La Preghiera di Manasse rappresenta uno dei testi più intensi e complessi della tradizione devozionale, un autentico percorso di pentimento e redenzione che ha attraversato secoli di storia e numerose traduzioni. Attribuita in maniera pseudonima a Manasse, figlio del re Ezechia di Giuda, essa si configura come una confessione appassionata e un inno di lode rivolto a un Dio capace sia di instaurare l’ordine nell’universo sia di accogliere il sincero pentimento dei peccatori. Il testo, originariamente trasmesso in greco, ha conosciuto successivamente diverse versioni in latino, siriaco ed etiopico, trovando infine spazio anche nelle Costituzioni Apostoliche del III secolo d.C. È presente, come noto, nei Cantici della Settanta inseriti alla fine di alcune versioni greche e latine di 2 Cronache ed ha uno stato canonico nell’Oriente cristiano.
Il testo inizia con un inno che esalta la maestà e la sovranità del Creatore, richiamando la storica alleanza instaurata con i patriarchi e ribadendo il legame eterno tra Dio e il suo popolo. Si legge, infatti, «Signore onnipotente, Dio dei nostri padri, di Abramo, Isacco e Giacobbe, e di tutta la loro stirpe giusta!» (1), una formula che non solo apre il testo, ma pone le basi per un rapporto intimo e fiducioso con il divino. Proseguendo, il testo celebra l’operato del Creatore, sottolineando la capacità divina non solo di creare, ma di ordinare l’universo secondo un disegno perfetto: «facesti il cielo e la terra con tutto il loro ordinamento» (2). Questa lode si intensifica con l’immagine del dominio sul caos primordiale: «che trattenesti il mare con la parola della tua autorità! Che chiudesti l’abisso e lo sigillasti col nome tuo terribile e glorioso!» (3). L’immagine del mare e dell’abisso diventa così simbolo del caos che solo la volontà divina può domare, rivelando una potenza al contempo temibile e fonte di adorazione.
Il testo continua evocando un timore reverenziale, un sentimento che nasce dal confronto dell’uomo con l’immensità di Dio: «Colui di fronte alla cui potenza tutto trema pieno di timore» (4). Esprime il riconoscimento dell’incommensurabile grandezza divina e, allo stesso tempo, la consapevolezza dell’insignificanza umana. Tale consapevolezza prepara il terreno per il successivo percorso di pentimento, poiché l’uomo, di fronte alla giustizia inesorabile di Dio, comprende di essere destinato a subire il peso delle proprie colpe. In questo senso, il testo afferma: «poiché lo splendore della tua gloria non è sostenibile, e irresistibile è la tua ira quando minaccia i peccatori» (5). evidenziando come la magnificenza divina imponga un rigoroso ed inevitabile giudizio contro l’errore umano. Tuttavia, questa severità non esclude la presenza di una promessa di misericordia, «mentre immensa e imperscrutabile è la tua promessa di pietà!» (6), che offre un barlume di speranza, suggerendo che, nonostante la giustizia divina, vi sia sempre la possibilità di redenzione per chi si pente sinceramente.
Il passo successivo sottolinea l’aspetto duale della natura divina, capace di infliggere una giustizia inesorabile ma altresì di manifestare una compassione infinita: «Perché tu sei il Signore altissimo, misericordioso, longanime e pieno di compassione, che si ricrede a proposito del male degli uomini» (7). Questa descrizione evidenzia il paradosso della divinità, in cui la severità del giudizio è bilanciata da una bontà che si estende a chiunque, anche a colui che ha commesso trasgressioni gravissime. Il testo prosegue ribadendo che il perdono non è destinato ai soli giusti, ma è concesso a chi, riconoscendo la propria condizione di peccatore, si rivolge umilmente al divino: «[Tu, o Signore, con la tua dolce bontà hai promesso il perdono per quelli che si pentono dei loro peccati, e con la tua magnanimità hai posto il pentimento per la vita dei peccatori]» (4). Questo messaggio diventa il cardine del percorso devozionale, in cui il riconoscimento delle proprie colpe apre la via alla salvezza.
A questo punto, il testo si fa estremamente personale, esprimendo la disperazione dell’oratore che si sente travolto dall’enormità dei propri peccati. Egli afferma: «Tu dunque, Signore Iddio dei giusti, non per i giusti hai posto il pentimento, per Abramo, Isacco e Giacobbe che non peccarono contro dite, ma hai posto il pentimento per me, peccatore, che più peccati ho commesso della quantità della rena del mare! [Tante furono le mie colpe, Signore, tante],e non sono degno di alzare gli occhi e guardare in alto verso il cielo, per l’enormità dei miei peccati!» (8-9). Con questa immagine, l’oratore esprime in maniera iperbolica il peso insopportabile delle sue colpe, paragonandole alla quantità immensa della rena del mare, e ammette la propria incapacità di confrontarsi con la gloria divina. Il linguaggio qui è carico di pathos, e trasforma il concetto di peccato in una prigione che imprigiona l’anima.
Il senso di oppressione derivante dal peccato si rafforza ulteriormente nell’immagine delle «ferree catene» che impediscono all’oratore di sollevare il capo: «il peso di molte ferree catene mi schiaccia e mi impedisce di sollevare il capo a causa dei miei peccati, e non vi è perdono per me, poiché ho suscitato la tua ira facendo ciò che è male di fronte a te, compiendo abomini e scandali in quantità» (10). Tale metafora, che trasforma il peccato in un vincolo fisico e palpabile, rende evidente l’impossibilità per l’uomo di elevarsi verso il divino senza un intervento salvifico. Di fronte a questo stato di condanna, l’oratore compie un gesto simbolico di sottomissione, affermando: «E ora piego le ginocchia del cuore, implorando la benevolenza che viene da te» (11). La piegatura delle ginocchia, intesa in senso figurato, simboleggia l’abbandono dell’orgoglio e l’accettazione della propria debolezza, aprendo così la via alla misericordia divina.
