Sant’Agostino d’Ippona. Un breve profilo storico. #cronachedelcristianesimo

Uomo di profondo acume speculativo, Agostino elaborò un sistema teologico-ecclesiologico in cui confluivano la tradizione biblica e la filosofia classica. Non solo il suo pensiero fu fondamentale per lo sviluppo del cristianesimo occidentale, ma i suoi valori morali e la sua pietà personale rimasero normativi nel cristianesimo medievale e nella Riforma.

La vita di Agostino si colloca in un’epoca per molti versi cruciale nella storia del cristianesimo. Il tardo Impero romano si stava disintegrando e il suo crollo avrebbe devastato il senso pubblico di stabilità e continuità politica. La Chiesa cristiana, dopo aver superato le persecuzioni, entrava in un periodo di consolidamento dottrinale e istituzionale.

La giovinezza

Agostino, vale a dire Aurelius Augustinus, nacque il 13 novembre del 354 a Tagaste (l’attuale Souk-Ahras, in Algeria) da un padre pagano, Patrizio, e da una madre cristiana, Monica. L’influenza di Monica su Agostino fu enorme, anche se da principio egli non seguì la madre lungo le vie della fede. Del resto la stessa Monica aveva deciso di non farlo battezzare da infante, facendogli impartire solo il rito della croce sulla fronte e del sale detergente sulle labbra.

Dopo i primi studi sotto i maestri locali, a quindici anni Agostino fu mandato a Madauro per continuare la sua educazione. Qui iniziò un periodo di sregolatezze che continuò quando si recò a Cartagine per gli studi avanzati. In quella città prese una concubina e generò un figlio, Adeodato, che significa “dono di Dio”, al quale Agostino si riferiva come “figlio del mio peccato”. A Cartagine, l’educazione del Nostro si concentrò principalmente sulla sua formazione di retore e avvocato, campo in cui divenne molto abile.

In questo periodo, Agostino si appassionò al manicheismo, un movimento religioso dualistico di matrice gnostica che allora stava conoscendo un’ampia diffusione. L’enfasi manichea sulla natura malvagia della carne ebbe un’influenza di vasta portata su di lui, tanto da condizionare in modo pesante anche la sue successive idee relative alla peccaminosità di base del genere umano e alla intrinseca debolezza della carne.

Nel 373, Agostino lesse un’opera oggi perduta di Cicerone, l’Hortensius, che accese in lui quell’amore per la filosofia che lo avrebbe poi accompagnato per tutto il resto della sua esistenza. Indotto dalle incessanti suppliche, preghiere e sogni vividi di Monica, si rivolse alle Scritture cristiane, ma ne rimase assai deluso. In confronto alla “prosa maestosa di Cicerone”, la Bibbia gli sembrò indegna. Trovò crude alcune sezioni della Genesi e mise in dubbio l’integrità morale di alcune figure dell’Antico Testamento.

Agostino tornò a Tagaste, dove iniziò a insegnare retorica. Patrizio era morto, non senza prima essersi fatto battezzare su insistenza di sua moglie Monica, la quale, saputo dell’adesione del figlio al manicheismo, gli negò l’ingresso sotto il suo tetto.

Nel 380, il Nostro completò il suo primo libro, De pulchro et apto (Bellezza e proporzione), un’opera sull’estetica che non ci è però pervenuta. In quel periodo riunì intorno a sé un gruppo di studenti che divennero suoi intimi amici. Tra questi, Alipio e Nebridio, che, come lui, diventeranno sacerdoti e vescovi della Chiesa africana.

