Che cosa sono i vangeli? #lanternadelcercatore

L’importanza della questione

I quattro vangeli canonici, per quanto ne sappiamo, sono stati i primi testi a recare il nome di “vangelo”: cosa significa? Perché è stata data loro questa designazione? E quali aspettative avrebbe avuto un lettore antico rispetto ad un testo recante un tale titolo?

A questi interrogativi deve essere necessariamente aggiunto quello relativo al genere letterario in cui ricadono i vangeli. Oggi, per sapere che cosa ci possiamo aspettare da un libro siamo soliti leggere la quarta di copertina del medesimo o la sua introduzione. Così, un lettore moderno ha un approccio abbastanza diverso alla lettura di un saggio storico o filosofico rispetto a quello che avrà per un libro di fiabe o un testo umoristico. Allo stesso modo, un lettore antico si aspettava cose diverse, per esempio, dal resoconto storico di Tucidide sulla guerra del Peloponneso rispetto al trattato sulla retorica di Aristotele. Sapere quindi qualcosa sul genere di un’opera antica può certamente aiutarci, leggendola a molti secoli di distanza, a comprendere quale era lo scopo del suo autore e quale fosse il modo in cui i suoi lettori originari si rapportavano alla stessa. Il genere letterario è per molti versi una sorta di contratto implicito tra autore e lettore, con aspettative condivise, che permette una buona comunicazione (aspettative che si modificano man mano che i lettori leggono e rileggono il libro). Conoscendo il genere letterario di uno scritto, possiamo altresì sapere quando il suo autore introduce un qualcosa di nuovo. Gli autori possono infatti infrangere i limiti dei generi letterari stabiliti e introdurre nuovi elementi o addirittura nuovi generi letterari (come alcuni studiosi ritengono sia avvenuto proprio con i vangeli).

Il significato del termine “vangelo”

Per i membri della primitiva comunità gesuana sarebbe stata forse una grande sorpresa imbattersi in un libro indicato come “vangelo”, poiché per loro il “vangelo” era semplicemente il messaggio evangelico. La parola stessa (in greco euangelion) significa “buona notizia” ed era usata nella cultura greco-romana per gli annunci di una certa importanza, come l’avvento di un nuovo imperatore. Negli scritti ebraici, il verbo corrispondente (greco euangelizomai) è usato per annunciare la venuta di Dio in soccorso del suo popolo (ad esempio Isaia 40,9; 52,7; Gioele 2,32; Naum 1,15).

In tutte le lettere di Paolo, che sono gli scritti cristiani più antichi che ci siano pervenuti, il sostantivo “vangelo” indica il messaggio cristiano sulla venuta, la vita, la morte e la risurrezione di Gesù che Paolo e altri predicano (ad esempio Roma 1,1-4, 16; 1 Cororinzi 15,1; 2 Corinzi 2,12), si tratta di un annuncio di tipo orale (ad esempio Romani 1,15; 1 Corinzi 1,17; 9,16).

Quindi, come ha fatto una parola associata ad un messaggio orale a diventare il titolo di libro?

In primo luogo c’è da prendere in considerazione il fatto che quando Matteo, Marco, Luca e Giovanni apparvero per la prima volta in forma scritta, non erano etichettati come “vangeli”. Questa designazione fu loro assegnata più tardi, quando furono raccolti insieme, e ciascuno fu visto come espressione dell’unico vangelo (messaggio) di Gesù, ma raccontato “secondo Matteo”, “secondo Marco”, “secondo Luca” e “secondo Giovanni”.

Per rispondere però all’interrogativo posto è necessario prendere in considerazione il genere letterario dei Vangeli, vale a dire con quale tipo di scritti antichi questi presentano delle similarità e, una volta individuato, analizzare le peculiarità che li distinguono invece dagli stessi.

I Vangeli nel quadro della letteratura antica

Da sempre gli studiosi confrontano i Vangeli con gli altri scritti antichi nel tentativo di individuare le caratteristiche che li accomunano agli stessi. Storicamente sono state individuati in modo particolare tre generi letterari che sembrano avere delle affinità con i Vangeli.

