Una donna promettente #recensioneclub #filmclub

Ci sono film che non si guardano soltanto, si attraversano e , “Una donna promettente”, opera prima di Emerald Fennell, è uno di questi. Dietro la superficie colorata e brillante, la musica pop e l’apparente leggerezza si nasconde un grido profondo, un dolore antico, una ricerca di giustizia che sfiora la disperazione. È la storia di Cassandra, interpretata da una bravissima Carey Mulligan, una giovane donna che non riesce a dimenticare la violenza sessuale subita da un’amica, e che decide di trasformare la propria vita in un cammino di vendetta o, forse, di memoria.

Di notte, finge di essere ubriaca nei locali per smascherare uomini che si fingono gentili, ma che
approfittano della debolezza altrui. Ogni incontro è una denuncia muta, un atto di ribellione contro un sistema che perdona i colpevoli e colpevolizza le vittime.

Ma più si entra nel cuore del film, più ci si accorge che non è davvero la vendetta il centro della vicenda: è la ferita. Una ferita che non è solo personale, ma collettiva, perché riguarda ogni volta in cui la dignità di una persona viene calpestata e il silenzio diventa complice. Cassandra non riesce a guarire perché intorno a lei tutti fingono che non sia successo nulla, la sua solitudine è quella di chi porta una verità scomoda in un mondo che preferisce dimenticare.

In questo senso, “Una donna promettente” diventa quasi una parabola moderna. Non c’è redenzione senza verità, non c’è guarigione senza che il male venga chiamato per nome. La protagonista non cerca solo di punire, ma di ricordare, ogni suo gesto è un modo per dire che la giustizia non può essere sepolta. Eppure, mentre si muove in questo labirinto di dolore, il suo cuore si consuma, la rabbia la tiene in vita, ma non la libera.

Il film allora ci pone una domanda scomoda, profondamente spirituale: come si guarisce da un torto che nessuno ripara? È possibile ritrovare pace senza vendetta? Fennell non offre risposte facili, ma ci costringe a guardare la verità con occhi limpidi. Forse la vera forza non è nel colpire, ma nel non lasciarsi corrompere dal male che si combatte.

Cassandra diventa così un simbolo della tensione tra giustizia e misericordia, tra dolore e amore. Il suo sacrificio finale, doloroso e quasi redentivo, parla di una giustizia che non si misura con la violenza, ma con la fedeltà alla verità. È come se la sua vita diventasse un’offerta: non una vittoria, ma un dono che smaschera l’ipocrisia e restituisce dignità a chi è stato dimenticato.

Alla fine, il film ci lascia turbati ma anche purificati. Ci ricorda che la luce non entra nelle nostre vite se non attraverso le ferite e che la memoria delle vittime è un luogo sacro dove Dio stesso continua a parlare, chiedendoci di scegliere da che parte stare. Cassandra sembra scegliere una forma di riscatto che ha il sapore del sacrificio. Non si limita a vendicare, ma a testimoniare. È come se dicesse: la giustizia può anche tardare, ma la verità non muore. E in questa offerta estrema si intravede una luce di redenzione.

“Una donna promettente” non è solo una denuncia sociale, ma una meditazione sul mistero del male e sulla possibilità del bene. È un film che inquieta perché mostra quanto sia difficile perdonare, ma anche quanto sia necessario, per non restare prigionieri dell’odio.

Come tutte le grandi storie, ci lascia con una domanda più grande di noi: chi sarei, io, se il dolore bussasse alla mia porta?

In fondo, Cassandra ci ricorda che la memoria delle vittime è sacra, e che ogni ferita non riconosciuta continua a gridare. Ma ci ricorda anche che solo la grazia può trasformare quel grido in speranza.

Alessandra Fusco


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