio ha tessuto i corpicini di questi colombi nell’uovo (cfr. Sal 139, 13), li ha nutriti, li ha fatti crescere. Poi qualcuno li ha catturati e gli ha spaccato il cranio per compiere il rito. Ma, con questo, il Figlio incarnato è stato purificato – e ne aveva davvero bisogno: era una questione rituale, non legata al peccato. La domanda ora è: davvero un Dio buono e giusto, dopo tutto questo, ha lasciato che questi due colombi, sacrificati per il Cristo, andassero disintegrati nel nulla? O, al contrario, proprio per il loro legame con il Cristo, meritano un ruolo molto esaltato nell’Olam Abba, nel mondo che verrà?

Come vediamo, l’idea che l’individualità dell’animale, dopo la morte, vada semplicemente distrutta, è moralmente e spiritualmente aberrante.

A conferma di ciò, leggiamo in Ef 1, 9-10: Egli ci ha manifestato il mistero della sua volontà secondo il suo benevolo disegno che aveva in lui formato, per realizzarlo nella pienezza dei tempi: accentrare nel Cristo tutti gli esseri, quelli celesti e quelli terreni. Cioè, in Cristo sono ricapitolate tutte le cose: gli uomini come gli animali, le piante come i sassi.

Ora, com’è noto, una delle risposte possibili alla domanda “come ha fatto il Cristo a redimere?” è proprio questa: ricapitolando in sé le cose. Cristo ha avuto un certo destino: il morire e l’essere risorto. Chi viene ricapitolato in lui partecipa a questo suo mistero, e viene risorto. Questo, di conseguenza, non riguarda solo l’uomo: non solo l’uomo è stato redento, ma tutto il mondo; non semplicemente l’uomo risorgerà, ma tutto il mondo, tutte le cose verranno ricreate e portate a perfezione. Quindi l’uomo, ma anche gli animali.

Ma cosa dire, allora, dell’idea che ci possano essere animali in paradiso o, addirittura, all’inferno?

Il fraintendimento, qui, sta nell’immaginare paradiso e inferno come regni, come piani d’esistenza, immaginati per analogia con il piano spaziale. Com’è noto, non è così: tali termini, invece, indicano degli stati, dei tipi di rapporto con Dio.

A questo punto, la risposta è semplice. Solo l’uomo è capace di avere con Dio quel tipo di rapporto che possiamo chiamare paradiso o inferno. L’animale sta al di fuori di questo tipo di relazioni: esso esiste in modo del tutto diverso. Al che, la domanda diventa: in quale modo, esattamente, vivrà (e vive) l’animale?

L’uomo può essere nello stato del paradiso o dell’inferno perché è capace di un rapporto diretto con Dio. L’animale non può essere in tale stato perché non ha un rapporto diretto. Noi però sappiamo che l’uomo è immagine di Dio. Questo, generalmente, lo si è inteso così: l’uomo ha, nel mondo, il ruolo che Dio ha nella creazione, e solo in questo senso l’uomo domina la natura. Ma se l’uomo glorifica Dio, cioè lo manifesta, e governa il mondo nel modo in cui Dio governa la creazione, ciò significa che anche l’animale può avere con Dio un rapporto mediato. Come? Ebbene: l’animale vede il Cristo nel suo corpo che è la Chiesa, cioè vede Cristo nell’uomo.

2.È legittimo mangiare animali?

Se si accetta quanto detto sopra, allora capiamo anche quale dovrebbe essere il rapporto tra l’uomo e l’animale. Se l’animale vede Cristo tramite l’uomo, allora io devo avere con l’animale lo stesso rapporto che Cristo ha con il mondo. Ma prendere un animale e ucciderlo per mangiarlo è coerente con questo tipo di rapporto?

In Mt 8 Gesù scaccia dei demoni e questi gli chiedono di poter andare nei maiali al pascolo: Gesù lo consente e, come risultato, i maiali si gettano in mare e affogano. L’idea è: se neppure Gesù si cura della vita di quegli animali, perché dovremmo farlo noi?