Il dolore per la morte di un amico d’infanzia spinge Agostino a tornare a Cartagine. Lì si interessò agli Scettici (la Nuova Accademia) e cominciò a prendere intellettualmente le distanze dalle dottrine manichee. L’insoddisfazione per la condotta dei suoi studenti, lo spinse poi a tentare una nuova strada e a trasferirsi a Roma, dove si ammalò. Una volta guarito, iniziò a insegnare retorica. Grazie alla sua crescente notorietà e all’aiuto di amici, riuscì ad aggiudicarsi un posto di oratore pubblico a Milano, dove all’epoca spesso risiedeva la corte imperiale. Fu in questa città che fece quello che probabilmente fu l’incontro più importante della sua vita. Qui, infatti, conobbe il vescovo Ambrogio, la cui abilità come retore era leggendaria. Da principio fu proprio questa fama che spinse Agostino a volerlo incontrare. Ambrogio gli mostrò come l’interpretazione allegorica della Bibbia riuscisse a dare alla stessa un significato e una profondità insospettata, il che lo spinse ad un ripensamento in merito al valore spirituale di questo testo.

A lui si unirono presto Monica, diversi cugini, il fratello, gli studenti, l’amante e il figlio. Circondati da un congeniale falansterio africano, Agostino e i suoi collaboratori furono introdotti a Platone attraverso gli insegnamenti di Plotino. Ciò che chiaramente attraeva maggiormente il Nostro era la possibilità di combinare il platonismo con la cosmologia cristiana. Egli vedeva nella concezione neoplatonica di Dio una chiave per comprendere il “Dio che era in Cristo”.

Da questo inizio Agostino approfondì il platonismo, leggendo Platone nelle traduzioni latine. In Platone, egli trovò le risposte alle domande sull’origine e sul significato del male che lo avevano indotto ad aderire al manicheismo. Combinò la dottrina del Logos con l’idealismo platonico e il Vangelo secondo Giovanni con gli scritti di Plotino, riconciliando la sapienza greca con la fede ebraico-cristiana. Il risultato fu una metafisica platonica: il Bene assoluto come centro di tutta la realtà, che trascende il pensiero e l’essere concreto.

Al fine di contrarre un matrimonio con una giovane ereditiera, Agostino decise di separarsi dalla sua amante. In attesa però di convolare a nozze con la sua promessa sposa, incapace di frenare i suoi istinti, questi si prese ben un’altra. Tali conflitti tra le sue azioni e i suoi ideali, però, lo tormentavano profondamente. Leggeva regolarmente la Bibbia, ascoltava Ambrogio e discuteva con gli amici della vita di coloro che si erano convertiti grazie alle Scritture.

La conversione

La svolta si ebbe nell’agosto del 386. Le severe richieste etiche della predicazione di Ambrogio si unirono alle continue suppliche di Monica affinché Agostino diventasse cristiano. “Ero agitato”, scriverà poi, “sopraffatto da una violenta collera con me stesso per non aver accettato la tua volontà e non aver aderito alla tua alleanza” (Confessioni 8.8). Improvvisamente, mentre si trovava in giardino, sentì la voce di un bambino che cantava “Tolle et lege” (“Prendi e leggi”). Prendendo la Bibbia, lesse il primo passo che lo colpì, Romani 13,13-14: “non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri”. Agostino subì una drammatica conversione, una profonda esperienza di trasformazione che sfociò in un completo abbandono a Dio.

A questo punto, i progetti di matrimonio vennero accantonati e il Nostro puntò a diventare un filosofo cristiano. A tal fine portò il suo gruppo di amici e studenti, insieme ad Adeodato e Monica, a Cassiciacum, una tenuta di campagna a nord di Milano. Qui si dedicò al dibattito e alla scrittura. Opere di questo periodo, come il De beata vita e il De ordine, mostrano il progressivo slittamento dei suoi interessi dai temi propriamente filosofici a quelli teologici.

A Milano, nella Pasqua del 387, insieme ad Adeodato e Alipio, Agostino fu battezzato da Ambrogio. Decise quindi tornare in Africa e, assieme alla famiglia, si recò a Ostia, progettando di prendere una nave per Cartagine. Qui però sua madre morì.

