” Dio è amore“
— Prima Lettera di Giovanni 1,4 – 8.
Quando parliamo dell’amore, di qualsiasi natura esso sia, facciamo sempre riferimento a un’estetica, ossia a una dottrina del bello, dato che amiamo sempre qualcuno o qualcosa che troviamo bello secondo i nostri personali canoni estetici o secondo quelli dominanti nella nostra epoca. Ma il Bello e quindi l’amore che esso suscita è davvero così soggettivo? Esiste un Bello universalmente riconosciuto e amabile da tutti?
Già nel mondo greco antico esisteva un concetto di bello strettamente legato all’amore, esso viene definito col termine Kalokagathia ovvero Kalós kái agathós che significa “bello e buono”. I caratteri della bellezza fisica, secondo la concezione greca, sono indissolubilmente uniti alla virtù: forza, lealtà, onore, ecc. e rappresentano un dono degli dèi. L’estetica dunque presenta l’etica e questo insieme armonioso e equilibrato di bellezza esteriore ed interiore suscita l’amore. In Platone vi è un percorso conoscitivo che attraverso l’attrazione per la bellezza corporea arriva all’amore del bello intellettuale, morale e spirituale: “La sapienza infatti, appartiene al genere delle cose più belle ed Éros è amore rivolto al bello”. ( Platone, Simposio, discorso di Diotima)
Nella società romana il senso di bonum associato al pulchrum tende a indebolirsi in una connotazione più pratica e di utilità civile che speculativa. In ambito pubblico i viri boni ( gli onesti) sono coloro che risultano degni di gestire la cosa pubblica in quanto posseggono quel decorum che corrisponde al pulchrum morale; mentre nella sfera privata, i veri amici sono quei pochi dotati di quella bellezza interiore degna di essere amata. “Degno di amicizia è chi ha dentro di sé la ragione di essere amato. Specie rara! Davvero, tutto ciò che è bello è raro,” (Cicerone, De amicitia, XXI, 79)

Nel Medioevo San Tommaso D’Aquino, ci dà una sublime rielaborazione del pensiero greco-romano su bello e buono, in un senso squisitamente cristiano, con questa celebre affermazione: “Pulchrum est quod visum placet” (S. Th., I, q. 5, a. 4, ad 1um) dove indica che del bello conta l’apprensione e il diletto: il bello è “gradevole alla conoscenza” (S. Th., II-II, q. 27, a. 1, ad 3um), perché il bello richiede di essere “conosciuto”. Nel De Veritate l’Angelico aggiunge: “per il fatto stesso che qualcosa tende al bene, tende insieme anche al bello e alla pace: senza dubbio al bello, in quanto è modificato e specificato in sè stesso, cosa che è inclusa nella nozione di bene; ma il bene aggiunge l’ordine di ciò che perfeziona verso le altre cose. Perciò, chiunque tende al bene, tende per ciò stesso al bello (De Ver., q. 22, a. 1, ad 12)”
Il bello è una modalità conoscitiva che procura diletto e che è inclusa nel bene, di cui è un aspetto complementare, in quanto il bello è tale perché finalizzato al bene. Ma qual è la peculiarità del bello? Lo splendore, dirà San Tommaso, che si manifesta particolarmente nel Figlio? Il bene e il bello sono amabili dunque perché sono entrambi due diversi modi d’essere dell’Essere, ovvero di Dio. E che differenza c’è fra bene e bello? Il Bene è un qualcosa che può essere posseduto, il bello invece è una via conoscitiva (del bene) che procura piacere alla vista e all’udito ma non può essere posseduto, ci piace per il solo fatto di apprenderlo. Come quando ascoltiamo un bel brano musicale, possiamo comprare e possederne la registrazione ma la bellezza della musica no, ne godiamo soltanto attraverso l’udito e per il fatto stesso di ascoltarla. La dimensione della bellezza quindi è gratuita come quella del vero amore. Non godiamo della bellezza di un paesaggio per averne un utile, l’ammiriamo per sé stesso, esattamente