Eutiche e il Latrocinio di Efeso
In qualità archimandrita di un importante monastero sito vicino a Costantinopoli, verso la metà del V secolo, Eutiche godeva di grande influenza alla corte di Teodosio II attraverso il suo figlioccio, l’eunuco Crisafo. Questi, fedele più alla formula che alla teologia di san Cirillo di Alessandria, nel suo zelo antinestoriano riconosceva una sola natura in Cristo. Per tale ragione fu il bersaglio polemico di Teodoreto di Cirro, il quale scrisse contro di lui il suo Eranistes seu Plymorphos (447), pur senza mai nominarlo. Sempre per questo motivo, fu denunciato come eretico da Eusebio di Dorileo al cospetto del synodos endemousa l’8 novembre 448. Eutiche, all’inizio si rifiutò di obbedire alla convocazione del patriarca Flaviano di Costantinopoli. Quando alla fine si presentò, il 22 novembre, rifiutò ostinatamente di confessare le due nature in Cristo e fu condannato e deposto. Papa Leone I confermò questa sentenza (Epist. 23, 29, 30).
Dopo la condanna di Eutiche, Teodosio II decise, su suggerimento dell’eunuco Crisafo, dello stesso Eutiche e di Dioscoro di Alessandria, di convocare un concilio per riabilitare l’archimandrita, deporre Flaviano e “riaffermare la fede ortodossa” contro i nestoriani, cioè coloro che, come Teodoreto, non erano conformi alla formula di Eutiche. Papa Leone I inviò tre legati insieme a un suo articolato scritto, il Tomo a Flaviano (13 giugno 449), nel quale esponeva nel dettaglio la dottrina cattolica sul mistero dell’Incarnazione.
Il concilio si aprì a Efeso l’8 agosto 449. Nelle sue Istruzioni a Dioscoro, al quale affidò la presidenza del concilio, Teodosio suggerì che l’assemblea non aggiungesse o togliesse nulla dalle formule di fede dei Concili di Nicea e di Efeso. I vescovi che avevano condannato Eutiche nel 448 erano presenti, ma fu impedito loro di prendere parte alle discussioni. Flaviano vestiva il ruolo di accusato, mentre Teodoreto di Cirro era stato addirittura escluso dal concilio. In tutto circa 130 vescovi, tutti vicini ad Eutiche e ai suoi sostenitori, accettarono la guida di Dioscoro, mentre i sostenitori di Flaviano furono ridotti al silenzio e i tre legati romani – Giulio, vescovo di Pozzuoli, il diacono Ilario e il notaio Dulcizio –, che non conoscevano il greco, non ebbero la possibilità di interagire efficacemente con l’assemblea.
All’apertura del concilio, Giulio e Ilario, parlando attraverso un interprete, chiesero che venisse letta la lettera del papa. La loro richiesta fu ignorata, e al posto di questa fu data lettura agli atti del concilio di Costantinopoli che aveva condannato Eutiche, lettura spesso interrotta dalle grida e dalle proteste dei vescovi presenti che, su suggerimento di Dioscoro, minacciarono l’anatema a chiunque parlasse delle due nature di Cristo.
Alla fine, Eutiche fu reintegrato, mentre le richieste da parte dei legati romani che fosse letto il Tomo di Leone furono ulteriormente ignorate. Dioscoro propose la deposizione di Flaviano e di Eusebio di Dorileo. Flaviano e il diacono Ilario protestarono veementemente e scoppiò una sorta di parapiglia. A questo punto, però, le guardie e la folla penetrarono nella basilica e con la forza condussero fuori tutti i dissenzienti, malmenandoli in malo modo. Quando l’ordine fu ristabilito, i vescovi si accordarono per deporre Flaviano. Questi fu mandato in esilio, ma morì durante il viaggio (probabilmente a causa delle percosse subite ad Efeso). Una seconda sessione del 22 agosto depose altri vescovi sospettati di “nestorianesimo”, cioè Teodoreto di Cirro, Iba di Edessa, e Domno di Antiochia. Il partito eutichiano trionfò e fu ripudiato l’accordo dottrinale che era stato raggiunto nel 433 tra Cirillo di Alessandria e Giovanni di Antiochia.