Ci sono gli “atti” (in greco praxeis), scritti che offrivano resoconti delle gesta di grandi figure storiche. Nel II secolo d.C. Arriano scrisse, ad esempio, le sua Anabasi sulle campagne militari e le battaglie di Alessandro Magno. Gli Atti degli Apostoli sono un esempio di un libro cristiano che usa questo titolo. C’è da considerare che i Vangeli contengono una buona quantità di insegnamenti di Gesù, e contengono relativamente poca azione e praticamente nessuna delle imprese del tipo che i lettori greci si sarebbero aspettati leggendo uno scritto afferente a questo genere (principalmente politico e militare). Inoltre Gesù non era né un sovrano né un condottiero, per cui non sembra possibile che i vangeli possano ricadere sotto il genere letterario degli “atti”.

Ci sono poi le “memorie” (greco apomnemoneumata), che erano raccolte di storie individuali su, o detti di, una persona famosa. Molto note sono, per esempio, le Memorie che Senofonte scrisse su Socrate (circa 380 a.C.). Nel 150 d.C. circa, Giustino Martire descrive in questo modo gli incontri cultuali dei primi cristiani: “E nel giorno chiamato ‘del Sole’ ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne, e si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo lo consente”.(Prima Apologia 67.3) Egli scrive Anche anche “le memorie degli apostoli … sono chiamate vangeli”(Prima Apologia 66.3). Giustino vede quindi delle somiglianze tra questi scritti cristiani e le precedenti “memorie”, sebbene sia l’unico autore cristiano antico a descrivere i vangeli in questo modo. I nostri vangeli, tuttavia, contengono molte cose che sarebbero considerate estranee ad uno scritto catalogabile nel genere letterario delle “memorie”, compresa la maggior parte delle descrizioni di quanto Gesù faceva e di quanto gli capitò, come il racconto relativo alla sua morte. Infatti, quando prendiamo in considerazione lo spazio che ogni vangelo dedica al racconto degli ultimi giorni di Gesù, dalla sua morte e della sua risurrezione (quasi il 50% in Marco), e la quantità relativamente piccola di spazio che invece occupano i suoi insegnamenti (specialmente in Marco), è probabile che un lettore antico non si sarebbe trovato molto d’accordo con la scelta di Giustino di riferirsi a questi scritti come a delle “memorie”.

Per finire, ci sono le “vite” (in greco bioi) del mondo antico. Plutarco, il più prolifico autore di biografie dell’antichità, espone i suoi obiettivi in questo modo: “Nell’accingermi a scrivere in questo libro la vita di Alessandro il Grande e di Cesare, il vincitore di Pompeo, considerata la massa degli accadimenti, null’altro dirò a modo di prefazione se non questo: i lettori non mi diano addosso se non riferisco tutti gli episodi, né narro in modo completo, ma, per lo più, in forma riassuntiva i più celebrati che prendo in esame. Il fatto è che non scrivo storia, ma biografia; e non è che nei fatti più celebrati ci sia sempre una manifestazione di virtù o di vizio, ma spesso un breve episodio, una parola, un motto di spirito mette in luce il carattere molto meglio che non battaglie con migliaia di morti, grandissimi schieramenti di eserciti, assedi di città. Come dunque i pittori colgono la somiglianza dei loro soggetti dal volto e dalle espressioni degli occhi, dai quali si evidenzia il carattere, e pochissimo si curano delle altre parti del corpo, così mi si deve concedere di interessarmi di più di quelli che sono i segni dell’anima, e mediante essi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri la trattazione delle grandi contese”. (Alessandro 1.1-3)

Così per Plutarco, e per la tradizione biografica greco-romana, le “vite” sono scritti che si concentrano sulla persona, mentre gli “atti” e altri scritti storici si concentrano sugli eventi. Una “vita” è scritta per fornire un esempio o un modello, evidenziando il carattere o l’ethos della persona, tanto che, appunto, Plutarco spiega di aver scelto il materiale per costruire la sua biografia a tal fine. Per moltissimo tempo gli studiosi hanno rifiutato l’idea che i vangeli potessero in qualche modo ricadere sotto il genere letterario biografico, ma questo perché si intendeva questo genere letterario come lo intendiamo noi moderni. Ed i vangeli, in effetti, sono privi della caratteristica tipica delle biografie così come le intendiamo noi oggi, cioè la tendenza a cercare di fornire una ricostruzione completa della vita di un personaggio e del contesto in cui questa si svolse. I vangeli, infatti, ci dicono poco dell’infanzia e dell’educazione di Gesù; sono molto disomogenei nella copertura della sua vita, concentrandosi in particolare sul suo ministero pubblico di pochi mesi (o anni) e soprattutto sull’ultimo periodo dello stesso; non ci dicono poi molto del suo sviluppo psicologico e personale.