come amiamo l’amico non per ottenere qualcosa da lui ma per ciò che l’amico è. Di qui San Tommaso ci indica come il Cristo Logos si riveli all’uomo sia in quanto “clarificatio” ossia splendore di Bellezza, luminosità della Verità e della Sua Gloria, sia in quanto “proportio” ovvero armonia non solo fisica ma anche spirituale di tutte le parti che lo compongono. Non a caso l’Aquinate dirà che propria della bellezza interiore è la virtù della temperanza perché mantenendo in armonia tutte le facoltà dell’anima, le tiene lontane dalla concupiscenza e quindi dall’eccesso e dal peccato che abbruttisce l’uomo. “Perché la bellezza è attribuita specialmente alla temperanza, che più d’ogni altra virtù toglie l’uomo dalla turpitudine” ( q. CXLI, De temperantia, art. II, ad3m.). L’intemperanza è sommamente disonorante proprio perché ripugna al massimo alla distinzione e alla bellezza (pulchritudo) dell’uomo, poiché nei piaceri che sono oggetto dell’intemperanza la luce della ragione – da cui dipende tutto lo splendore e la bellezza della virtù («tota claritas et pulchritudo virtutis») ( q. CXLII, art. IV,37) – viene massimamente oscurata. La bellezza della creatura partecipa dunque di quella del Creatore nella misura in cui, con l’aiuto della grazia, ordina codesta bellezza al vero bene mediante la luce della ragione (il Logos divino) e l’esercizio della temperanza.
Il teologo von Balthasar, in sintonia col filosofo medievale, sostiene che la comprensione della verità e del bene non è possibile senza la conoscenza della bellezza, poiché è attraverso lo Splendore che si rivela l’amore di Dio e si genera in noi il desiderio di amarLo in Sé stesso e nelle Sue creature. Ritorna in Tommaso dunque il principio agostiniano dell’amore verso la creatura in quanto portatrice dell’immagine splendente di Dio e non un idolo ovvero un’immagine solo umana.
Da ciò si evince come nelle varie teorie estetiche, dall’Antichità al Medio Evo e poi fino a tutto il Rinascimento, l’identità tra bellezza e virtù permane, il Brutto viene visto come un’antitesi del Bello, una disarmonia che viola le regole di quella armonia e proporzione su cui si fonda la Bellezza, sia fisica che morale, o una mancanza che sottrae a un essere ciò che per natura dovrebbe avere. Solo nel ‘600 comincerà a prendere piede una riflessione sull’arte e sulla bellezza che nel ‘700 giungerà, soprattutto attraverso l’opera di Kant, a uno scollamento tra il Bello e il Bene, per cui la bellezza perderà il suo valore etico universale e il giudizio estetico, inteso come un giudizio basato sul gusto, non avrà carattere conoscitivo, cioè non insegnerà nulla sull’oggetto, ma riguarderà solo il soggetto. In ogni caso però si ammette un principio che viene osservato quasi uniformemente: seppure esistano esseri e cose brutte, l’arte ha il potere di rappresentarle in modo bello, e la Bellezza (o almeno la fedeltà realistica) di questa imitazione rende il Brutto accettabile. Le testimonianze di questa concezione non mancano. Ma sino a che punto una bella rappresentazione del Brutto (e del mostruoso) non lo rende in qualche misura affascinante, pervertendo il senso morale del bello classico e tomista che è bello e amabile in quanto subordinato al bene? È un problema che riapparirà in tutta la sua forza nell’età romantica in cui la scissione fra estetica e etica raggiunge la sua acme e con esiti davvero paradossali di cui purtroppo risentiamo ancora oggi. .Il mito romantico si è sedimentato a tal punto nel nostro immaginario collettivo da diventare un vero e proprio archetipo dell’amore, del bello e del bene. Ma in che senso e soprattutto come, una corrente letteraria ha potuto influenzare così profondamente la nostra sensibilità?
