
Oggi, 19 settembre, Napoli vivrà nella sua cattedrale il rito dello scioglimento del sangue di San Gennaro, suo patrono: le ampolle che custodiscono il sangue coagulato del santo vengono portate in processione in cattedrale, dove, durante la messa, si attende che il santo ottenga il prodigio di far liquefare il sangue. Un legame, quello tra Napoli e San Gennaro, che va al di là della semplice ricorrenza religiosa, per assumere un carattere identitario: Napoli si identifica con il suo patrono, accorre in massa al rito, invoca il prodigio dello scioglimento del sangue con insistenza, quasi con prepotenza.
In prima fila è seduto un gruppo di donne, perlopiù anziane, perlopiù provenienti dal Molo Piccolo, che già da nove giorni prima ha cominciato a impetrare la grazia con rosari e litanie: indossano al collo un medaglione con l’immagine del santo, e intonano a ripetizione un canto intervallato da invocazioni, persino da imprecazioni, se il prodigio tarda ad arrivare, perché il mancato scioglimento del sangue sarebbe indizio di sicura sciagura per la città. Solo loro possono rivolgersi a San Gennaro con una tale confidenza, arrivando addirittura ad apostrofarlo con l’appellativo di “faccia gialla”, gialla come l’oro di cui è ricoperto il busto del santo. Sono le cosiddette “Parenti di San Gennaro”, e le loro tracce risalgono almeno al Seicento: si dicono eredi di Eusebia, l’anziana nutrice che, secondo la leggenda, avrebbe raccolto il sangue del santo nelle ampolle.
Questo fenomeno è stato studiato da antropologi e musicologi come Roberto De Simone, e raccontato ad esempio nel documentario Jesce e facci grazia di Paolo Iorio del 2003. C’è stato persino chi ha provato ad “attualizzare” il loro canto, come l’attore e musicista Gianni Aversano, che nel 2006 con il suo ensemble Napolincanto lo incluse nel suo album Napule, popolo ‘e Dio, dedicato alla tradizione religiosa partenopea.
Perché questo interesse?
«All’epoca abitavo ai Vergini, il Duomo era la mia parrocchia, – racconta Gianni Aversano. – E, andando alla novena di San Gennaro, mi colpiva il ritornello, più simile a quello di una tarantella e così insolito per un canto religioso. Così ho tentato di rendere questo canto devozionale più “pop” e “latino” per facilitare l’ascolto da parte di un orecchio moderno, anche nelle situazioni più informali come in automobile, e per veicolare quei contenuti a un pubblico nuovo.»
Molti, soprattutto intellettuali, storcono il naso davanti a queste manifestazioni di devozione popolare, considerandoli sostanzialmente reminiscenze pagane. Che cosa ne pensa un musicista?
«Mi ha sempre colpito questo gridare delle “parenti” al santo, non perché si tratti di eredità pagana, ma perché è l’uomo che istintivamente si esprime così: è l’essere dell’uomo, che ha bisogno di relazionarsi e di chiedere, come i bambini. Personalmente sono scettico riguardo al prodigio in sé, ma non posso negare che sia un desiderio dell’uomo di avere la vicinanza del sacro, di toccarlo, di carezzarlo, persino di insultarlo se necessario. L’aspetto dell’istinto esiste, e negarlo significherebbe negare la totalità dell’uomo.»
Dunque stiamo attenti a liquidare queste testimonianze della religiosità popolare come “pagane” o “superstiziose” senza avere uno sguardo integrale sull’uomo e la sua interiorità.
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