Sono noti col nome di terapeuti un gruppo di giudei, sia uomini che donne, che vivevano in una comunità nei pressi di Alessandra, in Egitto, nel I secolo d.C. e che ci vengono descritti come dediti al celibato. Di loro ci parla Filone di Alessandra nel De Vita Contemplativa, dove vengono additati come un esempio di eccellenza ebraica sulla base degli ideali stoici. Questo trattato seguiva un’opera perduta sul tema della vita attiva nella quale gli esseni erano definiti la più perfetta incarnazione ebraica della stessa.
In lingua greca, nel I secolo il termine therapeutai indica in modo generico coloro che servono, che assistono [Dio/gli dèi]”. Nell’uso di Filone il termine significa anche “assistenti devoti”, riferito ai sacerdoti e ai leviti, sia in senso metaforico che reale, e in forma specifica a Mosè (Det. 160; Spec. Leg. 3.135; Sacr. 13, 118-19, 127, cfr. 120; Post. 182; 184; Ebr. 126; Cont. 11; Fug. 42; Mos. 2.135, 149, 274, cfr. Mos. 2.67). Filone usa la parola therapeutēs in senso simbolico per indicare qualcuno che “frequenta” Dio per mezzo di una vita buona, ascetica, saggia e devota, come quella di Mosè, quindi uno che “guarisce le anime” (Plant. 60; Ebr. 69; Mut. 106; Congr. 105; Fug. 91; Migr. 124; Sacr. 127; Cont. 2, 90; Spec. Leg. 1.309; Virt. 185-86; Praem. 43-44, cfr. Prob. 75). Tuttavia, Filone utilizza questo vocavbolo anche in senso negativo per riferirsi a persone che frequentano o servono falsi dei o concetti (Ebr. 210; Legat. 97).
Nel De Vita Contemplativa Filone definisce il gruppo come dedito alla contemplazione mistica, alla musica e alla meditazione, e caratterizzato dalla “passione celeste” (Cont. 12), un’espressione che può riferirsi ad aspetti del primo misticismo merkavah. Il loro ascetismo è strettamente legato al desiderio di minimizzare gli aspetti del mondo materiale per concentrarsi su quello spirituale. Di conseguenza, questi devoti di Dio lasciano la loro città, la loro famiglia e i loro beni per vivere insieme in una località rurale, appena a sud di Alessandria (Cont. 13, 18-23). Ogni devoto ha la sua semplice capanna con una parte anteriore e una posteriore, quest’ultima chiamata semneion, “luogo di riverenza”, o monastērion, “luogo solitario”, dove studia la letteratura sacra, gli inni e gli scritti filosofici (Cont. 25). Pregano due volte al giorno, all’alba e al tramonto, e trascorrono il resto della giornata leggendo le Scritture, interpretandole allegoricamente, e componendo inni (Cont. 28-29). Sono definiti “studiosi di Mosè” (Cont. 63) poiché “hanno dedicato la loro vita personale e se stessi alla comprensione e alla contemplazione dei fatti della Natura, secondo le sacre istruzioni del profeta Mosè” (Cont. 64). Mangiano dopo il tramonto e il cibo viene fornito loro da membri della comunità che occupano un grado inferiore della stessa chiamati ephēmereutai, “giornalieri”, o diakonoi, “servitori” (Cont. 30, 34, 66, 75), anche se alcuni mangiano solo ogni tre o sei giorni (35).
Il sabato, i terapeuti si riuniscono seguendo una rigida gerarchia per ascoltare il più anziano (presbytatos) del gruppo (Cont. 79-80), che tiene un discorso (Cont. 30-31; cfr. 75) in un grande semneion diviso in due parti – rispettivamente per gli uomini e per le donne – da un muro alto da tre a quattro cubiti (Cont. 33), dopo di che consumano un pasto insieme in un symposion o “sala da pranzo”. Questo pasto consiste solo di pane con un condimento di sale (e issopo) e acqua di sorgente (Cont. 37). Il loro abbigliamento consiste in un exomis (semplice tunica da lavoro per gli uomini) o in un panno di lino (per uomini e donne) con un mantello di lana in inverno (38), il sabato vestono tutti con abiti bianchi (probabilmente di lino) (38, 66).
Prima dell’inizio di ogni cinquantesimo giorno, al sorgere del sole, il gruppo compie un rito speciale (Cont. 65-89). Sembrerebbe quindi che i terapeuti seguano un calendario di tipo solare, diverso da quello in uso presso il Tempio di Gerusalemme. In questa quarantanovesima sera, si dispongono in fila gerarchica con gli occhi e le mani alzate verso il cielo e pregano. Poi si mettono a tavola in ordine sparso, con gli uomini a destra e le donne a sinistra, su semplici letti di legno cosparsi di papiro locale. L’anziano della comunità pronuncia un discorso costituito da interpretazioni allegoriche della Scrittura, che tutti ascoltano con grande attenzione e in silenzio, dopo di che lo applaudono. L’anziano canta poi un inno, dopo il quale tutti gli altri cantano a turno. Vengono poi serviti pane e acqua, per ricordare “la tavola sacra nel vestibolo del sacro santuario del Tempio” (Cont. 81). Il pane e l’acqua sono assegnati “alla parte più eccellente dei sacerdoti, come ricompensa per i servizi resi” (Cont. 82). Quando il pasto è terminato, uomini e donne si alzano insieme in due cori al centro della sala da pranzo, ciascuno sotto la direzione di un maestro o di una maestra del coro, rispettivamente al posto di Mosè e Miriam, che guidarono cori di uomini e donne dopo la liberazione dall’Egitto (Es 15). Prima cantano separatamente e poi cantano e ballano insieme per tutta la notte (Cont. 89). Al sorgere del sole si rivolgono a est e tendono le mani al cielo per pregare, dopodiché tornano alle proprie capanne.
Alcuni studiosi hanno messo in dubbio la reale esistenza dei terapeuti, ma visto che Filone dice chiaramente che questi risiedevano nei pressi di una metropoli come Alessandria e non in una qualche località sperduta, è piuttosto difficile che se li sia inventati.
I terapeuti vanno collocati nel più ampio ambiente del giudaismo alessandrino del I secolo d.C. piuttosto che collegarli ad altri gruppi giudaici noti (come gli esseni). E’ più ragionevole vedere i terapeuti come espressione della più ampia tradizione esegetica e filosofica del giudaismo alessandrino, come una forma distintiva di esegesi allegorica e di ascetismo, in linea con le correnti della filosofia greco-romana, in particolare con lo stoicismo.
Adriano Virgili
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