L’eros del Dio che s’incarna #novena2024

«Una voce! L’amato mio!
Eccolo, viene
saltando per i monti,
balzando per le colline» (Ct 2,8)

Queste sono le prime parole con cui ci accoglie la prima lettura.
Sorpresa, desiderio, entusiasmo, ardore giovanile di amori incandescenti. Questa l’immagine, che si esplicita, immediatamente dopo, in un’istantanea rubata alla natura: l’amato è paragonato ad auna gazzella od un cerbiatto. Animali diversi, senz’altro: ma accomunati dalla caratteristica di avere “l’unghia divisa” e ruminare[1]; dalla prima, discende un’innata eleganza nel passo, anche e soprattutto nei terreni pendenti o scoscesi. Un’immagine non nuova nella Bibbia, che paragona la sicurezza derivante dal camminare con Dio all’avere “i piedi come le cerve”[2], visto come la possibilità d’incedere, con sicurezza e leggiadria, anche per le vie più impervie, come se fossero agevoli e comode. Un’immagine di grande impatto, sottolineata dal seguito, che evidenzia la selvaticità dell’animale, che si apposta dietro un muro, per spiare dalle inferriate[3]. Paura di  essere visto e scoperto, oppure desiderio ardito di accedere alle stanze più segrete  dell’amata?
Dal canto suo, l’amata è, invece, paragonata ad una colomba. Da sempre il suo nitore, che richiama la neve di questa stagione invernale, è un richiama alla purezza, ma, anche alla precarietà di chi trova il proprio equilibrio sui ramoscelli più sottili degli alberi, grazie a quella leggiadria, che spalanca le proprie porte alla fragilità. Il testo prosegue richiamando immagini della natura primaverile (le primizie del fico, la vite in fiore), perché il tepore primaverile incoraggia ad andare incontro alla natura che si risveglia dal torpore della stagione invernale.
Alla richiesta di vederne il viso, si accompagna quella di udirne la voce. Senso quanto mai bistrattato in quest’epoca di schermi da toccare e video da vedere, quello dell’udito è un senso che richiama intimità, riservatezza e nascondimento. Ascoltare una persona cara non domanda solo la disponibilità dei padiglioni auricolari, ma richiede la presenza integrale della persona. Sedersi una di fronte all’altra, occhi negli occhi, dovunque si sia, è l’accorato appello, spesso silenziosamente posto, di chi si fa latore della carità dell’ascolto.  

Le immagini del Cantico, ardite e ardenti, sono il motivo per cui, a lungo, questo libro è rimasto quasi “segreto”, nonostante, da sempre, abbia abitato il canone biblico, già ebraico. Solo immagini per comprendere l’amore divino oppure amore puramente umano?
L’esegesi suggerisce sempre di non aver paura della generosità di lasciare aperte più strade. Senz’altro, lo spunto nasce dall’amore, per così dire profano, ma Benedetto XVI non ebbe, del resto, timore a lasciare spazio perché anche il divino possa accedere all’eros, come evidenzia in una sua enciclica:

«In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere. Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà « esserci per » l’altro. Così il momento dell’agape si inserisce in esso; altrimenti l’eros decade e perde anche la sua stessa natura. D’altra parte, l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono» [4].

La ‘pudicizia’ che ci assale all’improvviso al pensare che il Cantico dei Cantici sia all’interno della Bibbia è dovuta al legare l’eros alla genialità, motivo per cui creiamo un fissati invalicabile fra l’esperienza umana e quella divina. Inteso in senso ampio, tuttavia, cioè come amore di desiderio risulta persino evidente come sia imprescindibile assegnarlo a Dio. Basti pensare al desiderio di stringere alleanza con il popolo d’Israele e continuarla, al di là di ogni infedeltà. Per non parlare, poi, del desiderio di avvicinarsi all’uomo, realizzato nell’Incarnazione, che vede il suo apice nella libera offerta di Cristo sulla Croce, per la redenzione dell’uomo.
Se ci pensiamo bene, la riflessione di Benedetto XVI è davvero significativa: a lungo, abbiamo visto l’amore oblativo come il proprium cristiano. In realtà, un amore solamente oblativo, chiuso al desiderio, rischia di essere solo una forma imbelletteta di narcisismo e di esaltazione egotica. Il massimo amore oblativo,se non si lascio toccare dal desiderio del bene dell’altro, rasenta l’autocompiacimento, ma, soprattutto, non permette di mettersi in discussione in profondità.

Possa davvero essere ardente quanto assaporiamo nel cantico dei Cantici il desiderio di incontrare il Verbo che, fattosi carne, richiede al nostro amore la stessa concretezza, per saperlo vedere nella fragilità e nella necessità di chiunque si accosti; soprattutto, saperla vedere dove è meno evidente, perché la fragilità più autentica che ciascuno di noi custodisce, soprattutto dalla vista altrui, è precisamente quella che più necessita di essere accudita.

Maddalena Negri


Rif. Ct 2, 8-14
Fonte immagine: realizzata tramite IA con Canva


[1] Vd. Lv 11,3
[2] Cfr. Abacuc 3, 19 / Sal 18, 33
[3] V. 9
[4]  Deus caritas est, n. 7


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