Sono sicura che nelle vostre librerie si insedierebbe volentieri Thomas Mann con I Buddenbrook dal magnifico Auerbach definiti «il primo grande romanzo realistico» della letteratura tedesca. Il romanzo manniano si propone come «specchio del mondo» (Lukàcs) capace di riflettere la storia spirituale della classe borghese affetta da «nevrastenia ereditaria» e ospitata dalla fredda città di Lubecca. Ad affollare le pagine del romanzo sono personaggi fragili destinati al tracollo non solo biologico ed economico, ma anche di ordine morale e spirituale (Ru).
Il vero soggetto della storia è la caduta apocalittica della famiglia Buddenbrook, non le vicende dei singoli membri di questa, in linea con la struttura narrativa propria del romanzo di famiglia e del romanzo corale. Ad ogni personaggio sarà riservato uno spazio più o meno ampio a seconda delle esigenze narrative senza incorrere nel rischio che la voce di uno prevalga sull’altro.
Attraverseremo la porta di casa Buddenbrok recante in alto la scritta ‘Dominus providebit’, gusteremo la giovinezza di Tony a Travemünde e la compiangeremo per due matrimoni falliti, apprezzeremo la lettura schopenhaueriana di Thomas non molto distante dall’autore e dal fratello Christian –un suitier– con cui condivide il «gene guasto» della nevrosi. Ancora, nella parte finale del romanzo l’albero genealogico vedrà i propri rami inaridirsi con la morte di tifo del piccolo Hanno, l’ultimo erede di casa Buddenbrook. Questi, come la madre, ha gli occhi circondati da ombre bluastre, leitmotiv di derivazione wagneriana e segno di fragilità emotiva e fisica.
Della borghesia Mann mette in luce la fragilità strutturale che fa suo perno il connubio fortuito di virtù morali, religiose ed economiche su cui fino ad allora avevano fatto leva i grandi capitalisti. Pertanto, secondo misere logiche umane Dio è funzionale al trionfo professionale e l’amore è piegato a piani imprenditoriali.
Siamo spettatori di un processo di degradazione che investe ben quattro generazioni e che non concede interventi salvifici, ma accettazione consapevole di un’ineluttabile sorte apocalittica nella graduale scrittura del registro di famiglia. Qui la narrazione si ripiega su sé stessa. Le pagine di questo registro fissano l’identità familiare espressa in un potere economico e politico dato a priori ad un corpo sociale che merita successi, ma ignaro del suo tragico e silente quotidiano morire.
Infine, pare che la casa, sede delle certezze memoriali e background delle vicende familiari, si sottragga alla potenza corrosiva del tempo. Tuttavia, il processo di decadimento interessa ogni aspetto, disfa ogni struttura materiale e spirituale deteriorando le plastiche immagini di floridezza economica.
È la lucidità e la razionalità della scrittura manniana che desta in me forte interesse, ma lungi da me il catastrofismo borghese secondo un’ottica cristiana nella quale trovo rifugio sincero.
Il libro di Thomas Mann è allora una riflessione spirituale sulla famiglia, non un agglomerato di persone confuse e indistinte, ma una serie di persone unite, fra naufragio e approdo, in un insieme di eventi incarnati nella Storia, sotto le vele dello Spirito Santo, all’ombra del Dio Trinitario.
Denise Tammaro
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