Nella mia terra sembra aleggiare una presenza femminile, fin dal mare della sirena Partenope che diede a Napoli il suo primo nome; dalle viscere della terra veniva invece la Sibilla di Cuma, che scriveva sulle foglie ciò che leggeva nel fuoco; così come alla foce del Sele, dove aveva il suo santuario, dominava Hera Argiva, la grande madre con la melagrana in mano che conteneva in sé tutta la fertilità della Campania Felix. Esse indicavano all’uomo antico gli elementi della natura, offrendogli la sua abbondanza, ma anche avvertendolo dei suoi pericoli e invitandolo a non sfidarla per non esser divorato.
Poi, ad un certo punto, dall’Oriente giunse una donna che le riunì tutte: era una donna, non una dea, fatta di carne e sangue; una donna che era Vergine e Madre, e nel suo grembo si era formato Dio in persona. La si vede camminare sulla spiaggia di Mergellina cantando come la sirena Partenope, dà i suoi messaggi agli uomini sulla cima di Montevergine e del Monte dell’Avvocata, e nelle grotte che un tempo avevano ospitato le ninfe. Gli uomini le parlano con il loro linguaggio, quello della terra e della carne, quello del tamburo e della danza; le danno la custodia dei ritmi della natura perché sia lei a dir loro quando seminare e quando raccogliere. Come a Capaccio, che sovrasta la Piana del Sele, dove nel corso dei secoli i contadini hanno parlato a questa donna venuta da lontano con il linguaggio della loro terra: la videro seduta in trono e con la melagrana in mano, come un tempo avevano visto Hera Argiva.
E così è entrata un giorno in casa mia, in un’effigie di terracotta che aveva l’odore dei secoli e della terra, opera di un’artigiano che sembrava fosse stato ispirato da colei che ha rappresentato. È venuta nella forma che l’aratro dei contadini, fino a poco tempo fa, a volte faceva riemergere dalle viscere della terra e che ad essi veniva naturale venerare. “ ‘E Madunnelle“, le chiamavano: “le Madonnine”.
E chi dice che anche gli abitanti della Piana del Sele di VIII-IX secolo non avessero le loro “madunnelle” dissotterrate magari per caso dalla polvere dei secoli, ma accolte sempre come un dono, una benedizione entrata nella loro casa?
Ho provato a immaginare come quei contadini, in fondo ancora Greci nel midollo, potessero rivolgersi a questa loro Theotokos (“Madre di Dio”), la Panaghia (“Tutta Santa”), che tende all’uomo una patera con una mano e una melagrana con l’altra: quasi a dire che se egli metterà il suo cuore in quella patera, la Vergine Madre gli potrà restituire cento volte tanto.
La Beata Vergine del Melograno
io canto, che la Grazia ha generato,
regina immortale
dalla bellezza suprema;
di Dio Onnipotente
madre e figlia,
gloriosa, che tutti i beati
nell’alto dei Cieli,
venerano e onorano
al pari del Signore, Re dei Re.
Federica Garofalo originariamente pubblicato in marzo 5 2016 su https://ilpalazzodisichelgaita.wordpress.com/2016/03/05/inno-alla-vergine-del-melograno/
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