La visione tradizionale, in effetti, è che gli animali siano creati con lo scopo di essere cibo per l’uomo. Scrive infatti Tommaso nella Summa (II-II, q. 64, a. 1): la vita degli animali e delle piante non viene conservata per sé stessa, ma per l’uomo. E cita direttamente sant’Agostino, che dice: la loro vita e la loro morte sono subordinate al nostro vantaggio.

Ora, è vero che Gn 1 dà dominio all’uomo sul mondo naturale, come detto. L’idea però che l’animale sia creato per il benessere dell’uomo è chiaramente in contrasto con la Scrittura.

Infatti, Gn 1, 29 dice: io vi dò ogni sorta di graminacee produttrici di semenza, che sono sulla superficie di tutta la terra, ed anche ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme: essi costituiranno il vostro nutrimento. Il grande commentatore Rashi, a questo verso, scrive così: non fu consentito all’uomo e a sua moglie di uccidere onde mangiare carne e solo ogni erba poteva essere consumata.

Stando così le cose, è insostenibile che gli animali siano stati creati come alimento. In effetti, sappiamo che Dio ha creato il mondo per sua gloria, e non certo per nostro piacere (altrimenti, diremmo che avrebbe anche potuto fare un po’ meglio…!)

Eppure, è chiaro che Gesù mangia più volte animali, mangia del pesce per esempio. Quindi non si può neanche sostenere che ciò sia contro la legge di Dio. Ma se, seguendo Rashi, l’uomo genesiaco non ne poteva mangiare, quand’è che le cose sono cambiate? La risposta non può essere che: al primo sacrificio.  Gn 8, 20: Noè… prese d’ogni sorta di animali puri e d’ogni sorta di volatili puri e offrì olocausti sull’altare.

Il rabbino Moshe David Cassuto, nel libro Da Noè ad Abramo, afferma che la possibilità di prendere la vita degli animali è stata concessa dopo il diluvio proprio per aver salvato gli animali. In effetti, già nei midrashim dei tannaim c’è l’idea che siano gli animali stessi che, dovendo la loro salvezza a Noè, gli offrono la possibilità di usare la loro vita.

(Ovviamente non è che l’animale sappia di aver offerto la sua vita a Noè – come non è che l’animale sappia di vedere Cristo nell’uomo -, ma possiamo dire che questo sia il senso teologico della vita dell’animale.)

Quindi, sebbene gli animali non siano stati affatto creati come alimento, comunque, “dopo il diluvio”, è sicuramente legittimo mangiare animali, in quanto sono gli animali stessi che hanno concesso all’uomo quest’uso della loro vita.

Questo però non significa comunque che qualsiasi trattamento degli animali sia coerente con l’essere per loro immagine di Cristo.

In effetti la Bibbia più volte manifesta un’attenzione al benessere animale. Dt 25, 4 comanda: non metterai la museruola al bue che trebbia. Perché? Perché è giusto che anche l’animale mangi il frutto del suo lavoro. Ma come, l’animale lavora? Altroché: perfino nel preconio pasquale si dice che il cero è frutto del lavoro delle api. Data questa sensibilità raffinata, di certo non può essere possibile prendere la vita dell’animale a piacere.

Ciò che dovrebbe costituire il fulcro della nostra riflessione è che, nella Torah, non c’è propriamente una separazione tra il sacrificio religioso e la macellazione volta all’alimentazione. Il prendere la vita dell’animale, anche se è per mangiare, è comunque un qualcosa di sacro, che non può essere fatto al di fuori di un certo contesto religioso. Bisogna seguire la kasherut. Bisogna macellare l’animale secondo specifiche norme. Bisogna togliere tutto il sangue, che è la vita dell’animale ed è sacra. Nel compiere l’operazione, bisogna pronunciare una specifica berakhah, benedicendo Dio per la vita che sto per prendere. Eccetera.

Pensiamo, invece, a come sono oggi i nostri allevamenti, e i nostri metodi di macellazione. Non è che il prendere la vita sia diventato meno sacro. Ma l’aspetto religioso dell’operazione è stato del tutto eliminato. Uccido e mangio come se Dio non avesse nulla a che fare con ciò. Questo è sicuramente errato ed è una grave corruzione del nostro modo di vivere. Si distrugge il corretto rapporto con Dio e non si è più immagine di Cristo per l’animale.

