Il primo giorno della mia vita è l’ultimo film di Paolo Genovese, autore e regista tra gli altri dei fortunati Perfetti sconosciuti e Tutta colpa di Freud.
In questa pellicola affronta, da laico, il complesso tema del suicidio. Primo colpa di scena: come nel telefilm del Tenente Colombo si sa già chi è l’assassino, quattro disperati che hanno deciso di farsi fuori. Ma perché l’hanno fatto, cosa li ha spinti ad un gesto così definitivo ed innaturale?
In questo percorso a ritroso, che poi vedremo svilupparsi tra passato/presente/futuro, ci accompagna “Coso” (Tony Servillo), un essere misterioso con capacità soprannaturali. Questo personaggio (che non ha dignità di nome) raccoglie i suicidi o aspiranti tali, poco prima o poco dopo il perpetrarsi dell’atto insano. Ebbene sì, altro colpo di scena, i quattro infelici non sono davvero morti ma sono come sospesi tra questo mondo e quell’altro, vivi morti o X per dirla come Luciano Ligabue. Coso regala loro una settimana di tempo per ripensarci. Non li giudica né tanto meno li condanna ma tenta in tutti i modi di riaccendere in loro un desiderio di felicità, quel desiderio che, come dice San Tommaso D’Aquino, è inestinguibile nell’uomo.

Girando su una Volvo station wagon datata per una Roma cupa e piovosa assistiamo a ritrovamenti di cadaveri, a funerali: ma i nostri aspiranti suicidi non si lasciano smuovere né dalla vista dei loro poveri corpi straziati né dal dolore di chi resta.
Ma cosa li ha portati a questo punto di disperazione? Ed ecco via via scopriamo che Arianna ha perso una figlia adolescente sua unica ragione di vita, Emilia è un’atleta che non vince più, Daniele è un bambino sfruttato come personaggio mediatico dai genitori, Napoleone è un mental coach affetto da una grave forma di depressione.
Giunti quasi alla fine della settimana “in sospeso”, il nostro traghettatore, Coso, insomma Tony Servillo, fa un ultimo regalo al nostro gruppo di amici: gli mostra dei frame, delle brevi immagini, del loro futuro. Ed ecco che finalmente qualcosa cambia, si fa largo l’idea che si può essere nuovamente felici seppur feriti, anche a morte.
In più i nostri quattro, avendo condiviso per giorni gioia e dolori, solidarizzano, fanno squadra, si fanno carico del dolore l’uno dell’altro: è difficile se non impossibile salvarsi da soli. Alla fine vengono riportati sul luogo del delitto, ovvero del suicidio: a loro la scelta finale, ammazzarsi, stavolta con successo, o meno; non è consentito a nessuno intromettersi con il loro libero arbitrio.
Certo, viene da chiedersi se questa morte auto inflitta sia di fatto una scelta libera e ragionata o forse il frutto di una mente obnubilata dalla disperazione.
Piccolo spoiler: tutti sceglieranno di rimanere in vita tranne uno, quello che non ha saputo coinvolgersi con gli altri compagni di (dis)avventura: volete sapere chi è?! Andate a vedere il film: ve lo consiglio!

Germana Vega
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