Tornato a Roma, Agostino si immerse nella scrittura. Il De immortalitate animae (Sull’immortalità dell’anima) e il De quantitate animae (Sulla grandezza dell’anima) rivelano chiaramente come ormai la sua riflessione avesse un orientamento di tipo biblico. Rientrato poi nella sua terra natale, stabilì un ritiro laico, un monastero, per la contemplazione filosofica, con sede nella sua piccola tenuta di Tagaste. Lui e i suoi amici si proponevano di essere servi di Dio. Qui compose il De vera religione, che assume la Trinità come fondamento della vera religione e vede nel cristianesimo la consumazione dell’insegnamento di Platone.

L’ordinazione sacerdotale

A quel tempo, Agostino non pensava di diventare sacerdote, ma durante una sua visita Ippona (l’attuale Annaba, in Algeria) nel 391, probabilmente su istigazione dell’anziano vescovo Valerio, la folla lo spinse ad accettare l’ordinazione presbiteriale. Ricevuta l’ordinazione, questi chiese un congedo per potersi ritirare a studiare intensamente le Scritture. Dopo di ciò fu pronto ad assumere le sue funzioni di parroco, usando Paolo come guida e ideale per il ministero.

Valerio gli concesse il permesso di fondare un monastero, che divenne il seminario di Agostino per la formazione dei futuri sacerdoti e vescovi. Ma il vecchio vescovo fece ancora di più, violando la tradizione che prevedeva che in presenza del vescovo fosse sempre questi a predicare: chiese ad Agostino di tenere regolarmente l’omelia durante la messa. Questa pratica divenne una responsabilità che durò tutta la vita e che portò il Nostro ad affermarsi come maestro di omiletica. Con una mossa senza precedenti, poi, convinse Valerio che la Chiesa cattolica doveva opporsi a manichei, pagani e irreligiosi di ogni genere. Nel 393, il Concilio generale d’Africa si riunì a Ippona e Agostino vi pronunciò il suo discorso, De fide et symbolo (Sulla fede e il credo), un’accorata richiesta di riforma cattolica e di evangelizzazione. Questo fu l’inizio di regolari concili nella Chiesa africana che lo videro costantemente impegnato come il principale relatore.

L’ordinazione episcopale

Dato l’ormai indiscusso prestigio di cui Agostino godeva, Valerio, temendo che la sua nomina a vescovo di una qualche sede vacante potesse portarlo via dalla sua diocesi, chiese che questi fosse nominato suo coadiutore. Nel 395, quindi, ricevette l’ordinazione episcopale. Valerio morì l’anno successivo, lasciando Agostino da solo alla guida della diocesi di Ippona.

Due anni dopo essere diventato vescovo, l’Ipponate, ormai quarantatreenne, iniziò la stesura sue Confessiones (Confessioni), quella che è da sempre la suo opera più letta ed apprezzata. Scrisse queste pagine con totale sincerità, rivelando al mondo la sua angosciosa lotta con se stesso, la sua concupiscenza, la sua volontà personale e il suo orgoglio. Il suo scopo era quello di dare a Dio la gloria per la sua redenzione, di creare un inno di lode e di ringraziamento. Le Confessioni erano al contempo un’opera teologica in cui Agostino presentava le sue posizioni sull’Incarnazione e sulla Trinità. Nei tre libri conclusivi propose uno studio sulla memoria, sul tempo e sulla Genesi, intrecciando l’opera dello Spirito Santo all’atto della creazione.

