Il leone ci ricorda san Marco, l’evangelista “breve”, direbbero i miei studenti, per aver scritto il Vangelo più corto. Ma anche incisivo. Tanto è vero che, a ben vedere, risulta chiaro come non si tratti affatto dell’abbreviazione degli scritti matteani o lucani, dal momento che, al contrario, negli scritti marciani troviamo alcuni brani inediti o più lunghi rispetto a quelli dei primi due evangelisti.
Eppure, se a lui convenne un leone quale simbolo, ci sarà ben un motivo che lo relazioni, in modo particolare, al Re della foresta. Nel suo vangelo, in modo particolare, troviamo descritta con particolare vivezza, regalità e virilità la resurrezione di Cristo, di cui enfatizza la regalità. Ecco dunque perché, del tetramorfo, all’evangelista Marco fu assegnato il leone, che richiama anche l’epiteto, di sapore apocalittico[1] di “Leone di Giuda”, con cui, in Cristo, è riconosciuto l’erede di quella dinastia, vittorioso sulla morte, come in una famosa preghiera attribuita a sant’Antonio[2].

“Leone” era chiamato anche un alto prelato, che si oppose al nazismo. Di Münster, per la precisione. Al secolo, il nome di battesimo era conte Clemens August Joseph Pius Emanuel Antonius von Galen (Dinklage, 16 marzo 1878 – Münster, 22 marzo 1946), cardinale di santa Romana Chiesa[3]. Una nobiltà che va di pari passo a quello del suo nome, imbastita di quel coraggio, senza il quale non avrebbe mai potuto dare voce a chi non aveva voce.
Leone di Münster, quindi: riconosciuto tale per la veemenza con cui emergeva, in un periodo in cui parlare contro il potere era particolarmente disagevole, senonché pericoloso. In un periodo in cui i buoni, al limite, cercavano il migliore modo per poter sopravvivere, la sua voce si erse, imperiosa a difesa delle tante vite minacciate dalla violenza del nazismo. Di quel totalitarismo che vestiva i soldati, che mandava a far stragi e a terrorizzare donne e bambini, con una cinta che recitava “Gott mit uns”.
Un nome. Uno soltanto. Uno tra i tanti di quelli che si opposero alla violenza, con altrettanta forza, ma senza imbracciare le armi. Sono molti più di quanto crederemmo. Rappresentano una luce, in un periodo buio, in cui anche la ragione pareva essersi offuscata.
In questi giorni, in cui al leone di san Marco si affiancano le celebrazioni civili, è bello affiancare la storia di alcuni ragazzi come tanti, che, in tempi difficili e burrascosi, scelsero di dire no. Accettarono di pagare l’alto prezzo che la libertà richiede, specialmente in alcuni luoghi e tempi della storia.

A costo di prendere botte, a costo di non avere certezza di tornare a casa, pur di vivere la libertà, si fecero una promessa: resistere “un giorno in più del fascismo”.
Così nasce OSCAR [4]. E, tramite un lavoro a quattro mani di Carla Bianchi Iacono[5] e Stefano Bodini, questa storia ha preso forma in un libro, seguendo la forma già impressa da Vittorio Cagnoni. All’interno della memoria storica della Resistenza, senz’altro, Oscar ne occupa una piccola parte, ma una parte che, tuttavia, contribuisce a darne una visione peculiare, che consente di avere una visione generale d’insieme più completa e meno “massificata”. E all’interno di Oscar, operarono anche alcuni scout, che non si arresero allo scioglimento di quella che, allora, si chiamava ASCI (“antenata” dell’attuale AGESCI).
Dopo la liberazione del 25 aprile, non è stato facile far emergere la memoria di quanto accaduto nei mesi immediatamente precedenti, perché le donne e gli uomini perseguitati e direttamente coinvolti avevano un gran pudore a parlarne.