Di recente, il rav di Segni è intervenuto (qui) in merito alla legittimità della scelta di una dieta vegetariana. La sua conclusione è che questa è perfettamente coerente con l’ebraismo. La cosa non stupisce: infatti, il mangiare animali è stato concesso momentaneamente, dopo il diluvio; ma nel mondo che verrà, non essendoci la morte, non ci sarà neanche il consumo di carne.

Come è legittimo mangiare animali, così è anche legittimo astenersene. Per il cristiano gentile, non chiamato alla legge mosaica, non ci sono particolari obblighi. Ma il cristiano rimane un apocalittico, e quindi anche uno che, pur riconoscendo l’impossibilità di creare un mondo perfetto, si sforza di portare nel mondo presente qualcosa del mondo che verrà. E il fatto che ci sia stato questo divorzio tra macellazione e aspetto religioso è rilevante anche per lui. Quindi, pur essendo legittimo mangiare carne, la scelta vegetariana rimane ugualmente legittima per il cristiano, e degna di essere presa in considerazione.

3.La sofferenza animale

Il grande filosofo della religione William Rowe ha proposto una nuova versione del problema del male. Che nel mondo ci sia del male causato dall’uomo, non è scandaloso. Che l’uomo soffra, come Giobbe, pure non è scandaloso: ci sono vari modi per giustificarlo. Ma: cosa dire di un cerbiatto che muore bruciato vivo in mezzo a un bosco? Qual è il senso di tale sofferenza?

Le teodicee tradizionali, di per sé, ci portano comunque ad aspettarci che tale tipo di male sia presente nel mondo.

Tommaso (I, q. 25, a. 6) scrive: Dio di qualsiasi cosa può farne un’altra migliore. Infatti, non c’è mai fine al meglio per Dio: qualsiasi mondo avesse creato, avrebbe sempre potuto farne infiniti altri migliori. Quindi è sempre possibile (almeno per Dio) immaginare altri mondi migliori di questo. Quindi possiamo individuare un male relativo, come può essere quello indicato da Rowe.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 302) afferma: la creazione… non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta, è creata in stato di via. Certo, un essere infinitamente buono vuole creare un mondo perfetto, ma non per forza sùbito perfetto: Dio vuole che l’uomo contribuisca al tikkun olam, al perfezionamento del mondo. Quindi il mondo non è ancora perfetto, quindi possiamo ancora individuare del male, come quello indicato da Rowe.

Questo, però, non risponde alla domanda relativa al senso.

Tale domanda, in realtà, non può neanche avere una risposta esplicita. Il libro di Giobbe dà la risposta teologica, quella filosofica e quella psicologica, ma le rifiuta tutte, e anche se Dio stesso compare alla fine si rifiuta di rispondere al problema del male. Perché? Perché l’unica risposta possibile è il Cristo crocifisso. Se Dio stesso soffre, si vede che tale sofferenza ha un valore teologico, e mi dice qualcosa del rapporto dell’uomo con Dio.

Ma se Cristo ricapitola tutte le cose, il valore teologico della sofferenza non riguarda solo la sofferenza umana, ma anche quella animale.

4.Gli uffici

Il testo centrale dell’angelologia si trova nelle Omelie sui vangeli di Gregorio Magno. Scrive:

È da sapere che il termine “angelo” denota l’ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, perché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annuncio. […] A essi vengono attribuiti nomi particolari […] quando vengono a noi per qualche missione, prendono anche il nome dell’ufficio che esercitano. […] Fu giusto dunque che venisse chiamato “Medicina di Dio” colui che venne inviato a operare guarigioni.

Quello che Gregorio dice, in essenza, è che non c’è un angelo specifico chiamato Raffaele, bensì viene chiamato Raffaele l’angelo quando guarisce. Il nome non indica un individuo specifico, ma un ufficio. Un certo angelo può essere Raffaele una volta e Gabriele un’altra, può essere che in un momento non ci sia alcun Raffaele o che ce ne sia più di uno.