Nel momento centrale della confessione, l’oratore ammette esplicitamente la propria colpa: «ho peccato, Signore, ho peccato e riconosco le mie colpe» (12). Questa breve dichiarazione è il fulcro del pentimento, poiché accetta senza riserve la realtà del proprio errore, ponendo le basi per una successiva richiesta di perdono. La supplica si intensifica nel passo seguente, in cui l’oratore, sopraffatto dalla disperazione, invoca la clemenza divina: «Ti chiedo implorandoti, perdonami, Signore, perdonami, non lasciare che le mie colpe mi distruggano, non rimanere adirato per sempre, tenendo in serbo i miei mali! E non condannarmi alle profondità della terra! Perché tu, Signore, sei il dio di chi si pente» (13). Le parole qui trasmesse esprimono il timore di una condanna eterna e il desiderio ardente di essere liberato dalla prigione del peccato, evidenziando una fede di un uomo che, pur riconoscendo la propria indegnità, si affida con totale fiducia al perdono divino.
La speranza di redenzione emerge con forza nel verso successivo, in cui l’oratore si affida alla bontà di Dio: «e in me potrai mostrare la tua bontà, perché pur indegno mi salverai in ragione della grande tua pietà» (14). Un simile appello alla misericordia divina si chiude infine con una promessa solenne, che sancisce la rinascita spirituale: «e ti loderò per tutti i giorni della mia vita, poiché a te inneggiano tutte le potenze dei cieli, e tua è la gloria per l’eternità. Amen» (15). Questa dichiarazione finale non è soltanto un impegno di gratitudine perpetua, ma il culmine di un percorso che trasforma la disperazione in speranza, la colpa in una via di rinnovamento.
Oltre alla straordinaria intensità del messaggio devozionale, la storia della Preghiera di Manasse è altrettanto affascinante e complessa. La sua trasmissione in diverse lingue – dalla forma originale in greco alle traduzioni in latino, siriaco ed etiopico – testimonia il potere universale del messaggio di pentimento e misericordia, che ha saputo attraversare i confini culturali e storici. Le edizioni siriache, pur presentando almeno otto varianti significative, si accordano col testo greco per il nucleo teologico del pentimento, mentre la traduzione etiopica sembra aver recepito elementi dal Libro dei Vigilanti, ampliando il campo semantico e simbolico della preghiera. Le evidenze provenienti dai frammenti di Qumran (4Q380 e 4Q381), che fanno riferimento a una «Preghiera di Manasse, re di Giuda, quando il re di Assiria lo imprigionò», suggeriscono invece che la tradizione possa avere radici ancora più antiche, in una forma originaria in ebraico che ha influenzato le successive versioni. Questo processo di trasformazione, che ha visto il testo adattarsi alle esigenze liturgiche e teologiche di contesti diversi, è un esempio lampante della vitalità della tradizione devozionale e della capacità del messaggio di rimanere attuale nel corso dei secoli.
La datazione del testo, collocata generalmente tra la metà del II secolo a.C. e la metà del II secolo d.C., si inserisce in un periodo di intensi dibattiti teologici e trasformazioni sociali, durante il quale la cultura ellenistica influenzava profondamente il pensiero ebraico. In questo contesto, la composizione della Preghiera di Manasse rispondeva a una necessità di esprimere il dolore per l’idolatria e l’errore, offrendo al contempo una via di riconciliazione con un Dio che, pur essendo giusto, manifestava una misericordia inesauribile. La diffusione del testo, che ne testimonia la presenza sia nei Cantici della Settanta sia in documenti latini e apostolici, evidenzia come il messaggio di pentimento e redenzione abbia esercitato un’influenza notevole non solo sul giudaismo, ma anche sul cristianesimo emergente.
Il percorso storico della Preghiera di Manasse, dunque, è un esempio straordinario di come il testo sacro possa trasformarsi e adattarsi, mantenendo intatto il suo nucleo di significato nonostante le varianti testuali. L’interazione con altre tradizioni letterarie arricchisce ulteriormente il contenuto simbolico, collegando il percorso personale di pentimento a una dimensione cosmica in cui la giustizia divina si estende a tutta la creazione. Queste interconnessioni non solo ampliamo il campo interpretativo della preghiera, ma evidenziano anche il dialogo continuo tra diverse correnti teologiche che hanno contribuito a formare il pensiero religioso del periodo.
La Preghiera di Manasse, con il suo percorso che va dalla lode alla confessione e dalla disperazione alla speranza, rappresenta un modello di trasformazione interiore, in cui il riconoscimento delle proprie colpe scaturisce in un impegno a vivere in eterna gratitudine verso il divino. Essa incarna il messaggio che, nonostante il peso schiacciante del peccato, vi sia sempre una via di redenzione aperta a chi si abbandona con sincerità alla misericordia di Dio. Le immagini potenti, come quella delle «ferree catene» che imprigionano l’anima o quella del cuore che si piega in supplica, diventano simboli universali della condizione umana, in bilico tra il peccato e la possibilità del perdono. Questo messaggio, che ha saputo attraversare epoche e culture, continua a offrire conforto e guida a chiunque si trovi a confrontarsi con le proprie debolezze.
Adriano Virgili
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