«Sono ormai trascorsi ottant’anni e tutti noi dovremmo avere l’obbligo morale di conoscere e far conoscere quanto è avvenuto in quei terribili 600 giorni della guerra civile, affinché si possa lasciare in eredità ai giovani una memoria documentata e veritiera. Troppe vite sono state sacrificate: i loro nomi non possono restare sconosciuti o essere dimenticati: la storia non può essere rimossa impunemente, chi ha dato la vita non può averla sacrificata inutilmente e noi dobbiamo amare e insegnare ad amare quegli italiani che, per la libertà della patria e nostra, hanno lottato e sono morti. Anche noi abbiamo la responsabilità di scegliere da che parte stare, se dimenticare o ricordare, nascondere o far emergere, far finta di non vedere o testimoniare di sapere, essere indifferenti o lavorare per il bene comune, protestare o (per paura) stare zitti e accettare qualsiasi fandonia venga detta o scritta dai mezzi di informazione». In questo modo, Carla Bianchi Iacono introduce l’importanza della memoria, ancora oggi, a ottant’anni da quei fatti, sottolineando che «esistono purtroppo delle analogie storiche fra gli anni ’43 – ’45 del secolo scorso egli attuali: la crisi economica, l’ingiustizia e bisogni sociali sempre più evidenti che, uniti al populismo, sono stati allora e sono una miscela esplosiva: per questo è urgente risvegliare le coscienze addormentate».
In foto: Giulio Uccellini e Andrea Ghetti

Spesso, affrontando questo tema, emerge un fraintendimento – precisa Stefano Bodini – molti pensano che Oscar sia la resistenza degli scout. Oscar, però, è la resistenza di alcune persone, fra cui alcuni scout, che hanno deciso di intervenire per quello che era successo in Italia in reazione a un fatto contingente, vale a dire l’armistizio dell’8 settembre: è dato l’annuncio che il governo italiano smette di essere alleato con la Germania e passa dalla parte degli alleati, tuttavia, niente il governo italiano abbandona Roma e tutte le istituzioni a loro stesse.
Essendo, inoltre, a quel tempo, un paese in guerra, in seguito al caos conseguito all’armistizio, prigionieri di guerra si riversano per le strade delle nostre città, ormai rimaste senza alcuna istituzione a cui rivolgersi. L’unico tratto comune all’Italia più o meno dal 313 d.C.[6] è la religione cristiana; nel 1943, questi prigionieri di guerra, dunque, entrano in contatto con l’unico tessuto sociale che è rimasto, che è quello della Chiesa: ciò significa, nel concreto, i preti di quartiere o i preti delle piccole parrocchie che stanno anche ai confini della città, come a Crescenzago dove c’è don Enrico Bigatti. Il problema è che, con la dichiarazione dell’armistizio, i tedeschi che sono più efficienti, nel giro di due giorni attraversano il Brennero e arrivano alle porte della città di Milano e minacciano il comandante, asserendo di avere con sé armi più devastanti delle poche rimasti nel capoluogo lombardo. Ceduto quindi il passo ai tedeschi, questi ultimi iniziano a indagare che fine hanno fatto questi prigionieri di guerra : molti di loro sono rinchiusi nelle canoniche, come nel caso di quella di don Enrico. Nel giro di un paio di giorni (il 12 settembre), il sacerdote decide che è il momento di agire: va a trovare un suo vecchio compagno di seminario, don Andrea Ghetti, che era un’Aquila Randagia, comunicandogli che, nella canonica della chiesa rossa di Crescenzago, c’era un certo numero di prigionieri di guerra e bisognava fare qualcosa. Allora don Andrea chiama un altro collega del collegio San Carlo, don Aurelio Giussani e, insieme, questi tre preti decidono che bisogna provare a fare espatriare questi ex prigionieri di guerra nella vicina Svizzera. Si pensa di andare nel confine dalla parte vicino a Malnate, per la precisione tra Licurno e Cantello, perché è il luogo più vicino a Milano, ma anche il più comodo (le montagne della provincia di Como sono molto più aspre, rispetto a quelle di Varese): quindi, nella notte fra il 17 e il 18 ottobre, tale George Allan, militare scozzese, è la prima persona che viene salvata da Oscar. I tre preti sono convinti di aver finito, ma così non è, nel senso che continuano gli espatri di questi ex mili tari: sono soprattutto greci, qualche alleato britannico. A questo punto, succede un altro fatto, che è decisivo per l’evoluzione di questo gruppo, vale a dire, l’istituzione della RSI[7]: in seguito alla richiesta dell’Ufficio Centrale per la sicurezza del Reich, ha avvio la “soluzione finale”. Il binario 21, che era il binario postale della stazione Centrale di Milano, diventa il binario per la deportazione degli ebrei.