Essendo stato informato di ciò che era accaduto a Efeso dal suo diacono Ilario, che era sfuggito alla cattura e gli aveva portato un appello di Flaviano, il 29 settembre 449 papa Leone denunciò in un sinodo romano le decisioni di quello che più tardi chiamò un latrocinio (Epist. 95 del 20 luglio 451).
Convocazione e svolgimento del Concilio
Leone protestò fortemente con l’imperatore Teodosio II e sua sorella Pulcheria per quanto avvenuto a Efeso chiedendo la convocazione di un concilio generale in Italia, ma non ricevette alcuna riposta. Anche l’intervento diretto dell’imperatore d’Occidente Valentiniano III (febbraio 450) non ebbe alcun effetto. Teodosio si attenne alle decisioni prese durante il Latroncinio di Efeso ed eluse qualsiasi tentativo da parte del pontefice romano di intervenire negli affari orientale. Più tardi (16 luglio 450), scrivendo all’imperatore riguardo all’elezione di Anatolio alla sede di Costantinopoli, Leone mantenne la sua posizione: Anatolio doveva attenersi alla professione della fede cattolica come era stata esposta nel suo Tomo a Flaviano.
La morte improvvisa di Teodosio (28 luglio 450) portò ad un rovesciamento della situazione. Pulcheria, giunta al potere, sposò immediatamente il senatore Marciano, che divenne quindi imperatore (24 agosto 450). L’onnipotente eunuco Crisafo fu messo a morte ed Eutiche fu esiliato e imprigionato. Scrivendo al papa per annunciare la sua ascesa al trono, Marciano propose di convocare un concilio, suggerendo successivamente che sarebbe stato preferibile convocarlo in Oriente. Ma Leone temporeggiò nella sua risposta dell’aprile 451, e in un’altra lettera (9 giugno) affermò che il pericolo di invasione da parte degli unni sembrava rendere inopportuno un concilio generale dei vescovi. Leone avrebbe preferito un concilio in Italia piuttosto che in Oriente, dove sarebbe stato inevitabilmente influenzato dagli intrighi di corte. Ma il 23 maggio Marciano convocò un concilio per il 1 settembre 451, a Nicea, in Bitinia.
All’ordine del giorno del concilio c’era un importante problema dottrinale. Sembrava necessario completare, infatti, il lavoro del Concilio di Efeso, risolvendo la questione della dualità o unità della natura in Cristo; solo così si sarebbe potuto porre fine all’errore di Eutiche e di coloro che irrigidivano e deformavano il pensiero di Cirillo di Alessandria. Leone credeva che il suo Tomo fosse sufficiente a risolvere la questione e temeva che un concilio avrebbe rischiato di rinnovare i problemi che si erano verificati durante il Latrocinio di Efeso. Marciano, invece, pur aderendo fermamente alla posizione ortodossa, desiderava un concilio in Oriente, dove l’autorità imperiale potesse giudicare la questione dottrinale.
Alla notizia della convocazione del concilio, Leone rispose che non si sarebbe opposto alla decisione dell’imperatore e che avrebbe inviato dei legati a presiederlo al suo posto. Era necessario, tuttavia, mantenere la fede come definita al Concilio di Efeso e come esposta nel suo Tomo a Flaviano. I vescovi convocati al concilio si riunirono inizialmente a Nicea, ma furono presto trasferiti a Calcedonia in modo che Marciano potesse supervisionare l’andamento delle discussioni che si sarebbero svolte. Erano presenti 350 o 360 vescovi, anche se una tradizione più tarda parla di 600 o 630. Erano quasi tutti vescovi orientali; l’Occidente era rappresentato da tre legati romani e due vescovi africani.
