La recrudescenza della crisi ariana
Apparentemente, con il Concilio di Nicea, la crisi ariana era stata risolta e l’unità tra le chiese era stata ripristinata. Ma pochi anni dopo sorse una forte reazione antinicena, caratterizzata fondamentalmente da due tendenze. C’era un piccolo ma attivo gruppo di simpatizzanti ariani che avevano sottoscritto il Simbolo Niceno per paura di essere esiliati, ma non avevano rinunciato a nessuna delle loro convinzioni. L’altro gruppo comprendeva un gran numero di vescovi orientali le cui credenze erano fondamentalmente ortodosse, ma che temevano che il termine homooùsios potesse favorire il monarchianesimo, cioè di quella corrente di pensiero teologico la quale accentuava l’unità di Dio e del suo governo sul mondo a scapito della sua tripersonalità. Questi sentimenti furono abilmente sfruttati dal primo gruppo, al quale appartenevano i veri leader della reazione, tra cui Eusebio di Nicomedia, Eusebio di Cesarea, Paolino di Tiro e Menofante di Efeso. Sapendo quanto fortemente Costantino tenesse al Credo di Nicea, all’inizio costoro evitarono un attacco diretto contro di questo e concentrarono i loro sforzi per eliminare i difensori più influenti dell’homooùsios.
Così, a partire dal 328, Eustazio di Antiochia, Marcello di Ancira e, infine, il più importante difensore dell’ortodossia nicena, Atanasio di Alessandria, caddero vittime di questa guerra teologica e personale: tutti furono deposti per sentenza sinodale e sostituiti da membri del partito antiniceno. Nel frattempo, lo stesso Ario veniva richiamato dall’esilio, anche se morì improvvisamente a Costantinopoli proprio alla vigilia della sua ufficiale riammissione alla comunione ecclesiale. Dopo la morte di Costantino (337) tutti i vescovi esiliati furono autorizzati di tornare nelle loro sedi; ma la divisione dell’Impero tra Costante, che governava in Occidente e favoriva il partito niceno, e Costanzo II, che governava l’Oriente e favoriva la reazione antinicena, ebbe degli importanti riflessi all’interno della Chiesa.
Atanasio, Marcello e altri furono riconosciuti come vescovi legittimi dall’Occidente al concilio di Roma (340-41), ma furono considerati deposti e scomunicati dall’Oriente al concilio di Antiochia (341). Proprio in quest’ultimo sinodo Eusebio di Nicomedia e i suoi sostenitori osarono per la prima volta attaccare direttamente la fede nicena: promulgando il cosiddetto Secondo Credo di Antiochia, noto anche come Credo di Luciano di Antiochia, che, pur condannando diverse dottrine ariane, ometteva le più caratteristiche espressioni nicene, tra cui il tanto odiato homooùsios.
Il concilio di Sardica, convocato nel 343 da entrambi gli imperatori per ristabilire l’unità, non riuscì a sanare la frattura tra l’episcopato orientale e quello occidentale, poiché il primo si rifiutò di partecipare ad una riunione a cui sarebbero stati presenti anche Atanasio e i suoi compagni esuli. Tuttavia le pressioni dell’imperatore Costanzo e un desiderio generale di distensione produssero una precaria pace; Atanasio tornò ad Alessandria nel 346 e rimase in possesso della sua sede fino al 356. La morte di Costante, nel 350, e di papa Giulio I, nel 352, e l’appoggio di Costanzo II (rimasto unico sovrano dell’Impero) diedero però nuova linfa al partito antiniceno, che scatenò un’offensiva senza precedenti contro i suoi avversari.
Già nell’inverno del 351 un gruppo di vescovi orientali tenne un sinodo nella residenza imperiale di Sirmio. Dopo aver deposto il vescovo locale, Fotino, un discepolo di Marcello di Ancira, promulgarono quello che è conosciuta come la Prima Formula di Sirmio, composta da una simbolo di fede (che ricalcava il cosiddetto Quarto Credo di Antiochia) e una serie di anatemi diretti in parte contro l’arianesimo radicale e in parte contro le dottrine di Marcello e Fotino. Fatta eccezione per l’omissione dell’homooùsios e alcune tracce di subordinazionismo, questa formula era suscettibile di un’interpretazione ortodossa. I leader del partito antiniceno, specialmente i due vescovi ariani, Valente di Mursa e Ursacio di Singiduno, approfittando del potere loro conferito dalla particolare vicinanza alla corte imperiale, organizzarono un attacco a tutto campo contro il capo indiscusso del partito niceno, il già più volte menzionato Atanasio. Sotto la forte pressione dell’imperatore Costanzo, due concili occidentali concordarono la condanna di Atanasio: Arles nell’ottobre 353 e Milano nella primavera del 355. I pochi vescovi che si opposero a queste decisioni, tra cui papa Liberio e Ilario di Poitiers, furono esiliati in Oriente, e l’ormai centenario Osio di Cordova fu rinchiuso per un anno in una prigione a Sirmio.