Questo discorso non vale solo per gli uffici angelici, ovviamente, ma anche per gli uffici demoniaci. Diremo quindi satan chi svolge il tale ufficio in un certo momento. Non è che il demone non ci sia: c’è, esiste, ma il nome rimane un ufficio, non una natura individuale.

Ecco un esempio straordinario. Nm 22, 22, tradotto letteralmente, dice: si pose, l’angelo di Yahweh, sulla via come satan. L’angelo poi appare a Baalam, e gli dice: anoki yasati lesatan, sono venuto per fare il satan (Nm 22, 32). Tale angelo, come tutti gli angeli della Torah (cfr. Gn 18), è il Signore stesso. Si tratta forse di un uso traslato, come nome comune? Ciò non toglie l’essenza di ciò che stiamo vedendo: sembra incredibile, ma davvero Dio stesso qui copre l’ufficio del satan, senza bisogno né di angeli né di demoni.

La domanda ora è: ma se tali nomi indicano degli uffici (e non degli individui), cosa impedisce ad un essere terreno, anziché uno angelico, di svolgerlo? In effetti, niente.

L’Apocalisse chiama angeli quelli che, evidentemente, erano dei responsabili umani, come oggi i vescovi delle Chiese con policy episcopale (All’angelo della chiesa di Filadelfia scrivi… Ap 3, 7). Si tratta forse di un modo figurato, metaforico di parlare? No: i responsabili della Chiesa sono letteralmente angeli perché letteralmente stanno svolgendo quella funzione. In Mt 16, 24 Gesù dice a Pietro: va via da me, satana! Stava forse parlando con qualcun altro oltre a Pietro, qualcuno di invisibile? Forse Satana stava possedendo Pietro? Nulla di tutto ciò: Pietro stava letteralmente svolgendo quella funzione in quel momento, perché era d’inciampo al Cristo.

La cosa che ci colpisce è che, se un essere umano può coprire, potenzialmente, qualsiasi ufficio angelico e demoniaco, la stessa cosa può dirsi facilmente anche per gli animali.

Può un animale agire come satan, agire come un avversario, cioè essere fonte di tentazioni e mettere alla prova? Certamente può. Anche un animale domestico, in effetti: basti pensare ad alcuni eccessi, per esempio quando l’animale diventa un sostituto dei figli, e quindi una tentazione. Questa è un’ulteriore sofferenza, teologicamente significativa, dell’animale, ma anche un promemoria al mantenere con l’animale il giusto rapporto, che sta nell’essere immagine di Cristo per lui.

Ma, come un animale può coprire un ufficio escatologicamente negativo, così, come l’uomo, ne può coprire uno positivo. Il medico umano letteralmente copre l’ufficio di Raffaele, del rapael: in questo senso non c’è divisione netta tra la medicina naturale e il miracolo di guarigione (cfr. Tb 6), perché lo stesso agire umano ha un chiaro valore spirituale (pure se il medico non lo sa). Ma questo, di fatto, vale anche per gli animali che fanno pet therapy: anche loro, oggettivamente, coprono quell’ufficio. E quando diciamo che sono angeli con la coda, possiamo effettivamente dirlo in modo molto letterale.

Conclusione

Riassumendo:

  • gli animali sono dotati di anima e spirito;
  • gli animali avranno parte nel mondo che verrà;
  • non essendo capaci di un tale rapporto con Dio, il loro stato nel mondo che verrà non può essere descritto come paradiso o inferno;
  • gli animali hanno invece un rapporto mediato con Dio, vedendo Cristo nell’uomo;
  • l’uomo deve agire, nei confronti dell’animale, di conseguenza a questo suo ruolo;
  • è legittimo mangiare animali, in quanto è l’animale stesso che lo concede (ma è legittimo anche non mangiarli);
  • la vita dell’animale rimane sacra, e non si può mai davvero separare la macellazione dall’aspetto rituale e sacrificale;
  • la sofferenza degli animali ha, come la sofferenza umana, un valore teologico;
  • anche gli animali, come gli uomini, sono capaci di coprire uffici angelici e demoniaci.

Questo, in sunto, è quello che io credo essere il valore teologico della vita animale.

Alessio Montagner


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