Polemiche antimanichee

Sin dopo aver assunto l’incarico di sacerdote a Ippona, Agostino aveva prodotto una serie di scritti con i quali cercava di demolire le dottrine manichee alle quali lui stesso un tempo aveva aderito. Denunciò la cosmologia manichea, con la sua visione dell’umanità e del peccato, e soprattutto con il suo concetto di Dio come avente attributi e caratteristiche anatomiche umane. L’errore che Agostino ripudia ripetutamente è l’attribuzione del male alla divinità. I manichei dualisti sostenevano che il bene e il male avessero origine da due principi distinti ed avessero entrambi consistenza ontologica. Per Agostino, l’unico vero Dio non poteva essere incolpato dell’esistenza del male, che non aveva una consistenza ontologica propria, ma era propriamente l’assenza di bene. Nel 392, si impegnò in un dibattito pubblico con il vescovo manicheo Fortunato. Da consumato retore, egli demolì il suo interlocutore a tal punto durante i primi due incontri che questi evitò di presentarsi per il terzo.

Contro i donatisti

La difesa di Agostino della coerenza degli insegnamenti cattolici è esemplificata dai suoi contributi all’ecclesiologia. Egli definì lo status e il ruolo del vescovo non solo come amministratore, ma anche come insegnante, interprete e difensore della genuina dottrina. Il vescovo era responsabile di definire e difendere l’ortodossia, attraverso l’uso dei pronunciamenti dei concili e delle Scritture, e di sradicare l’eresia. In nessun momento della sua carriera ecclesiastica questo problema venne messo a fuoco più chiaramente che nel suo lungo e doloroso conflitto con i donatisti.

Il donatismo era stato causa di un grande scisma che aveva interessato quasi esclusivamente la Chiesa africana, dividendola in campi belligeranti. I donatisti accusavano i cattolici di avere un sacerdozio imperfetto e quindi di non avere veri sacramenti. Contro questa visione, Agostino sostenne lucidamente che l’efficacia dei sacramenti non dipende dal valore del sacerdote. “La mia origine è Cristo, la mia radice è Cristo, il mio capo è Cristo”, affermava. “Il seme da cui sono nato è la parola di Dio… Non credo nel ministro da cui sono stato battezzato, ma in Cristo, che solo giustifica il peccatore e può perdonare la colpa” (Contro Petiliano 1.1.7).

L’Ipponate respingeva con forza l’idea dei donatisti secondo cui i cattolici avrebbero dovuto essere ribattezzati per unirsi alla Chiesa donatista. Egli proclamava l’unità della Chiesa universale e sottolineava che il battesimo da solo non è efficace se il peccatore non ritorna al gregge di Cristo. L’identità della Chiesa non risiede nella singolarità di ciascun cristiano, ma nell’unione dei cristiani con Cristo. La Chiesa non è costituita solo da santi, come credevano i donatisti, ma comprende sia santi che peccatori, sia penitenti che impenitenti. Agostino insisteva sul fatto che i membri più deboli della Chiesa avrebbero dovuto essere pazientemente tollerati, come insegnato dalla parabola del grano e della zizzania. Grazie all’impegno del vescovo di Ippona, furono promulgate severe leggi imperiali contro i donatisti, il cui clero fu bandito. Nel 415, fu vietata loro la possibilità di riunirsi in assemblee religiose, pena la morte.

Nell’opera De libero arbitrio, scritta tra il 388 e il 396, Agostino cercò di spiegare l’apparente contraddizione tra l’esistenza del male nel mondo e la bontà di una divinità onnipotente. Secondo Agostino, il male era il risultato del libero arbitrio di Adamo. Dio non avrebbe potuto dare agli esseri umani la completa libertà senza concedere loro la possibilità di fare il male o il bene. A causa del peccato di Adamo, tutta l’umanità ereditò una propensione al male, quindi tutti gli uomini da Adamo in poi sono stati peccatori. Solo la grazia di Dio può dare all’uomo la possibilità di superare questa inclinazione. Nessuna buona azione compiuta liberamente dagli uomini e dalle donne avrebbe potuto espiare la caduta originaria di Adamo. Dio ha offerto la salvezza a coloro che erano disposti a ricevere la sua grazia, sapendo che molti l’avrebbero rifiutata. Per l’umanità, la possibilità della dannazione eterna è il prezzo della libertà morale. La prescienza divina non annulla la libertà umana; Dio semplicemente conosce le scelte che gli esseri morali liberi faranno.