Avendo costretto le chiese occidentali alla sottomissione, Costanzo e i suoi consiglieri filo-ariani si rivolsero verso Oriente. Nel febbraio 356 Atanasio fu costretto a fuggire nel deserto, dove si nascose per sei anni; e un vescovo ariano, Giorgio di Cappadocia, fu insediato sulla cattedra alessandrina. Così tutte le voci sollevate in difesa della fede nicena furono messe a tacere, e tutte le sedi vescovili furono occupate da esponenti del partito ariano o da fiancheggiatori dello stesso. Questo momentaneo trionfo causò però la caduta della coalizione antinicena: unito nella battaglia contro Atanasio e la fede di Nicea, il fronte antiniceno si spaccò irrimediabilmente quando si tratto di formulare un Simbolo alternativo a quello niceno.
Emersero allora tre fazioni principali, in lizza per il favore di Costanzo e la supremazia nella Chiesa. Ognuna di queste formulò un proprio Credo; ognuna tenne almeno un concilio dominato dai suoi capi; e ognuna conobbe un effimero successo. Poiché la posizione dottrinale di ciascuna di queste fazioni era caratterizzate dal modo con cui si opponevano al Simbolo di Nicea e all’odiato homooùsios, esse sono state battezzate tramite la loro espressione teologica peculiare: la fazione radicale era quella dei cosiddetti anomei, che ritenevano che il Figlio fosse anòmoios (dissimile) dal Padre; c’erano poi la fazione più moderata dei cosiddetti omoiusiani, che preferivano il termine homoioùsios (di sostanza simile) al Padre; per finire, c’erano gli omei, la cui parola d’ordine homoios (simile) che, con la sua ambiguità, poteva coprire tutte le posizioni.
I primi a contendersi il potere furono gli ariani radicali, guidati da Valente e Ursacio in Occidente e da Eudossio ed Eunomio in Oriente. Nell’estate del 357 essi tennero un sinodo a Sirmio che, con l’approvazione di Costanzo II, promulgò la Seconda Formula di Sirmio. Questa sottolineava l’inferiorità del Figlio rispetto al Padre, il che provocò una violenta indignazione sia in Occidente che in Oriente, per la sua impostazione prettamente ariana. Basilio di Ancira e Giorgio di Laodicea organizzarono l’opposizione tra i moderati del partito antiniceno. Questa, nei sinodi di Ancira (primavera del 358) e Sirmio (estate del 358) ottene una decisa condanna della posizione anomiana e definì la propria posizione nella Terza Formula di Sirmio, la cui parola chiave era homoioùsios, cioè “il Figlio è di sostanza simile al il Padre”. Basilio di Ancira pianificò anche un altro concilio generale da tenersi a Nicomedia, ma un terremoto lo costrinse a rimandare e diede ai suoi nemici il tempo di guadagnare favore dell’imperatore per il terzo gruppo, gli omei, guidati da da Acacio di Cesarea. Egli convinse Costanzo a convocare due sinodi, uno per l’Occidente a Rimini e uno per per l’Oriente a Seleucia. Per preparare gli stessi, Marco di Aretusa redasse un altro credo, la Quarta Formula di Sirmio, che proclamava il Figlio homoios, simile al Padre in tutte le cose in cui le Scritture li dichiarano tali. Con alcune variazioni, la più importante delle quali era l’omissione finale dal testo della clausola “in tutte le cose”, questo credo fu imposto ai vescovi di tutta la Chiesa nei concili di Rimini (ottobre del 359), Seleucia (inverno del 359) e Costantinopoli (gennaio del 360). Questo trionfo della corrente ariana fu però abbastanza velleitario, poiché si basava esclusivamente sull’appoggio imperiale e crollò immediatamente dopo la morte di Costanzo II, nel 361.
A partire dal sinodo di Alessandria del 362, l’ortodossia ricominciò a guadagnare inesorabilmente terreno, alimentata anche dagli scritti dei tre grandi Padri Cappadoci, Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo. Sotto Valente (364-78) gli omei riguadagnarono il favore imperiale in Oriente, ma persero ogni appoggio alla sua morte. I nuovi imperatori Graziano e Teodosio I erano forti difensori della fede nicena. Nel 380, con l’Editto di Tessalonica, il cristianesimo fu dichiarato religione ufficiale dell’Impero. Il suddetto Editto imponeva altresì la fede nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali.

