Come le vene vivono del sangue. G. De Pascale. Club recensione#

Con una penna delicata, ma densa di emozioni e grande arte mimetica, Gaia de Pascale restituisce al lettore le vicissitudini dell’animo inquieto di Antonia Pozzi, la cui voce poetica si spegne drammaticamente all’età di ventisei anni, strozzata da un’eccessiva manciata di barbiturici.

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Gaia De Pascale

 

Accompagniamo Antonia in un viaggio che fa dei ricordi le sue tappe, e della morte la meta ultima, quasi inevitabile, per quel sentirsi troppo inadeguata alla vita, per quell’eccessiva linfa vitale che urta la dura corteccia esterna, fino a spaccarla, facendo cozzare l’«abbaglio estremo» con la vera luce. Il ribellarsi alle apparenze e agli schemi rigidi imposti dalla borghesia scatena interiormente terremoti di pensieri, l’alienarsi in universi paralleli dove a reggere il timone è la poesia: «Non ho mai smesso di portare dentro di me la vergogna e l’orgoglio di essere poeta». In Antonia c’è un’innata ferita inguaribile, sempre sanguinante, tamponata da gioie caduche ed impotenti dinanzi alle increspature dell’animo. Questi, rigettate le superficialità mondane, sosta, grazie alla poesia, in una dimensione sovrannaturale cercando di «afferrare un barlume di completezza».

Ci muoviamo al confine tra realtà e sogno, tra terra e cielo, dove la pelle è carta bianca e i nelle parole emerse da un cancro inabissato.

Di luce effimera scheggiano la vita della Pozzi, l’amore maturo per il Professore, il deleterio vagheggiare un figlio mai nato, l’amicizia con Vittorio Sereni sulle note intense di June in January, l’amore-amicizia con Remo Cantoni, l’intesa con Lucia infranta da un Dio, così crudele, che toglie, piuttosto che dare sollievi, lasciando lei, sola, nel silenzio dell’immensità dei pensieri, e ancora, la fotografia, arma per cristallizzare sprazzi di vita, la sintonia con Dino Formaggio, l’attivismo politico sollecitato dagli incontri con i fratelli Treves…

A fare da sfondo al romanzo sono una camera d’ospedale, l’ambiente universitario della Milano degli anni trenta, la casa e il cielo di Pasturo, lavagna su cui scalfire i versi migliori, specchio di un animo che rivela il suo essere perennemente «fuori posto, fuori tempo».

Il cuore di Antonia è un «un prato d’oro» su cui camminare, la poesia, bilancia dell’anima, il trampolino per toccare il cielo, che, tuttavia, però, non riesce a liberarsi dal seme del dolore:

 Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:                                                                                                                                         tu sai se io manco e mi perdo,
                                                                                                              tu che allora ti  neghi                                                                                                                              e taci…

Nel romanzo della De Pascale di ogni evento e oggetto si sfumano i contorni per permetterne un’interiorizzazione istantanea e la focalizzazione su dettagli minimi accentua il gioco delle parti, Antonia è noi, noi siamo Antonia. Siamo con lei, viviamo in lei e moriremo con lei.

Il viaggio della memoria si consuma sul prato della gioia giovanile, dei sorrisi sinceri, dei papaveri e dei colori.

Subito dopo ci ritroviamo in ospedale dove le ultime ore di vita – se quella fu vita – prendono una nuova piega a suon di jazz, in casa, all’ombra delle lacrime di chi amò quella ‘bambina’ a cui furono tarpate le ali, ricucite in una nuova vita, quella eterna.

Ci porta via, lontano, un angelo. E spontanea, sorge nel lettore, la domanda: Dio dov’è?

«Ma cosa potevo saperne io di Cristo se nessuno mi aveva mai insegnato a credere in lui, se da bambina ridevo della sua divinità […]?»

La risposta la lascio al lettore. Il Signore lo ispiri di essere buon testimone della sua divinità in chi come Antonia sembra non avere ricevuto una buona trasmissione di fede.

 

Denise Tammaro

 

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