In tempi recenti, lo studioso britannico R. Burridge ha argomentato in modo convincente l’idea che i vangeli debbano essere considerati come afferenti al genere letterario biografico, nel senso in cui questo però veniva inteso nell’antichità. Costui ha analizzato un gruppo eterogeneo di “vite” antiche di tutti i tipi che vanno dal IV secolo a.C. al III secolo d.C. Nonostante tali racconti costituiscano un genere flessibile, c’è una riconoscibile somiglianza tra gli stessi, sia nella forma che nel contenuto. Dal punto di vista formale o strutturale, sono scritti in una narrazione continua in prosa, tra le 10.000 e le 20.000 parole di lunghezza (quelle che potevano entrare in un singolo rotolo di pergamena). A differenza delle biografie moderne, le vite greco-romane non coprono l’intera vita di una persona in sequenza cronologica e non contengono alcuna analisi psicologica del carattere del soggetto. Possono iniziare con una breve menzione dell’ascendenza dell’eroe, della sua famiglia o della sua città, della sua nascita e riportare un aneddoto occasionale sulla sua educazione; ma di solito la narrazione passa rapidamente al suo ingresso nella vita pubblica in età adulta. Le vite di generali, politici o statisti sono ordinate seguendo una linea di tipo più cronologico, raccontando le loro grandi gesta e virtù; mentre le vite di filosofi, scrittori o pensatori tendono ad essere più aneddotiche, organizzate topicamente intorno a raccolte di insegnamenti al fine di illustrarne le idee. Anche se l’autore spesso dichiara di voler semplicemente fornire informazioni sul suo soggetto, spesso i suoi intenti sono invece apologetici, polemici o didattici. Molte biografie antiche coprono la morte del loro protagonista in modo particolarmente dettagliato, poiché qui egli rivela il suo vero carattere, dà il suo insegnamento definitivo o compie la sua più grande azione. Infine, l’analisi dettagliata della struttura verbale delle biografie antiche rivela un’altra caratteristica generica. Mentre la maggior parte delle narrazioni ha un’ampia varietà di soggetti, è caratteristico delle biografie che l’attenzione rimanga focalizzata su una persona particolare, con un quarto o un terzo dei verbi facenti riferimento al protagonista della vicenda, mentre un altro 15-30 % che appare in detti, discorsi o citazioni dello stesso.
Quando i vangeli vengono confrontati con le biografie antiche, marcate somiglianze di forma e contenuto dimostrano che essi condividono sia le caratteristiche generiche esterne che interne delle stesse, compresa la particolare attenzione al personaggio principale, Gesù, mostrata dall’analisi verbale. Come per altre biografie antiche, le azioni e le parole di Gesù sono di vitale importanza per i ritratti di questi proposti dagli evangelisti.
I protagonisti delle vite greco-romane erano molti e vari, ma erano quasi sempre appartenenti ai livelli superiori della società e leader nel loro campo – re, imperatori, generali, statisti, filosofi, poeti, scrittori e così via. Scrivere una biografia di Gesù di Nazareth significa fare una rivendicazione implicita sull’importanza della sua vita e della sua morte, delle sue attività e dei suoi insegnamenti. I lettori che hanno familiarità con i resoconti di altri maestri o filosofi potrebbero supporre che Gesù sia come loro – ma i vangeli sfidano costantemente il pubblico con la domanda sull’identità di Gesù: “Chi è costui, che persino il vento e il mare gli obbediscono?” (Marco 4,41). Se il genere biografico è concepito per descrivere le grandi azioni e le parole di esseri umani di primo piano, i vangeli ne sovvertono delicatamente lo stile e la struttura, suggerendo che l’unica risposta adeguata al cospetto di Gesù è quella della devozione (Matteo 14,33; Giovanni 20,28).