Non vi siete mai chiesti come mai oggi avvenga che al carnefice sia concessa maggiore pietà e comprensione che alla vittima o perché certe donne continuino a rimanere legate a uomini brutali che le abusano, se non fisicamente di sicuro psicologicamente? E perché il “bello/a e dannato/a” attragga più del bravo ragazzo (o della brava ragazza)? Oppure perché venga esaltata la passione divorante a scapito dell’amore e perché il provare un sentimento giustifichi irrazionalmente sempre tutto o quasi? E infine perché l’opinione pubblica arrivi al paradosso di ritenere bello, grande e geniale “qualsiasi” personaggio, purché abbia talento in qualcosa o sia dotato di un pensiero diverso da quello della maggioranza? Una risposta a tutte queste domande è che il Romanticismo ottocentesco, attraverso la sua filosofia idealista (Schlegel e Hegel soprattutto), ha creato dei miti che resistono ancora oggi in quanto espressione di una volontà specifica di unificare la società attraverso “idee-mito” rappresentative di quell’irrealistica e soggettivistica visione della realtà o “religione delle idee” che rifiuta alla radice il realismo aristotelico-tomista e quindi la concezione cristiana e realista del mondo. L’amore per il Bello viene soppiantato da quello per lo spaventoso nel senso di tutto ciò che è grande, smisurato e titanico. L’amore per il Buono viene sostituito da questa nuova religione del sentimento o meglio del pensiero letterario, come la definirà acutamente Lamartine. L’eroe romantico non ha nulla dell’eroe classico ammantato di virtù o dello splendore partecipativo del santo cristiano, egli è il ribelle dal magnanimo sentire che si rivolta titanicamente contro la realtà di cui percepisce la finitezza, ma non lo fa con l’esercizio della ragione e della virtù adiuvate dalla grazia, bensì con l’ardimento del sentimento irrazionale.
Tutto diventa soggettivo, la realtà oggettiva non esiste se non in ragione del sentimento che si ribella titanicamente ai limiti posti dalla ragione e dalla temperanza in quanto giustificato in sé stesso. “Il sentimento è tutto!” esclama il Faust di Goethe ma quello stesso sentimento lo porta alla dannazione. La grandezza del sentire non è sempre sinonimo di bellezza e bontà, si pensi all’Innominato di Manzoni che viene definito grande sì, ma nel male. Il genio romantico è soprattutto colui che esprime in modo originale e sublime, ma spesso fine a sé stesso, il mal du siècle ovvero quel tormento interiore causato dal dissidio fra finito e aspirazione all’infinito e non più colui che “genera” (da genius) qualcosa di buono e determinante per il bene del mondo che lo circonda.
Nel 1809 Schlegel, elabora un ampio paragone tra letteratura classica e letteratura romantica, nel quale la letteratura antica è presentata come il dominio dell’armonia , della perfezione, dell’equilibrio, mentre quella moderna appare contraddistinta dai valori opposti dell’anarchia, del caos, del disordine, dell’eccesso e del dissidio accompagnati da un sentimento doloroso dell’esistenza che scaturisce dalla contemplazione della natura oscura e nebulosa. È quanto mai significativo e interessante notare come molti elementi romantici siano presenti in nuce già nell’ambiente letterario anglo-tedesco della seconda metà del ‘700 ossia quello del movimento dello Sturm und Drang (Tempesta e Impeto) e quello della poesia cimiteriale e ossianica inglese. Molti dei motivi tipici della poesia ossianica sono già presenti nella poesia cimiteriale, come le interrogazioni patetiche sul destino rivolte alla natura, i trasalimenti della memoria, i compianti per la morte e l’infelicita’ della vita, le tombe spoglie e illacrimate; oltre a questi, la predilezione per i paesaggi notturni, selvaggi, tempestosi, le virtu’ cavalleresche e l’epicita’ guerriera, i cupi episodi di amore e morte, le drammatiche apparizioni spettrali.. Ossian è considerato “l’Omero del Nord”, per la sua maestosa e primitiva poesia epica, e per la rievocazione di un suggestivo passato barbarico. Per queste ragioni i Canti di Ossian piacciono tanto alla generazione romantica, e sono destinati ad avere un notevole influsso su gran parte della letteratura ottocentesca.

