Il dono più grande è la gratitudine. Sempre #novena2025

Il terzo capitolo del libro di Sofonia ci schiude le porte di un sogno, tratteggiato con le espressioni ardenti, tipiche dello stile profetico: un popolo, eventualmente piccolo di numero (“resto di

Israele”) che vive la vita, anche nelle vicissitudini incerte e dolorose che questa ci pone innanzi, in modo affidato, confidando nella presenza di un Dio che è colui che si fa sempre presente, che si fa trovare accanto. Il brano evangelico, invece, ci pone innanzitutto la responsabilità di una scelta attiva e consapevole.

No alle prevaricazioni
Ma l’affidamento del popolo è disponibilità alla grazia, che può avvenire solo quando il male si è arreso. In una città dove la prevaricazione e il sopruso hanno perso ogni diritto di cittadinanza.

Rivolto alla città che opprime, ritroviamo quel “guai” che Luca[1] contrappone, nel suo vangelo, alle beatitudini, quasi a ricordarci che non esiste la neutralità: la scelta è sempre necessaria e se il cammino verso il bene non progredisce, l’unico motivo è che abbiamo imboccato la via del male (infatti, come non valutare l’indifferenza se non un male, almeno grave altrettanto rispetto al compito attivo di malvagità e soprusi?).

Una comunità con Dio

Le labbra pure e un’invocazione a Dio sincera e confidente (preoccupazione primaria che il nostro autore profetico condivide con tutti i profeti maggiori) sono richieste per poter trarre giovamento dal Dio-con-noi che già il popolo ebraico ebbe già modo di sperimentare, nel suo cammino, non privo di infedeltà, verso il monoteismo. Un cammino che, pur essendo di comunione con Dio, non è mai di comunione “intimistica”. Dio, pur rivolgendosi a ciascun uomo, nella sua singolarità, lo chiama sempre in una comunità di persona. Segno eloquente che l’uomo è immagine del Dio-Trinità proprio per quella possibilità, inscritta nel suo cuore, di esercitare il perdono nell’amore, all’interno della comunità umana – piccola o grande che sia – in cui trova a vivere e lavorare, in cui concretamente spende il proprio tempo e le proprie energie.

Una famiglia in lutto, a pochi giorni dal Natale

Proprio in questi giorni, la comunità (sì, pur essendo una scuola statale e non paritaria, è inevitabile, per chiunque, definirla così!) scolastica presso cui svolgo il mio servizio si è trovata in lutto, improvvisamente, per la morte del dirigente. Per quanto fosse evidente la sua fede, è stato davvero toccante poter percepire come la fede avesse plasmato le sue scelte, nella famiglia, nel lavoro, ma persino nell’aspetto più aspro, cioè, durante gli ultimi mesi, segnati dalla malattia, dal dolore, momenti in cui è più impegnativo riuscire a dire, con s. Paolo, quella formula di affidamento che può esternare solo chi confida davvero in Dio: «quando sono debole, è allora che sono forte»[2].

Un dono?

Pensando al Natale, possiamo pensare a doni e grazie più o meno concrete, ma è senz’altro difficile che potremo mai pensare ad un lutto come un dono. Più immediato, più naturale viverlo con rabbia, come un’ingiustizia, forse – addirittura  – come una presa in giro. A maggior ragione se siamo convinti si tratti di una persona di alta levatura morale, “i conti non tornano”. Soprattutto, a pochi giorni dal Natale, visto che, anche tra i meno credenti[3], esso è interpretato come un periodo di luce di gioia. «Umano, troppo umano» è forse il facile commento, riprendendo la famigerata espressione nietzschiana. 

La gioia s-misurata del paradosso cristiano

È umanissimo e comprensibile provare smarrimento, sgomento e – forse – persino rabbia e delusione di fronte alla notizia di un padre di famiglia che lascia due figli (uno ormai laureato, ma il secondo ancora nel cuore del tumulto dell’adolescenza). È però impossibile non pensare che la grazia sia già al lavoro nella serena fortezza con cui il maggiore esternava la propria gratitudine, cui faceva eco anche il minore, come se questo sentimento traboccante potesse riuscire a compensare il dolore della perdita, guidando gli occhi della fede verso una realtà complessa. Perché è innegabile che quello che gli occhi vedono è solo un legame reciso per sempre, perché l’essere umano comprende l’amore solo attraverso la concretezza di parole che diventano gesti di attenzione, cura e affetto. Solo gli occhi della fede possono suggerire che un Dio affidabile ci ha promesso che dopo la morte non c’è il nulla, ma una nuova vita, di resurrezione.

“In un modo o nell’altro”

È sempre un po’ stucchevole quando, alla morte di una persona, foss’anche una buona persona, si finisce con il tratteggiarne un ritratto di una perfezione che pare mettere in ombra persino la primizia di Cristo. Mi ha colpito, invece, sentire la frase, per cui, ogni gesto “in un modo o nell’altro” era d’amore. Siamo uomini, siamo fragili nel nostro riflettere l’immagine di Dio. Talvolta, finiamo anche per essere troppo severi, con noi stessi e con gli altri, nel rilevare critiche. Dei due figli, nessuno è ideale, nessuno fa al meglio il bene. Allora, qual è il merito del secondo? L’augurio per questo Natale e per il bilancio di ogni anno, come fosse l’ultimo. Potrà non essere immediato, ma è già iniziare a vivere da figli di Dio rendersi conto che c’è una vigna da coltivare, che è un bene di tutta la famiglia e a cui tutti, ognuno a modo proprio, sono chiamati a partecipare.

Maddalena Negri


Rif. prima lettura delle letture feriali romane, nel martedì della III settimana – A –  (Sofonia 3, 1-2.9-13)

Fonte immagine: Pexels


[1] Cfr. Lc 6, 20-26

[2] Cfr. 2Cor 12, 10

[3] In linea con quanto rileva Mircea Eliade, a riguardo del pensiero simbolico e degli archetipi universali


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