Il primo treno parte il 6 dicembre del 1943 e sul treno ci sono 250 ebrei e solo ebrei; il secondo treno invece parte il 30 gennaio del 1944 e il numero degli ebrei sale a 605; fra questi, c’è una certa Luisa Schlesinger (avendo una gamba di legno, è subito condotta a morte, una volta arrivata a destinazione). Questa donna era stata arrestata insieme ad un’amica, che si chiamava Edvige Epstein e che aveva sposato un italiano, che si chiamava Angelo Balcone: da questo matrimonio era nato il piccolo Gabriele. L’8 dicembre, due giorni dopo la partenza del primo treno dal binario 21, sono in contatto con i passatori per oltrepassare il confine, ma all’ultimo, questi alzano il prezzo, chiedendo diecimila lire in più alle trentamila richieste in precedenza. Allora si spostano, dalle pendici del sacro Monte, dove avevano una casa, si spostano a Luino (Germignaga): qui, sono ospiti dell’Hotel Impero, gestito da un toscano, di Elvio Copelli, che sembra registrarli come ariani, ma la mattina dopo (quando decidono di rientrare a Milano, perché oramai pensano che tutto sia perduto), gli dice che ha prenotato una macchina alla vicina Trattoria del ponte; invece di trovare la vettura, trovano due poliziotti (Gambato e Satriani[8]) che li portano in commissariato e li arrestano. La famiglia è separata: le due donne e il bambino sono portati a casa San Giuseppe, a Varese (perché il braccio dei Miogni, che ospita le donne, era pieno); e qui, ai Miogni, la casa circondariale di Varese, invece sosta Angelo Balcone (poi viene spostato al carcere di Como, infine a Milano e, soltanto nel febbraio del 1944, quindi circa un mese dopo, è liberato in quanto non di origine ebraica). Anche Gabriele è in questa casa San Giuseppe esua madre, dopo aver visto arrivare un’auto che portava via alcuni ragazzini (c’erano altri ebrei, oltre loro), cerca allora la mediazione tramite colui che gestisce questa casa San Giuseppe (monsignor Sonzini), per mettere in salvo anche suo figlio. Dopo un primo tentativo di rapimento, i tedeschi, sapendo di questo rischio, iniziano a minacciare la donna di uccidere il marito, nel caso in cui lei decida di fuggire. Per cui, il 18 dicembre, quando vengono a prendere lei, l’amica e il bambino lei si rifiuta di partire, costringendo anche Oscar a pensare a una soluzione di ripiego. Quindi, il giorno successivo, grazie alla collaborazione di un amico, il dottor Ambrogio Tenconi, fingono che il bambino abbia bisogno di un’operazione di appendicite; quindi, è trasferito all’ospedale di Varese (21 dicembre).