Da questa atmosfera lugubre e spettrale nascono romanzi come “Notre Dame de Paris” di Victor Hugo, “I dolori del giovane Werther” di Goethe o “Cime tempestose” della Brontë, che definiamo correntemente “romanzi romantici”. L’attrazione per tutto ciò che è tempestoso e per il sentimento d’amore tout court porta sostanzialmente alla nascita di un nuovo mito, quello dell’amore romantico, che ci racconta che l’importante è amare, perché l’amore è sempre buono e nobile anche se devasta interiormente, induce al peccato e allontana da Dio. Questa idea dell’amore che giustifica tutto nasce non solo come una degenerazione della sintesi arabo-normanna dell’amor cortese ma anche come pervertimento dell’idea cristiana di amore. Con l’avvento di una rinnovata sensibilità cristiana e dell’arte che la esprime, diventano centrali (specie per quanto riguarda la figura di Cristo e dei suoi persecutori) il dolore, la sofferenza, la morte, la tortura, e le deformazioni fisiche che subiscono sia le vittime che i carnefici, perché tutto ciò genera il sublime. Ma il sublime della crocifissione è tale in quanto il sommo sacrificio d’amore è ordinato alla salvezza dell’umanità e non perché la sofferenza abbia un valore in sé stessa. Cristo si offre liberamente e altrettanto liberamente patisce, perché sa che quel patimento redimerà il mondo, il Suo è un amore guidato dalla ragione della carità che procura a tutti l’eternità. Il dolore e l’amore romantico si compiacciono invece della loro stessa sofferenza, in vista di un amore impossibile che si rivela distruttivo per loro stessi e per gli altri.
L’etica cristiana e tomista ci insegna che il sentimento di per sé non è né buono né cattivo ma è legato all’estetica ovvero dipende sempre dalla bellezza dell’oggetto del mio amore, in quanto posso anche amare il brutto del peccato; e che l’amore acquista un valore buono solo se ordinato al bene, ovvero se è finalizzato a raggiungere il vero bene per me e per gli altri. Gli eroi della Bronte si autodistruggono consumati dalle passioni e la protagonista, Catherine, è una martire pagana dell’idolo negativo che si è costruito nella sua mente: il rude e scontroso Heathcliff. Dobbiamo purtroppo al successo di questo tipo di Romanticismo, sepolcrale e negativo, l’interiorizzazione nell’immaginario collettivo, del personaggio bello e dannato da ammirare o peggio ancora da salvare; così come la ricerca ossessiva del tocco drammatico o romanzesco,( non a caso l’inglese romantic deriva dall’antico francese romant ovvero peculiare del “romanzo”) in ogni relazione affettiva. L’amore cristiano non cerca una tragicità fine a sé stessa come per compiacersi di un’emozione. L’amore sponsale cristiano, così come l’amicizia , è (per dirla con una splendida espressione di Ungaretti) ” una quiete accesa” che vive la realtà amorosa nella sua dimensione umano-divina, nel cogliere l’eternità nel tempo, nello scorgere il volto di Dio che s’incarna nell’amato/a o nell’amico/a, nell’attraversare la vita insieme andando verso Dio, verso quella che Tommaso chiama la vera felicità dell’uomo ossia la contemplazione di Dio sulla terra e la Sua visione beatifica nell’Eternità. E se questo sposo o questa amica non mi portano più vicino a Dio, sto solo giocando col fuoco e perdendo tempo. Perché l’amore è vero e bello solo se è redentivo, ovvero se diventa ala verso il Cielo e non zavorra che mi tiene attaccato alla terra. Perché nella misura in cui partecipiamo della bontà di Dio parteciperemo anche della bellezza di quel Pastore bello e buono (Gv 10,11) che ci salva dalla bruttezza del peccato con la bellezza sublime dell’amore che si sacrifica per donarci l’Eternità e non una passioncella da quattro soldi travestita d’eternità.
“Pulchritudo maxime attribuitur temperantiae, quae praecipue turpitudinem hominis tollit
Summa Theologiae, q. 141 (De temperantia), a. 2, ad3m..”
Rossella di Gesù
Bibliografia essenziale
Miriam Savarese, La nozione trascendentale di bello in Tommaso d’Aquino (SISRI – Studi e strumenti)
Hans Urs von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica. Vol. 1: La percezione della forma.
Schlegel, Dialogo sulla poesia,1800.
Schlegel, Studio della poesia greca, 1797.
Hegel, Il più antico programma di sistema dell’ Idealismo tedesco, 1796.
Bell’articolo! 🙂
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Grazie caro
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