Il Concilio iniziò l’8 ottobre 451 nella basilica di santa Eufemia, alla presenza di 19 commissari imperiali e sotto la presidenza effettiva dei legati romani: i vescovi Pascasino di Lilibeo e Lucenzio di Ascoli e il presbitero Bonifacio. Le prime quattro sessioni (8-17 ottobre) costituirono un processo agli istigatori dello sciagurato Latrocinio di Efeso, e fin dall’inizio Pascasino chiese la condanna di Dioscoro, che infatti fu deposto alla terza sessione (13 ottobre). Le lettere sinodali di Cirillo di Alessandria furono approvate solennemente, ma non fu fatta alcuna menzione dei 12 anatemi. Allo stesso modo, il Tomo di Leone fu accettato al grido: “Pietro ha parlato attraverso Leone”. Sebbene i vescovi fossero riluttanti ad aggiungere qualcosa a ciò che era stato stabilito nei Concili di Nicea I e di Efeso, Marciano desiderava che fosse formulata una definizione dottrinale tale da porre definitivamente termine alla controversia, tanto più quando scoprì che c’erano alcuni che esitavano a parlare di due nature in Cristo negli stessi termini in cui faceva Leone.
Alla quarta sessione (22 ottobre) fu presentato un testo che era stato redatto da una commissione sotto la presidenza del vescovo Anatolio di Costantinopoli (testo che è stato conservato negli atti conciliari). Questo fu approvato dai vescovi, ma osteggiato da Pascasino, che pensava che non rendesse giustizia alla dottrina di Leone. Pascasino giunse addirittura a minacciare di abbandonare il Concilio se al pensiero di Leone non fosse stata data la giusta considerazione. Per evitare un’impasse i commissari imperiali proposero che fosse formata una nuova commissione di sei vescovi. Tale commissione propose una nuova formula di fede che era conforme al pensiero di Leone, definendo esplicitamente le due nature in Cristo. Questa dichiarazione fu accettata dai vescovi e fu approvata solennemente il 25 ottobre alla presenza di Marciano e Pulcheria.
Nelle 10 (o 11) sessioni rimanenti (26-31 ottobre) furono trattati i casi Teodoreto di Cirro, Iba di Edessa e Domno di Antiochia e furono discussi e promulgati alcuni canoni d’ordine disciplinare. Dopo aver inviato una lunga lettera al papa per spiegare le loro azioni e chiedere la sua conferma dei decreti del Concilio, i vescovi lasciarono Calcedonia.
Decisioni e conseguenze del Concilio
La formula di fede approvata a Calcedonia fu la seguente:
“Seguendo, quindi, i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio: il signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo, consustanziale al Padre per la divinità, e consustanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l’umanità, uno e medesimo Cristo signore unigenito; da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, non essendo venuta meno la differenza delle nature a causa della loro unione, ma essendo stata, anzi, salvaguardata la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; Egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo Figlio, unigenito, Dio, verbo e signore Gesù Cristo, come prima i profeti e poi lo stesso Gesù Cristo ci hanno insegnato di lui, e come ci ha trasmesso il simbolo dei padri.”
Questa formula di fede è basata espressamente sulla Scrittura, sulle definizioni di Nicea e Costantinopoli I, e sugli insegnamenti dei Santi Padri, e prende nota in particolare delle lettere sinodali di Cirillo e del Tomo di Leone. Si oppone a coloro che vogliono distruggere il mistero dell’Incarnazione scindendo Cristo e rifiutando di chiamare Maria Madre di Dio (cioè i nestoriani), a coloro che sostengono che la natura divina è capace di soffrire, e a coloro che confondono o amalgamano le due nature e parlano di una sola natura successiva all’unione (cioè Eutiche). Il Concilio definisce un solo Cristo, perfetto Dio e uomo, consustanziale al Padre e consustanziale all’uomo, un solo essere in due nature, senza divisione o separazione e senza confusione o mutamento. L’unione non sopprime la differenza delle nature; le loro proprietà rimangono intatte e sono unite in una sola Persona, o ipostasi.