Il giorno successivo, don Aurelio Giussani decide di fare un sopralluogo per capire se la sera si possa portare via il il piccolo: il problema è che il travestimento consiste soltanto in un paio di occhiali da sole e quindi non può partecipare la sera al rapimento perché lo avrebbero riconosciuto subito. La base di tutta questa macchinazione è in piazza Canale, 7 a Varese, dove risiede don Natale Motta[9]. Le quattro persone scelte per l’intervento sono: Napoleone Rovera, Giulio Uccellini, Francesco Moneta e don Andrea Ghetti. La sera del 22 fanno un primo tentativo di porre in salvo Gabriele, ma quando entrano in ospedale, si accorgono che la guardia sta parlando proprio col piccolo Gabriele, seduto sul letto con lui e stanno conversando: quindi, bisogna rinviare. La mattina dopo, Giulio Uccellini si reca nuovamente in ospedale, provano una porta laterale (a cui è tagliata la catena) e lui va a fare conoscenza col bambino, affinché la sera in cui si deve portarlo via non si agiti più del dovuto ma abbia un minimo di familiarità con questa persona. Così, la sera, i quattro noleggiano una vettura, Moneta è al volante, a fianco c’è don Andrea Ghetti che sgrana il rosario. Con due camici sotto i soprabiti, entrano Napoleone Rovera e Giulio Uccellini: appena nella stanza, il secondo prende il bambino e dice: “Ti portiamo dalla mamma”. Prendono il bambino, lo caricano in macchina e sgommano: si allontanano, mentre inizia a scoppiare il pandemonio all’ospedale di Varese, perché è scattato l’allarme. Nel frattempo, il bambino viene portato a casa di don Natale Motta, nel cuore di Varese: confinante, Natale c’era l’ex orfanotrofio femminile, riadattato a caserma da parte della regione autonoma Muti, uno dei tanti corpi speciali tipicamente fascisti che erano attivi, a quel tempo. Gabriele resta 17 giorni nella casa di don Natale Motta, vestito da bambina (c’è anche un frammento di video, girato da Giulio Uccellini, con queste trecce bionde posticce e l’abito da bambina). È portato prima ad Erba, poi verso Brunate, dove finalmente si può ricongiungere col padre e la madre. Quest’ultima non ha seguito l’iter dell’amica Luisa Schlesinger, ma è passata da diversi campi di concentramento ed è salvata il 9 maggio del 1945, mentre, soltanto nell’agosto dello stesso anno, riesce a ricongiungersi col resto della famiglia. Nel giro di un anno, vanno a trovare don Natale Motta che, nel frattempo, alle pendici del sacro Monte di Varese, ha aperto un luogo che ha chiamato “prigione senza sbarre” (un luogo dove ospitare i figli degli ex fascisti, per evitare ritorsioni): da quel momento, partono per l’Australia, da cui non tornano (Gabriele è morto l’anno scorso[10]).
«Quando c’è qualcosa che non funziona – riflette Bodini – quando tutto va male, spesso capita che noi siamo i primi a lamentarci: ecco, Oscar, con queste azioni (anche quelle finite male!) ci hanno ci raccontano che qualcosa si può fare per cambiare. Possiamo veramente pensare di riuscire a cambiare il mondo che ci sta attorno, con le nostre azioni e questo deve essere di incoraggiamento. Con le parole del Ribelle[11]: “La nostra fu una rivolta dello spirito, fatta di dolore di dolore e fierezza, non contro altri uomini, non contro questo e quel programma politico, ma contro un sistema di un’epoca, contro un costume di vita, contro aberranti allucinanti concezioni del mondo, della storia e dell’uomo».
