Al liceo, tutti quanti cantavamo e sapevamo a memoria le canzoni dei Blink 182. Una di queste ci commuoveva: era la canzone Adam’s Song, che i tre cantanti californiani avevano dedicato al loro amico improvvisamente deceduto Adam. Un testo che esprimeva un dolore grande nel profondo animo per un amico, che non avrebbero più rivisto.I Blink 182 non sono stati certo i primi a descrivere una emozione di commozione così forte.
Anche il popolo ebraico aveva redatto un canto antichissimo, che poi divenne il salmo 129, per esprimere un dolore forte: il canto delle ascensioni meglio noto come De Profundis. Era un canto espresso durante i pellegrinaggi da parte degli ebrei.
La parola stessa con cui inizia la prima strofa del salmo dà il titolo latino: Dal profondo.
Dal profondo a te grido Signore,
Signore ascolta la mia voce
Siano i tuoi orecchi attenti
alla voce della mia supplica
Il salmista esprime il grido dal profondo e chiede che il Signore lo ascolti. L’espressione “orecchie di Dio” è richiamo innanzitutto alla capacità provvidenziale di Dio di ascoltarci e aiutarci nelle difficoltà e nei momenti di prova. È un canto che il salmista, insieme al popolo ebraico, fa sgorgare dell’anima. Dal profondo di una fede provata per crescere ancora di più nel rapporto intimo col Signore.
Possiamo soffermarci su come questo grido viene anche di fronte alle esperienze di morte che ognuno di noi prova. Pensiamo alla perdita di un parente, un amico intimo, anche un semplice conoscente. La morte è quel passaggio alla vita eterna, ma è sempre un momento complesso e duro: sia per chi lo vive, sia per chi ama il defunto e se ne distacca.
Ho sempre amato quella frase di J.R.R. Tolkien che diceva: “La morte è il dono dato da Dio agli uomini”.
Difficile credere che questo distacco dell’anima dal corpo, di noi dal mondo terreno possa considerarsi un dono: e forse, se ci pensiamo bene, al di là della cultura che non ci ha più educato a vivere e interiorizzare i lutti, davvero la morte è un dono per ciascuno di noi.
Perché, esattamente come il popolo ebraico che si fa pellegrino e sa che ha una meta, anche noi sappiamo che nel nostro viaggio terreno arriveremo ad una conclusione, prima di giungere al cospetto di Dio o alla sua assenza definitiva. Non siamo su questa terra illimitati, nel tempo e nello spazio. Ma allora la morte è quel dono dunque che ci ricorda che abbiamo limiti che non possiamo superare: fanno parte della nostra identità, ci sono connaturati. Possiamo semplicemente accettare tutti questi limiti e trasformarli. Come Gesù stesso ha trasformato la sua morte in vita eterna, per sé ma anche per noi.
Da questo possiamo imparare come il popolo ebraico a supplicare Dio. In ogni momento, ricordarci di quell’Eterno Padre tenero, di quel Figlio teneramente innamorato dell’uomo, di quello Spirito Madre di tutte le nostre vite. Supplicare è allora porsi di nuovo sotto la sua ala protettiva: chiedere il Suo Ascolto perché ci esaudisca nelle nostre attività quotidiane, o nei i progetti più grandi.
Faremo nostri i versi che il poeta ungherese Attila József:
Vorrei soltanto dirTi semplicemente, ora, che ci sono anch’io, che son qui, Ti ammiro e non Ti comprendo. | Perché Tu non hai bisogno della nostra ammirazione né del nostro salmodiare. | Perché le rumorose, eterne suppliche tùrbano forse il Tuo orecchio. | Perché altro non sappiamo che supplicare e umiliarci e chiedere. || Sono un tuo semplice servo che Tu puoi anche dare all’inferno. | Sconfinato è il Tuo dominio, sei potente, sei forte, ed anche eterno. | Oh, Signore, dammi in dono il poco e povero me stesso. | Ma, se non vuoi, non ascoltare la mia parola.
Cari amici del Club, il Signore ci faccia scoprire il dono della supplica come riconoscimento della Sua Cura nei nostri confronti.
Fr Gabriele Giordano M. Scardocci OP
Gesù dolce, Gesù amore
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