Questa definizione fu elaborata a partire dalle formule di Cirillo, Leone I, Giovanni di Antiochia, Flaviano di Costantinopoli e Teodoreto di Cirro con notevole equilibrio, amalgamando la teologia di Cirillo con quella di Leone, e proclamava definitivamente l’unica Persona di Cristo, figlio di Dio e figlio di Maria, vero Dio e vero uomo.
Il 25 ottobre il Concilio, in risposta all’invito di Marciano, promulgò 27 canoni dedicati alla disciplina ecclesiastica e alla direzione e condotta morale del clero e dei monaci. Definì i diritti individuali dei vescovi e dei metropoliti: i sacerdoti dovevano essere sottomessi all’autorità del vescovo; i monaci dovevano risiedere nei loro monasteri ed erano sttoposti alla giurisdizione del vescovo locale; entrambi dovevano osservare il celibato sotto pena di scomunica. Tutti questi regolamenti erano giustificati da alcuni eventi che avevano preceduto il Concilio.
Il 29 ottobre, tuttavia, un altro canone diede alla sede di Costantinopoli privilegi uguali a quelli di Roma e concesse al suo vescovo la giurisdizione sui metropoliti del Ponto, dell’Asia e della Tracia. Questo primato in Oriente era basato sull’importanza politica della “nuova Roma”, in cui ora risiedevano l’imperatore e il senato. Il giorno seguente i delegati romani protestarono vigorosamente in nome del vescovo di Roma e richiamarono l’attenzione sui canoni di Nicea, che avevano determinato l’ordine gerarchico delle sedi patriarcali.
Leone non rispose alla lettera del Concilio che che gli chiedeva di confermare i suoi decreti. Successivamente, il 22 maggio 452, annullò tutto ciò che era stato fatto in spregio ai canoni di Nicea; fu solo il 21 marzo 453 che Leone confermò i decreti del Concilio, e solo per quanto riguardava le questioni di fede. Questo incidente fu un episodio significativo nella determinazione di quell’opposizione che sarebbe cresciuta tra Roma e Costantinopoli nei secoli successivi.
Il Concilio di Calcedonia rappresentò comunque il culmine nella storia del dogma dell’Incarnazione. Oltre a trattare le diverse tendenze teologiche che si confrontavano, esso affermò la dottrina cattolica che conservava indissolubilmente i due aspetti del mistero: l’unità di persona nel Verbo Incarnato e la perfetta integrità delle sue due nature. La teologia di Cirillo e quella di Leone, come erede di Sant’Agostino e Tertulliano, si fondono; le formule calcedonesi rendono giustizia anche a quanto di valore si trova nella teologia antiochena. Tuttavia i partigiani cirillani rimasero assolutamente contrari al concetto delle due nature, nelle quali si intestardirono a voler vedere una forma di nestorianesimo. Il monofisismo, anche se spesso solo verbale, stava per nascere e provocare molti litigi e scismi, che rimangono ancora irrisolti.
Da un altro punto di vista, il Concilio di Calcedonia segnò un passo importante nello sviluppo del primato romano. L’autorità di Celestino era stata affermata a Efeso; quella di Leone fu imposta con ancora maggiore vigore a Calcedonia. La dottrina del primato della Sede Apostolica, in opposizione a una “Chiesa dell’Impero”, caldeggiata dagli imperatori di Costantinopoli, trovò una sua prima affermazione (per quanto non canonicamente definita). Anche se questo primato fu implicitamente riconosciuto all’unanimità a Calcedonia, esso però correva ancora il rischio di essere messo in discussione, e l’unità della Chiesa fu compromessa dal pericoloso principio politico che veniva invocato per giustificare il primato di Costantinopoli in Oriente.
Adriano Virgili
Alcuni riferimenti bibliografici:
Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei concili ecumenici, Torino, UTET, 1978
Pierre-Thomas Camelot, Paul Christophe, Francis Frost, I concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 2001
Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Chieti, GBU, 2008
Klaus Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 2012
Emanuela Prinzivalli (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età antica (secoli I-VII), Roma, Carocci, 2015
Molto interessante, grazie! Ho anche preso nota di alcuni testi di approfondimento. 🙂
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