
“Frodo vuole gettare in un vulcano l’anello magico forgiato da Sauron per dominare la Terra. Con lui alcuni amici”.
Rileggere questo trailer, di parecchi anni fa, ghiaccia il sangue agli appassionati di Tolkien e strappa un sorriso a chiunque abbia una conoscenza anche minima dell’argomento. Del resto, però, bisogna riconoscerlo: è difficile, quasi impossibile ricavare una recensione – specie negli spazi obbligati delle riviste dei consigli per la visione televisiva – per il capolavoro della fantasia di Tolkien, che l’autore ha steso lungo miglia di pagine, milioni di parole e che Peter Jackson, pur con tutti i suoi limiti (innanzitutto intrinseci al mezzo stesso), ha trasposto su pellicola affinché, tramite la pellicola cinematografica ancora più persone potessero conoscere il mondo della Terra di Mezzo e dalla saga dell’Anello più famoso del mondo.
Un anello per dominarli tutti. Un anello da eliminare nel fuoco del monte Fato. Nove membri. Un’unica compagnia. Un unico obiettivo. Nel mezzo: un viaggio meraviglioso, battaglie epiche, atti di coraggio, follia (dal principio è presentata come impresa che ha ben poche possibilità di riuscita), amicizia (su tutti, Gimli e Legolas che da acerrimi rivali diventano “amici intimi”) e amore, ricambiato (Aragorn e Arwen) e non (Eowyn ed Aragorn). La trama pare quasi scarna, ma il contenuto è, al contrario, ricchissimo, come quando riesce il fortunato binomio tra la fantasia che ricrea un mondo – altro e la capacità di far riflettere ed emozionare, toccando le corde più profonde del cuore di ogni uomo, là dove si annidano i desideri più profondi e la ricerca più vera di pace, felicità, bene e verità.
Il primo elemento ignoto (a chi non ha letto il libro) riguarda proprio Frodo, il protagonista. Il bravissimo e senza età Elijah Wood difficilmente può farlo trasparire, ma lo hobbit che parte dalla Contea, lo fa a cinquant’anni, dopo lunghe esitazioni e, inizialmente, pensava solo ad un breve trasferimento, non ad un viaggio avventuroso. Questo primo elemento ci porta a due riflessioni.
La prima è la grande consapevolezza che accompagna gli hobbit: Frodo, così come Bilbo ne Lo Hobbit, è consapevole che gli hobbit “non sono fatti per le avventure”.
La seconda è forse la più importante. Gli hobbit hanno un’aspettativa di vita simile alla nostra, per cui possiamo sentirli prossima in questa caratteristica. Frodo non parte come un ragazzo che fa un inter rail o va in una grande città per un Erasmus. Frodo parte che è un uomo maturo, ormai di mezz’età. È ancora in forze, non è un anziano, ma è in quella fase della vita in cui le abitudini sono radicate e pregi e difetti si sono incattiviti e sono più difficili da estirpare. Cosa lo spinge a lasciare Hobbiton? Proprio Hobbiton. È per la sicurezza della sua gente che capisce di essere diventato un pericolo per la loro incolumità presente e futura[1]. Più avanti, nell’ultimo capitolo della prima parte, sarà ancora la preoccupazione per gli altri a spingerlo ad andare, senza fornire spiegazioni. Da solo – o almeno questo sarebbe stato il desiderio, se non avesse incontrato la cocciutaggine del fido Sam (un altro personaggio che è un capolavoro letterario: non pare coraggioso, non pare di primo piano nella storia per lunghe pagine, ha tutta l’aria di essere un personaggio persino evanescente, un contorno di scarsa inutilità; salvo poi rivelarsi, verso la fine, di imprescindibile importanza, pur senza mai prendersi la scena: testimonianza che, senza retorica, talvolta, il coraggio vero è quello di accogliere quello che si è e il posto che si ha nella storia e rimanervi fedeli, giorno dopo giorno).