Questo è particolarmente significativo nel contesto ebraico, data l’assenza di opere biografiche che lo caratterizza. Gesù sembra essere stato l’unico maestro ebreo del I secolo sul quale sono state scritte delle “vite”. Alcuni studiosi hanno cercato di analizzare le ragioni per cui non c’è nulla di simile ai vangeli nelle tradizioni giudaiche. Sebbene il materiale rabbinico sia più aneddotico di quanto lo siano i vangeli e alcune vite antiche, questo contiene comunque abbastanza elementi biografici (attraverso storie di saggi, narrazioni, precedenti e scene di morte) da permettere a un editore di compilare una eventuale “vita di Hillel” o di qualsiasi altro importante maestro. Le argomentazioni di carattere letterario da sole non sono quindi sufficienti a spiegare questa curiosa assenza di biografie rabbiniche. Al fine di giustificarla, Burridge suggerisce che il genere biografico si adattava poco alle esigenze della tradizione rabbinica perché in questo al centro della narrazione viene posta una persona, lì dove invece per il pensiero rabbinico il centro della scena spetta sempre e solo alla Legge. Ne deriva, al contempo, che l’aver utilizzato il genere biografico per gli evangelisti costituisce una vera e propria rivendicazione teologica sulla centralità del Gesù della storia.

In ragione di quanto appena accennato, l’idea che i vangeli rientrino nel genere letterario della biografia antica ci fornice anche un’utile guida per la questione relativa a quanto c’è di storicamente vero in ciò che leggiamo negli stessi relativamente a Gesù. I lettori contemporanei hanno la tendenza a sovrapporre il concetto di verità storica con quello di esatezza storica, per molti, in un certo senso, storicamente veri sono solo quei fatti riportati in modo esatto da una fonte, mentre la presenza di caratteri “mitici” all’interno di un racconto squalifica tutto il contenuto del suddetto come, appunto, non vero. Tuttavia, per gli antichi la verità di un racconto corrispondeva più al significato dei fatti che questo riportava che non all’esattezza con cui lo faceva. Anche il genere storiografico per gli antichi comprendeva una quantità significativa di interpretazioni, con licenza data all’autore di includere discorsi che potevano effettivamente riportare ciò che era stato detto in una determinata circostanza, ma che il più delle volte invece riportavano ciò che un dato personaggio avrebbe detto in una determinata circostanza (si veda, ad esempio, Tucidide, Guerra del Peloponneso 1.21-22). Cornelio Nepote, in riferimento al genere biografico, sosteneva che “narrare la vita di qualcuno” dovesse andare oltre la semplice enumerazione delle sue gesta, che era quanto facevano gli storici, cercando di cogliere ed esprimere le sue virtù personali (Pelopida 1,1); poi c’è la preoccupazione di Plutarco per il carattere come rivelato nelle “piccole cose”, come si evince dalla citazione riportata sopra. Infatti, le vite antiche si collocavano per molti versi in una posizione intermedia tra il genere storiografico e le leggende, il romanzo e l’encomio. Perciò non dobbiamo aspettarci che gli autori dei vangeli rispettino i criteri di esattezza fatti propri dalla storiografia moderna, ma nemmeno dobbiamo per questo ritenere che tutto quello che troviamo scritto in questi testi sia frutto di mera invenzione: era importante per le “vite” che ci fosse una correlazione tra quanto queste narravano e la vicenda reale del loro protagonista.