Convocazione e svolgimento del concilio
Da maggio a luglio del 381, su invito degli imperatori Teodosio I e Graziano, circa 150 vescovi della Tracia, dell’Asia Minore e dell’Egitto si riunirono a Costantinopoli per affrontare in un modo che fosse definitivo la crisi ariana che, come mostrato sopra, aveva tormentato l’Oriente durante tutto il regno di Costanzo II. Sotto la presidenza di Melezio di Antiochia, l’assemblea depose il vescovo ariano di Costantinopoli, Massimo il Cinico, e lo sostituì con Gregorio di Nazianzo, che presiedette il Concilio dopo la morte improvvisa di Melezio stesso. Il Concilio accettò il Credo Niceno, proclamò Costantinopoli come seconda sede dell’Impero dopo Roma, e, dopo le dimissioni di Gregorio, la cui autorità fu sfidata da Timoteo di Alessandria, scelse Nettario, un funzionario imperiale in pensione, come nuovo vescovo. L’accettazione da parte del Concilio dell’insegnamento sulla divinità dello Spirito Santo provocò opposizione da parte dei vescovi macedoni, che si rifiutarono di parteciparvi.
Poiché gli atti di questo concilio sono andati perduti, il suo svolgimento e le sue decisioni sono note solo attraverso una lettera che fu inviata a papa Damaso l’anno seguente (382), la quale attesta che il Concilio confermò la fede di Nicea, accettò la consustanzialità e la coeternità delle tre Persone divine nella Trinità e chiarì la perfetta umanità del Verbo contro coloro che la negavano. Il cosiddetto Credo di Costantinopoli, che fu effettivamente composto dopo il sinodo alessandrino del 362 e che incarnava il Credo di Gerusalemme, fu recitato da Nettario nella cerimonia battesimale che precedette la sua consacrazione durante il Concilio, e poi divenne proprio della Chiesa di Costantinopoli.
Il Concilio promulgò quattro canoni, i quali stabilivano: (1) la condanna dell’eresia ariana nelle sue varie declinazioni; (2) alcuni limiti alle attività giurisdizionali delle diocesi per tutti i vescovi; (3) l’elevazione di Costantinopoli come seconda sede dopo Roma in onore e dignità; (4) la condanna di Massimo il Cinico e i suoi seguaci. Altri tre canoni che compaiono nei manoscritti greci sono generalmente ritenuti spurii (anche se sono ancora oggi accettati dalla Chiesa ortodossa) e risalgono con tutta probabilità ad un sinodo locale del 382. I canoni dal secondo al quarto avevano lo scopo di prevenire le interferenze della sede di Alessandria nelle diocesi ecclesiastiche dell’Oriente. Il concilio si chiuse il 9 luglio 381, e su richiesta dei vescovi l’imperatore promulgò i suoi decreti il 30.
Gli stessi padri conciliari parlano di questo concilio definendolo “ecumenico”. Questo termine era stato usato in riferimento a un concilio di Cartagine in una lettera a papa Celestino I da parte dei vescovi africani, e doveva avere il significato di un “concilio completo o generale”, in contrasto con il synodos endemousa, il concilio locale permanentemente in sessione a Costantinopoli. Gregorio di Nazianzo mostrò fastidio per l’uso del termine ecumenico, e non ci sono prove che gli atti del Concilio siano stati recepiti da papa Damaso nel sinodo romano del 382. Tuttavia, il Concilio è menzionato negli atti della seconda e terza sessione del successivo concilio di Calcedonia, e in quelli della sedicesima sessione congiuntamente con quello di Nicea. Come vedremo a suo tempo, la regola calcedonese che designava Costantinopoli come seconda sede per autorità dopo Roma (il cosiddetto canone 28), che era stata stabilita proprio a Calcedonia (con il succitato canone 3), diventò poi legge per le chiese orientali. Tuttavia, papa Leone I si oppose strenuamente alla validità di questa regola, sostenendo che il terzo canone di Costantinopoli, su cui questa si fondava, non era mai stato portato all’attenzione di Roma.
Adriano Virgili
Alcuni riferimenti bibliografici:
Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei concili ecumenici, Torino, UTET, 1978
Pierre-Thomas Camelot, Paul Christophe, Francis Frost, I concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 2001
Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Chieti, GBU, 2008
Klaus Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 2012
Emanuela Prinzivalli (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età antica (secoli I-VII), Roma, Carocci, 2015
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