Nove membri, di diverse origini (nani, elfi, hobbit, uomini). Evidente la predilezione per gli hobbit che, più di tutto si evince dalle bellissime parole, presenti nel precedente Lo Hobbit, che Thorin Scudo di Quercia (il re dei nani, che non era riuscito a sfuggire all’avidità che aveva caratterizzato i propri avi, una volta impossessatosi dell’agognato tesoro) pronuncia, in punto di morte, rivolto a Bilbo:
«In te c’è più di quanto non sappia, figlio dell’Occidente cortese. Coraggio e saggezza, in giusta misura mischiati. Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto!»[2]
Gli hobbit sono lungi dall’essere perfetti, Frodo è ben distante dall’essere un eroe[3], ma, con la loro umiltà, si rendono disponibili a farsi strumento per qualcosa che li supera e che sanno che, senza aiuto, non sarebbero in grado di affrontare.
A lungo è rimasta in voga la diatriba su quale sia la giusta chiave interpretativa per un romanzo così complesso. Realtà? Fantasia? Finzione? Metafora? E l’opera è da considerarsi cristiana, perfino cattolica? Seguendo, in particolare, quanto scrive Tolkien in una sua lettera[4], C. Testi[5] porta avanti la teoria per cui, pur essendo un testo profondamente cattolico (nel senso, originario, di “universale”), Tolkien realizza, a tutti gli effetti, un mondo-altro e i richiami alla fede sono insiti nella trama stessa. Esemplificandolo, significa che sarebbe fuori luogo (nel senso di: non in linea con le intenzioni dell’autore) dire che gli Hobbit vanno in chiesa, da un lato; è vero, tuttavia, che, all’interno di personaggi, oggetti e scene si può percepire che l’imprinting è di stampo cristiano, nella fattispecie cattolico. È anche vero che, nonostante nell’epoca moderna si cerchi di negarlo, l’uomo, possiamo dire, per natura, si avvale di simboli per comprendere il mondo. Il pan di via elfico, per fare un esempio, può richiamare l’Eucaristia, certo, ma non solo essa: la simbologia del cibo è ben precedente al cristianesimo (basti pensare all’ambrosia della mitologia classica).
Molto altro ci sarebbe dire e molte sono le piste di riflessione che potrebbero prendere il via da questo romanzo, che, sinteticamente, si può solo definire un capolavoro assoluto. Non solo del genere fantasy o della narrativa, ma della letteratura mondiale.
Maddalena Negri
[1] Questa preoccupazione riemergerà anche nel capitolo 2 del secondo libro (Il consiglio di Elrond): ciò che spinge ad esporsi, proponendosi come “portatore dell’Anello” e dando quindi inizio all’avventura vera e propria, sarà, paradossalmente, “un irrefrenabile desiderio di riposare, con Bilbo, a Rivendell”.
[2] J.R.R. Tolkien, Lo hobbit o la Riconquista del Tesoro, Adelphi, 1997, p.324
[3] Scrive l’Autore stesso, a spiegazione, nella lettera 246: «Frodo in effetti come eroe ha fallito, se giudicato da menti semplici: non ha resistito fino alla fine; ha ceduto, ha tradito. […] Frodo ha fatto ciò che poteva e aveva dato fondo alle sue energie completamente (come strumento della Provvidenza) e aveva raggiunto una situazione in cui l’obiettivo della sua impresa poteva essere raggiunto. La sua umiltà (che possedeva dal principio) e le sue sofferenze furono giustamente ricompensate con i più elevati onori; mentre la pazienza e la compassione che aveva dimostrato nei confronti di Gollum gli fecero meritare la Compassione: al suo fallimento fu posto rimedio» (Tolkien, Lettere 1914/73)
[4] «Il Signore degli anelli è un’opera fondamentalmente religiosa e cattolica; all’inizio, lo è stata inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. È per questo motivo che non ho inserito, o ho eliminato, praticamente ogni riferimento a qualsiasi tipo di religione, culto o pratica religiosa, nel mondo immaginario. L’elemento religioso è insito nella storia e nel simbolismo» (lettera 142, 2 dicembre 1953, cfr. Tolkien, Lettere 1914/73). A questo, dà conferma l’amico gesuita p. Murray, che risponde, assicurando, all’opera, «positiva compatibilità con l’ordine della Grazia».
[5] Claudio Testi, Santi pagani nella Terra di Mezzo, ESD, 2014 – esposto durante l’OP Meeting del 2015, dal titolo “Ma gli hobbit la domenica vanno in chiesa?“
Ulteriore bibliografia:
- P. Gulisano, Tolkien. Il mito e la grazia, Milano 2007
- M.Toninelli, Colui che raccontò la grazia, Cittadella, 2019
Crediti immagini:
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