Conclude un intervento del prof. Bruti Liberati, che meglio contestualizza l’argomento, nell’ambito storico. Resistenza, generalmente, vuol dire prendere le armi e combattere ed è ben noto che il problema dell’uso della violenza per il cristiano è stato trattato ampiamente dai teologi, facendo spesso riferimento a Sant’Agostino. Nel maggio del 1915, i cattolici italiani si trovarono di fronte a un dilemma: aderire o no alla guerra che il governo italiano ha dichiarato l’Austro-Ungheria? Un importante gesuita, padre Enrico Rosa, non potendo affermare che la guerra era giusta (perché guerra giusta, per la Chiesa, doveva essere di difesa), scrive che, se la guerra viene dichiarata da un governo legittimo, si può presumere che abbia buoni e fondati motivi per dichiararla e quindi il cattolico non va contro la propria coscienza se vi aderisce. Nel settembre 1943, questo scappatoia non si pone per nulla. Da un lato, in Italia abbiamo due governi: quello legittimo sarebbe il governo del Sud, il Regno d’Italia, mentre, la Repubblica sociale italiana è illegittima, pur detenendo il potere in alcuni luoghi, tra cui Milano e buona parte della Lombardia. Si pongono, quindi due questioni: se reagire, di fronte all’ingiustizia, ma, soprattutto, come (cioè se sia, o meno, in questo caso, lecito l’utilizzo della violenza). La risposta è il rifiuto sia della violenza, sia rifiuto dell’ingiustizia. Basti pensare, ad esempio, quando, nel 1931 il governo chiese ai professori universitari di giurare fedeltà al regime fascista, su 1200, solo 12 non giurarono e furono espulsi dall’università (questo nonostante, a quell’epoca, non era ancora a rischio la vita per un rifiuto di questo genere). Con Oscar, abbiamo l’esempio di persone che scelsero un altro modo di resistere senza armi (quindi, in qualche modo, rispettando il comandamento di “non uccidere”, salvando, anzi, altre vite. Queste persone rischiarono molto di più, ad esempio, dei professori precedentemente citati. Oltretutto, c’è un dato importante da ricordare: queste persone agiscono in qualche modo in una sorta di vacuum, perché chi fa parte degli organizzatori della resistenza partigiana ha, in qualche modo, un riferimento politico o ideologico e molto preciso. In questo caso, si tratta di scelte personali, perché il cardinale Schuster (che pure, in qualche modo, incoraggiava, sia pure molto prudentemente, il clero a resistere, non poteva ovviamente mettere un timbro di legittimità ufficiale a queste scelte). In sostanza, si tratta, quindi, in questi casi, di un proprio percorso, spesso, se non in completa solitudine, però con pochi amici (oltretutto, il fatto che si fosse in pochi era molto importante, perché le spie all’epoca erano ovunque ed era pericolosissimo avere contatti con persone di cui non si aveva fiducia assoluta).
L’ultima cosa che, in qualche modo, può lasciare perplessi è che, a guerra finita, Oscar si attiva anche per proteggere persone che, in vario modo, potevano essere esposte a rappresaglie da parte di gruppi partigiani (cioè persone legate al passato regime fascista, compresi gli orfani o i parenti). Abbiamo testimonianze di come il ben noto don Barbareschi, che faceva parte dell’Oscar, addirittura salvò dalla fucilazione uno dei suoi torturatori tedeschi nazisti del carcere di San Vittore, atto di squisita carità cristiana: mi domando quante persone avrebbero fatto la stessa cosa. Questo esempio evidenzia il difficile contesto in cui si muovevano queste persone che compivano atti, anche rischiosi, di resistenza al regime, pur non impugnando le armi.

Infine, chiosa Bodini , rispondendo a una domanda sulla “casualità” della nascita di Oscar, che può essere paragonata allo scouting, cioè: «osservo, deduco, agisco»: è quello che hanno fatto dopo l’8 settembre. La scelta, tuttavia, affonda le radici più in profondità, nel senso che, se noi dobbiamo pensare a una scelta di come vivere in un contesto che non condividiamo, in particolare della prevaricazione del più forte del sul più debole, una volta che io ho scelto di non condividere il mondo in cui mi trovo, sono avvantaggiato ad agire nella direzione opposta. Questa è, senz’altro, una storia piccola ma dal grande valore morale, perché, innanzitutto, va a smontare quel mito dell’Italia interamente fascista, ma questo è stato vero, casomai come posizione di facciata e sicuramente non ha mai rappresentato il 100%.
La libertà, del resto, richiede sempre un prezzo da pagare. Non è mai lo stesso; eppure, non è mai a buon prezzo. Eppure, proprio in questo giorno di commemorazioni civili, è bello, buono, giusto e vero ricordare che non c’è un’età giusta in cui poter fare il bene.
A volte, semplicemente, la storia ci chiede di rispondere – eventualmente, con un pizzico d’incoscienza –: Presente!