L’approccio biografico ai vangeli ci permette di concentrarci sul fatto che questi sono narrazioni della vita e della morte di una persona, delle sue azioni e del suo insegnamento. Troppo spesso la ricerca sul Gesù storico si è concentrata prevalentemente sull’insegnamento e sulle parole di Gesù, cercando l’ipsissima vox, i detti veramente “autentici”. Tuttavia, i vangeli non sono solo raccolte di detti di Gesù, come nel caso dell’apocrifo Vangelo di Tommaso o come si suppone che fosse la fonte Q. Centrale in tutte le biografie antiche è che il l’immagine del protagonista è costruita sia attraverso le sue parole che le sue azioni. Così, per trovare il cuore del messaggio di Gesù, dobbiamo considerare sia il suo insegnamento che la sua pratica effettiva. L’insegnamento di Gesù non è un insieme separato e discreto di massime, ma fa parte della sua proclamazione del regno di Dio. Il suo scopo principale è quello di suscitare una risposta da parte dei suoi ascoltatori.
Le biografie antiche tenevano insieme sia le parole che le azioni nel ritrarre il loro protagonista, spesso per scopi esemplari. Così Senofonte descrisse Agesilao come esempio da seguire per diventare persone migliori (Agesilao X.2). Allo stesso modo, Plutarco fornisce al lettore immagini di figure esemplari di cui imitare le virtù ed aborrire i vizi, al fine di migliorare il proprio carattere morale. Allo stesso modo, nei vangeli i lettori sono esortati a seguire l’esempio di Gesù nell’accettare e accogliere gli altri (Marco 1,17; Luca 6,36). Pertanto, come conviene in una narrazione biografica, non è sufficiente delineare i punti principali dell’insegnamento di Gesù; qualsiasi resoconto relativo al Gesù della storia deve anche includere l’invito a seguire il suo esempio.

I vangeli come scritti eterogenei rispetto alla letteratura antica

Come ho appena finito di scrivere, è opinione ormai diffusa, anche in ragione degli ulteriori studi di Licona e Keener, che i vangeli ricadano sotto il genere letterario delle “vite” dell’antichità. Ciononostante, vi sono diversi studiosi, come N. T. Wright, Marcus Borg e Scot McKnight, che si oppongono alla tesi di Burridge riproponendo l’idea (un tempo assai popolare) che in qualche modo i vangeli afferiscano ad un genere letterario proprio, senza correlazioni dirette con quelli in uso nel contesto culturale in cui furono redatti. In questo contesto è centrale l’idea sostenuta da K. L. Schmidt secondo cui i vangeli dovrebbero essere visti come “letteratura popolare” (in opposizione alla “letteratura alta”), in quanto gli evangelisti non scrissero le loro opere come testimoni oculari, ma fecero ricorso a storie ricevute da altri (senza un lavoro di verifica personale). Schmidt presumeva che i vangeli fossero stati messi assieme dai loro autori raccogliendo e cucendo storie su Gesù un po’ come quando per fare un collage attacchiamo su un foglio vari ritagli di giornale. Questa linea interpretativa tratta i vangeli come sorti fondamentalmente in un contesto di predicazione e quindi come raccolte di storie relative all’annuncio della buona novella da parte dei primi cristiani.

Lo studioso britannico C. H. Dodd ha analizzato i discorsi di evangelizzazione presenti in Atti, sostenendo che c’è uno schema abbastanza coerente che li caratterizza. L’argomentazione di questo esegeta si incentra in modo particolare su Atti 10,34-43, in cui viene riportato il discorso di Pietro nella casa del centurione Cornelio a Cesarea, identificando i sei elementi chiave che a suo avviso fornivano il modello della predicazione cristiana primitiva:

1) Giovanni il Battista ha preparato la strada per la venuta di Gesù, v. 37;

2) Questi eventi erano stati promessi nelle Scritture (qui, “i profeti”), v. 43;

3) Il ministero di Gesù è stato caratterizzato dall’unzione da parte di Dio e da opere potenti, vv. 38-39a;

4) Gesù è stato arrestato, processato e crocifisso, v. 39b;

5) Dio lo ha risuscitato dai morti ed è stato visto da testimoni, vv. 40-41;

6) coloro che seguono Gesù hanno ricevuto il comando di annunciare agli altri queste cose (riassumendo così la risposta che il messaggio richiede), v. 42.

Il perno dell’argomentazione di Dodd è l’osservazione che questi sei punti corrispondono alle cinque sezioni principali del Vangelo secondo Marco (con i primi due punti accorpati nella prima sezione), e seguono pressappoco lo stesso ordine:

1) Giovanni il Battista appare in adempimento alle profezie veterotestamentarie (si noti la citazione di Isaia 40 in Marco 1,2 e seguenti), Marco 1,1-15;

2) Il ministero di Gesù viene delineato e descritto, Marco 1,16-8,30;

3) Segue una descrizione estesa del viaggio di Gesù a Gerusalemme, dove viene arrestato, processato e muore sulla croce, Marco 8,31-15,47;

4) L’annuncio della risurrezione di Gesù, Marco 16,6 (la parte finale del Vangelo, in cui vengono descritti gli incontri dei discepoli con Gesù è oggi considerata un’aggiunta più tarda);

5) I discepoli di Gesù devono andare ad annunciare questi eventi, Marco 16,7.