Contro i pelagiani

Di idee diverse era il monaco Pelagio, con il cui pensiero Agostino iniziò un confronto che avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia della teologia cristiana. Sconvolto dall’immoralità grossolana che riscontrava nel mondo, Pelagio asseriva che questa ricadeva nella piena responsabilità degli esseri umani. Gli uomini erano pienamente liberi e il peccato di Adamo non aveva avuto nessuna ripercussione sull’uomo, ma doveva essere considerato solo come un cattivo esempio dato dal progenitore dell’umanità. La visione pelagiana ottenne un largo consenso e fu sostenuta da Giuliano, vescovo di Eclano, che divenne il principale avversario teologico degli ultimi anni di Agostino. Contro questa scuola di pensiero Agostino scrisse un corpus di circa quindici opere. La controversia con il pelagianesimo diede luogo a un ampio dibattito sulle questioni della libertà umana, della responsabilità e della relazione dell’umanità con Dio.

Pelagio sosteneva che ciò che una persona fa, sia questo “lodabile o biasimevole”, dipende completamente dall’individuo. Egli credeva che la natura umana avesse intrinsecamente la capacità di essere virtuosa senza necessariamente dipendere dalla grazia divina. Agostino, invece, nelle sue opere De Spiritu et littera (Sullo Spirito e la Lettera) e De natura et gratia (Sulla Natura e la Grazia) sottolineava come solo la grazia di Dio possa consentire all’umanità decaduta di realizzare qualcosa di degno. La vera libertà, secondo Agostino, era legata alla grazia divina e non alla natura umana.

Va sottolineato che egli non considerava Dio responsabile del peccato, né pensava che l’obbedienza alla volontà divina annullasse la libertà umana. Sottolineava invece che quando un individuo pecca, non può incolpare Dio, ma deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni. In altre parole, Agostino riconosceva che l’uomo ha una volontà libera, ma che tale libertà poteva essere rettamente indirizzata solo attraverso la grazia divina.

Nelle sue opere De praedestinatione sanctorum (Sulla predestinazione dei santi) e nel De dono perseverantiae (Sul dono della perseveranza), il Nostro presenta la grazia come un dono indipendente dal merito umano. Egli riconosce che il motivo per cui alcuni sono celti per la vita eterna e altri per la morte eterna rimane un mistero sacro, nascosto nella sapienza eterna di Dio. Agostino sottolinea che la buona volontà e le buone opere sono possibili solo attraverso la grazia di Dio e che l’umanità non può salvarsi da sola. La salvezza è un’opera divina. Per descrivere la relazione tra l’uomo e Dio, egli ricorre ad una particolare analogia: come un bambino che ha bisogno costante di cure genitoriali, l’umanità ha bisogno della grazia divina per vivere in armonia con l’ordine dell’essere e riconoscere la propria immagine divina.

Pelagio si scherniva di fronte a queste idee e riteneva che l’uomo dovesse perfezionarsi e raggiungere la virtù in modo autonomo. Egli credeva che l’umanità fosse intrinsecamente capace di raggiungere la perfezione e che tale perfezione fosse un obbligo. Agostino, al contrario, sosteneva in modo inamovibile che l’uomo non poteva redimersi da solo e che tutte le virtù presenti nella natura umana erano in realtà un dono di Dio.

In sintesi, il dibattito tra Pelagio e Agostino riguardava la concezione della grazia divina e della volontà umana. Mentre il primo enfatizzava l’autonomia e la capacità intrinseca dell’uomo di raggiungere la perfezione, il secondo sottolineava l’assoluta dipendenza dell’uomo dalla grazia di Dio per compiere azioni virtuose e per ottenere la salvezza.