Perché, come ha sottolineato l’autore, Stefano Bodini, si educa di più con quello che si è, che non con quello che si ha: l’autenticità è porta dell’educazione.
Maddalena Negri
Alla presenza dei responsabili di AGESCI, zona Milano (Chiara Nicolai e Simone Storti) e del presidente dell’Ente Educativo Baden (Ettore Klutzer, che ha reso possibile la pubblicazione del libro), si ringrazia il Centro Culturale alle Grazie di Milano , nella persona di fr. Alberto Casella OP, moderatore nonché Assistente Ecclesiastico del gruppo AGESCI Milano 2, AE di Zona Milano, AE formatore (ROSS, CAM e CFM)… ASSISTENTE REGIONALE AGESCI della Lombardia, per aver reso partecipe la cittadinanza di un incontro divulgativo per far conoscere il libro, alla presenza dei due autori, in dialogo con il prof. Luigi Bruti Liberati (docente di storia contemporanea, Università degli Studi di Milano), il giorno 27 marzo 2025, presso la Sagrestia del Bramante del convento di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
Il libro: Oscar – Storie di una resistenza disarmata
Consiglio anche la riduzione filmica sull’argomento: Aquile Randagie – QUI la recensione.
[1] Ap 5, 5
[2] Ecce Crucem Domini!
Fugite, partes adversae!
Vicit Leo de tribu Juda,
Radix David! Alleluia!
(Ecco la Croce del Signore!
Fuggite, forze nemiche!
Ha vinto il Leone di Giuda,
La radice di Davide! Alleluia!)
[3] Youtube: Von Galen contro Hitler
[4] Si sono contate una decina di persone, parte dell’organizzazione. Alcune delle Aquile Randagie (che erano scout che hanno continuato lo scoutismo anche dopo lo scioglimento ufficiale, decretato da Mussolini, con la legge numero 5 del 9 gennaio 1927) fecero parte del gruppo OSCAR. Quest’ultimo era parte attiva in una resistenza non violenta che, invece di imbracciare le armi, pensava a salvare vite, ponendosi, in questo modo, anche come strumento di pacificazione in vista del dopoguerra.
[5] Figlia di uno degli eroi dell’oscar dell’ingegner Carlo Bianchi, di cui porta anche il nome, perché papà Carlo venne tradito da una spia: venne portato nel campo di concentramento di Fossoli dove morì, mentre mamma Albertina aspettava in quel momento Carla. Anche per lei che scrive di Oscar, ha significato conoscere un papà di cui ha sentito parlare attraverso il racconto di altri.
[6] Cioè l’anno in cui l’imperatore Costantino consente la libera professione della fede cristiana
[7] La repubblica sociale Italiana, cioè lo stato fantoccio, con sede a Salò, a cui, il 23 settembre 1943,dà vita lo stesso Mussolini, dopo essere stato salvato dalla deportazione al Gran Sasso.
[8] Satriani morirà in campo di concentramento, l’ altro, invece, resterà rinchiuso in carcere quasi tutto il tempo, perché pare abbia aiutato anche lui qualche partigiano, nel periodo successivo a questo fatto
[9] Il quale non è bene si esponga direttamente, in quanto troppo conosciuto, in città.
[10] L’ultimo contatto si segnala attorno al 2011, per un lavoro che poi non andò in porto, sempre sulla memoria di quegli eventi: chi ci ha parlato, ha detto che ha risposto alla moglie e che non gli avrebbe passato Gabriele. Il fatto che siano andati dall’altra parte del pianeta è abbastanza per provare a immaginare che cosa possano avere provato non solo Gabriele e la sua famiglia, ma tutte le vittime di ingiuste persecuzioni, nella storia.
[11] Giornale fondato da Teresio Olivelli, nato nel 1916 a Bellagio (Como), sottotenente artigliere alpino, partigiano combattente, beatificato nel 2018
Fonti immagini:
Wikimedia
Getty-images
Aquile randagie
La voce del villaggio
Comune-info.net
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Alex Cendron
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