Cristo ieri oggi e sempre. Una refutazione dello storicismo “teologico”. #approfondimenti

L’ immanentismo teologico – notare l’ irriducibile ossimoro- dei nostri giorni, a differenza delle prime eresie che pur si sviluppavano sulla scia di esigenze comunque prettamente teologiche, si fonda invece sull’ umanesimo virtualmente ateo della filosofia moderna e tocca l’ apice non solo nella sua versione  antropocentrica della Cristologia ma anche parallelamente in quel sociologismo pastorale – e psicologismo – che fa coerentemente affermare a Karl Rahner, che «non si dà nessuna teologia, speculativa o pratica, che non sia antropologia» (K. Rahner, «Antropozentrik», in Lexikon fur theologie und kierche, I, col. 633). E questa deriva la si può cogliere, ancor più chiaramente, soprattutto  nell’ opera di Huns Kung che segna così il punto d’ arrivo di tutto quel processo di “sdivinizzazione”, per quanto illusorio, di Cristo, e per conseguenza di “desacralizzazione” della sua Chiesa. Di ispirazione hegeliana, Kung è convinto che i dogmi del Magistero infallibile della Chiesa sono una interpretazione ellenistica dei dati biblici e che vanno reinterpretati via via secondo le esigenze dell’evoluzione culturale. Conseguentemente, non solo va negato il dogma dell’ Infallibilità  petrina, ma per Kung va assolutamente oltrepassata la stessa formula trinitaria di Nicea e quella cristologica dell’ unione ipostatica del Concilio di Calcedonia. Per lui, Gesù deve essere considerato soltanto «un uomo, un ebreo che nell’ ambiente giudaico ha maturato una forte esperienza di Dio come salvezza degli uomini…» ( P. Parente, Postilla di aggiornamento, in L’ Io di Cristo, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo, 1981, p.429). Pertanto Gesù è diventato in Kung un semplice Rappresentante di Dio e quasi avvocato della sua causa (Cfr. H. Kung, Essere cristiani, Mondadori, Milano, 1976, pp. 439 s.). La conclusione ereticale di questa dottrina poggia tutta sul principio d’immanenza che giunge all’ esplicitazione di un conseguente relativismo storicistico, che come ogni altro tipo di relativismo, si distrugge da sé una volta posto, che nega se stesso una volta affermato, perché non-proponibile nella sua riduzione ad una affermazione auto-referenziale e  perciò auto-contraddittoria: una affermazione non-affermabile, un pronunciamento impronunciabile. Infatti, se tutto è relativo alla sua particolare epoca storica perché dovremmo prendere per metastorica questa stessa opinione? Perché l’affermazione «ogni affermazione dipende intrinsecamente dal contesto storico in cui viene formulata» varrebbe indipendentemente da ogni contesto storico? E se si pretende di dire che appunto «tutto tranne questa affermazione è relativa», questa stessa affermazione che si fa soggetto di se stessa è ancora più assurda: ad un medesimo istante è infatti «ciò su cui si predica» e «predicazione stessa». [1] Da qui, la pretesa assurda di identificare idealisticamente  finito e Infinito, «epocando» peraltro  dall’ autentico dato rivelato dell’ umanità e divinità dello stesso Cristo Signore, dimenticandosi che  «…sotto il cielo mai risuonò un Io più tremendo e più dolce di questo, che freme dell’ onnipotenza divina e vibra di tutto l’ umano dolore» (card. P.Parente, op.cit., p. 408).

Fr. Mario Paolo Maria Padovano op

 

[1] La regola è evidente: ogni affermazione non può mai predicare qualcosa di se stessa, in quanto, essendo per sua natura appunto predicazione di qualcosa inerente a qualcos’altro, dovrebbe in tal modo essere predicata già prima di esserlo; e sembra per giunta assomigliare alla «regola dei gradi semantici» per la quale: «Se in un’ espressione un predicato determina un argomento nel quale si trovano espressioni del medesimo grado, al quale questo predicato appartiene, o d’ un grado superiore, essa è priva di senso» ( J. Bochenski, Nove lezioni di logica simbolica, ESD, Bologna 1995, lezione VII,p.114)

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