È interessante notare che Pelagio e Agostino non si incontrarono mai faccia a faccia. Nel 410 Pelagio si recò a Ippona, sperando di incontrare Agostino. A tal fine, questi aveva annunciato il suo arrivo in città, ma quando la visita ebbe luogo, Agostino era assente. Quest’ultimo ottenne infine la condanna di Pelagio e del pelagianesimo nel 431 al Concilio di Efeso.

I sacramenti

Alla visione agostiniana della grazia si affianca il concetto di Chiesa: i sacramenti sono opera di Dio e solo nella Chiesa cattolica i sacramenti raggiungono la loro funzione appropriata. I sacramenti sono segni visibili che rappresentano la realtà spirituale invisibile, simboli esteriori con i quali si manifesta la materia divina. La comunicazione dell’invisibile realtà divina, dell’invisibile potere divino, avviene nei sacramenti. Il simbolo esteriore, tuttavia, non ha il potere di trasmettere all’individuo la realtà divina se l’essere interiore non è sensibile alla comunione con Dio.

Senza i sacramenti non c’è salvezza. “Le Chiese di Cristo affermano come principio intrinseco che senza il battesimo e la partecipazione alla Cena del Signore è impossibile per qualsiasi uomo raggiungere il regno di Dio o la salvezza e la vita eterna” (De peccatorum meritis et remissione; Sul salario e la remissione dei peccati 1.34).

Trinità e cristologia

Riconosciuto già in vita come profondissimo teologo, Agostino chiarì numerosi punti della dottrina. Un contributo capitale fu da lui dato riguardo alla spinosa dottrina della Trinità con il De Trinitate (Sulla Trinità), un’opera scritta nell’arco di vent’anni (399-419). Nella sua visione della Trinità, l’Ipponate sottolineava che non ci sono tre dei, ma uno solo. Questi formano una “unità divina di una sola e medesima sostanza in un’uguaglianza indivisibile”. In questa Trinità “ciò che è detto di ciascuno è detto anche di tutti, a causa dell’indivisibile operare dell’unica e medesima sostanza” (Sulla Trinità 1.4.7; 1.12.25). Nel Padre, il credente conosce Dio come fonte dell’essere; in Cristo, il redentore; e nello Spirito Santo, il santificatore.

La prima parte del Sulla Trinità esamina la natura della fede. Citando le Scritture (soprattutto i passi falsamente interpretati dagli ariani – ad esempio, Giovanni 14,28, Giovanni 10,30, Marco 13,32), viene argomentata la divinità del Figlio e la sua relazione con il Padre. Viene chiarito che il Figlio non è in alcun modo subordinato al Padre. Per Agostino, “c’è una così grande uguaglianza nella Trinità che non solo il Padre non è più grande del Figlio, per quanto riguarda la divinità, ma nemmeno il Padre e il Figlio sono più grandi dello Spirito Santo” (Sulla Trinità 8.1.1). Lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio e gode della stessa natura essenziale. Le relazioni tra le persone della Trinità non sono di grado o di ordine. Il Padre è l’inizio di tutta la divinità, da cui nasce il Figlio. Lo Spirito Santo è il principio unificatore della divinità, “una certa comunione impronunciabile del Padre e del Figlio”. Ogni teofania è quindi un’opera dei tre, anche se in queste manifestazioni divine l’aspetto è spesso quello di una sola delle persone. Ciò è dovuto ai limiti della “creatura corporea” necessaria per una teofania.

Quando parla della Trinità, per indicare ciò che i greci chiamavano hupostasis, usa il termine latino “persona”, ma egli ammette francamente l’inadeguatezza di qualsiasi appellativo. In definitiva, la chiave per conoscere Dio in quanto la Trinità è l’amore, perché l’amore stesso implica una trinità “colui che ama, e ciò che è amato, e l’amore stesso” (Sulla Trinità 8.10.14). Ciò non toglie che la mente umana può vedere la Trinità “solo in un enigma”. Solo quando sarà liberato dalle restrizioni dell’essere fisico, l’uomo potrà comprendere completamente “perché lo Spirito Santo non è il Figlio, sebbene proceda dal Padre” (Sulla Trinità 15.24.45).

