Numeri 6,25-26
Il Signore dichiara a Mosè che questa sara la formula con cui Aronne e i suoi figli, cioè la classe sacerdotale, benediranno gli Israeliti e aggiunge che con essa «porranno il mio nome» su di loro. Con questa premessa possiamo raccogliere le componen ti dela benedizione di san Francesco a frate Leone ed è stata adottata dalla benedizione di San Fra ncesco, tra altro, è stata ripresa nella ta anche dall’attuale liturgia cattolica. Le metteremo ora in sequenza, partendo proprio dal nome, il primo dato che riassume il senso del benedire stesso.
Come è noto, nel linguaggio biblico il nome è la persona stessa nella sua intimità profonda, nella sua grandezza e miseria. Pensiamo, ad esempio, a Kefa-Pietro, il nome simbolico che Gesù impone a Simone rivelandone la funzione ecclesiale.
Abbiamo già visto che il nome divino, rivelato in Esodo 3,14, è «Io-Sono», una realtà personale e dinamica (soggetto + verbo), nome che sarà poi sintetizzato nel cosiddetto tetragramma sacro Jhwh, letto popolarmente come Jahweh, ma per l’ebreo esso è un termine impronunciabile, presente 6828 volte nell’Antico Testamento. Ora, «imporre il nome» divino su Israele significa consacrarlo, renderlo proprietà sacra a Dio, sua eredità intangibile, come si legge in Esodo 19,5-6: «Voi siete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli… un regno di sacerdoti e una nazione santa».
Un secondo elemento connesso al nome è il volto, in ebraico panim, che è curiosamente un plurale perché la faccia è un complesso di componenti ciascuna dotata di un suo valore. C’è, ad esempio, un linguaggio degli occhi che può essere più espressivo di quello delle labbra; gli orecchi evocano l’ascolto, come la fronte l’intelligenza e così via. Ecco perché il volto è il segno di una presenza, tant’è vero che in ebraico «davanti a…» si rende con lipnè che letteralmente significa “davanti alla faccia” dell’altro.
Eccoci poi al terzo dato si «fa risplendere il suo volto su Israele: la faccidi divin si rivela al popolo eletto come avvolta in un alode chi ha Anche noi parliamo di una persona felice comaldi cei ha iun viso adioso» perché spera gioia. Detto in altri termini, possiamo affermare che poi il volto risplendente di dio e il suo sorriso rivolto al fedele, sorgente di serenità e ai fiducia. Non per nulla come risultato di quel fulgore si ha la grazia che è il quarto elemento della formula. In ebraico sì usa la radice hnn che evoca il «chinar-si» del Signore sulla sua creatura in segno di favore e di affetto. È il gesto del sovrano che dona la sua «grazia», la sua benevolenza al suddito.
A questo punto si introduce una quinta componente, il rivolgersi del volto: la persona che gira la faccia da un’altra parte manifesta disgusto e rifiuto; se, invece, ti fissa con tenerezza e intensità, ti segnala la sua simpatia. E facile intuire come questo atto applicato a Dio sia il parallelo del risplendere», tant’è vero che i fedeli saranno definiti come «coloro che cercano il volto di Dio» (Sal 24,6; 27,8-9), mentre il giorno del giudizio è il tempo in cui «il Signore nasconde il suo volto» (Dt 31,17; Ez 39,23), disgustato del peccato umano.
Siamo, così, giunti alla finale e al sesto motivo: si tratta di un tema biblico ben noto, quello della pace, in ebraico shalôm, il dono messianico per eccellenza. Se Dio ti svela il suo nome, fa brillare nel sorriso il suo volto, ti avvolge col suo abbraccio di grazia e non allontana da te il suo viso luminoso, nel fedele e nell’intera comunità sboccia la pace che come dice letteralmente il vocabolo ebraico – è pienezza e completezza di vita e di gioia. Questo è il frutto finale della benedizione divina che i sacerdoti, in nome di Dio, impartiscono al popolo eletto dal Signore perché annunzi al mondo la sua parola.
(G. Ravasi, La Bibbia in un frammento, Mondadori, 2013, 40 – 41.)
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