Agostino dichiarò che l’intera dottrina poteva essere riassunta come servizio a Dio attraverso la fede, la speranza e l’amore. Questo principio è alla base del suo Enchiridion. Prendendo come punto di partenza il Padre Nostro, egli sviluppa il tema di Cristo come mediatore e considera l’Incarnazione come manifestazione della grazia salvifica di Dio. Esplicita il Credo degli Apostoli e con rara sensibilità analizza il concetto di risurrezione.

Teologia della storia

Il 24 agosto 410 Alarico attacca la città di Roma. Figlio di una grande famiglia visigota, Alarico si considerava un difensore dell’Impero e un fedele cristiano. Il sacco di Roma durò solo tre giorni e la città non fu affatto distrutta, né fu la fine dell’Impero d’Occidente. L’effetto psicologico, tuttavia, fu terribile. “Se Roma può perire, cosa può essere sicuro?”, lamentava Girolamo. La risolutezza e l’affidabilità del governo erano messe in serio dubbio. Fu in risposta all’accusa mossa da parte dei pagani che i tanti mali che stavano accadendo all’Impero fossero la conseguenza dell’abbandono del culto delle antiche divinità romane a favore del Dio cristiano, che tra il 413 e 427 Agostino scrisse la sua opera più corposa; il De civitate Dei (La Città di Dio).

In questo scritto, si controbatte alle accuse dei pagani facendo notare come i cristiani, anziché condannare Roma, l’avevano salvata. L’opera prosegue con la sua brillante critica della cultura greco-romana, attingendo materiale illustrativo dai più grandi storici e scrittori. Agostino aveva un enorme rispetto e lealtà per quella cultura, ma la riteneva moralmente marcia. Egli raffigura la grossolana licenziosità e le oscenità relative a Liber e ad altre divinità. Al contrario, raffigura la salute, il vigore e la pulizia della vita cristiana. Così, mentre la Pax Romana si deteriorava, il Nostro si fece portavoce di un nuovo ordine sociale cristiano.

Morale

La Città di Dio illustra al meglio un aspetto di Agostino raramente riconosciuto: egli era un rigorista morale che non permetteva a nulla di ostacolare la rettitudine individuale o sociale. Né le relazioni personali né le aspirazioni individuali dovevano ostacolare il compimento della volontà di Dio. I piaceri peccaminosi erano intollerabili. Fu in parte la reazione al suo passato dissoluto a indurlo a una svolta completa, che lo portò a diventare il portavoce di una divinità etica e moralmente retta.

La scrupolosa osservanza del codice etico era richiesta gregge di Agostino, soprattutto al suo clero. Nel suo monastero, egli stabilì uno stile di vita che sarebbe diventato il prototipo di quello cenobitico. Si dice che alla sorella vedova, badessa del convento da lui fondato a Ippona, non fosse mai permesso di conversare con il fratello se non in presenza di una terza persona. Il uso moralismo deve però essere visto nel contesto del suo ideale di beatitudine.

Ultimi anni

Il 26 settembre 426 l’Ipponate nominò il suo successore, Eraclio, e fece in modo che quest’ultimo assumesse la responsabilità degli affari pratici della diocesi. Nel maggio del 429 l’esercito dei Vandali di Genserico passò dalla Spagna all’Africa e dilagò Mauretania, seminando scompiglio e desolazione. Il dominio romano in Africa crollò. Agostino morì il 28 agosto 430, mentre i Vandali assediavano la sua città. È annoverato tra i dottori della Chiesa col titolo di Doctor Gratiae.

Adriano Virgili


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