Anche se il quadro di Dodd non si adatta completamente a tutti i punti nel dettaglio, spiega bene il motivo per i racconti delle azioni e degli insegnamenti di Gesù vennero chiamati “vangeli”: questi non erano altro che una versione estesa ed elaborata in forma narrativa del messaggio evangelico che i primi cristiani proclamavano.

In aggiunta a quanto detto, ci sono le considerazioni di R. P. Martin in relazione al versetto di apertura del Vangelo secondo Marco, che funge in qualche modo da “titolo” del medesimo. Marco chiama il suo libro “Inizio del vangelo di Gesù Cristo, il figlio di Dio” (1,1). La parola “inizio” (in greco arché) potrebbe avere qui il senso di “origine” o “fonte”. Se così fosse, il libro di Marco sarebbe stato nell’intenzione del suo autore a tutti gli effetti una spiegazione dell’origine del messaggio evangelico e di quali sono gli eventi fondamentali che questo proclama. Da tale punto di vista i vangeli sarebbero la testimonianza della Chiesa su Gesù piuttosto che una sua biografia, perché la biografia si concentra su una figura passata che viene ricordata, mentre Gesù non viene “ricordato” dai primi cristiani – essi lo sperimentano come vivo e presente con loro tramite lo Spirito.

Mediando tra le posizioni

A conti fatti sembra che, come nota C. Keener, i Vangeli sono sì biografie di Gesù, ma biografie peculiari. Come ha dimostrato in modo molto efficace Burridge, ci sono infatti strette somiglianze tra i quattro vangeli e le “vite” antiche, il che implica che il focus di questi libri è su Gesù. Ma è anche probabile che ci sia qualcosa di nuovo nei vangeli, poiché essi si concentrano su ciò che i primi cristiani credono che Dio abbia fatto in e attraverso Gesù. Dodd e Martin sostengono in modo persuasivo che i vangeli racchiudono l’annuncio di Gesù da parte della Chiesa in forma narrativa – e quindi mostrano da una prospettiva diversa che questi libri sono tutti su Gesù. Dunque, nei Vangeli sinottici e negli Atti, in ciascuno con la sua peculiare enfasi, si possono trovare le voci dei cristiani primitivi che spiegano ciò che ha portato all’esistenza la loro fede.

Quindi, per capire meglio la natura dei vangeli, ci chiederemo cosa sappiamo sulle cause immediate della loro stesura. Secondo la teoria più diffusa, si ritiene che Marco sia il vangelo più antico e che non abbia visto la luce prima degli anni Sessanta del I secolo d.C. e che gli altri tre vangeli siano stati scritti tra gli anni Settanta e gli anni Novanta. Perché ci è voluto così tanto tempo prima che questi testi venissero scritti e quali sono le ragioni che hanno fatto sì che le storie su Gesù prendessero forma scritta? A grandi linee quattro sembrano essere le ragioni maggiormente probabili per cui ciò è avvenuto:

1) La prima ragione sembra essere stata di tipo pratico. I vangeli cominciarono ad essere messi per iscritto nel momento in cui i testimoni oculari della vicenda terrena di Gesù cominciavano a morire. Per esempio, Luca si presenta chiaramente come un membro della “seconda generazione” separando “noi” e “quelli che da principio furono testimoni oculari” (Luca 1,2). C’era l’urgenza di preservare la testimonianza di coloro che erano stati presenti durante ministero di Gesù, al fine di renderla fruibile per le generazioni future. Dare alla medesima una forma scritta era sicuramente il modo migliore di farlo.

2) C’era la necessità di promuovere più efficacemente l’evangelizzazione, cioè comunicare il messaggio del vangelo a coloro che non erano ancora credenti. Nelle lettere di Paolo, che sono gli scritti cristiani più antichi, vengono forniti solo brevi riassunti dell’annuncio cristiano predicato ai non credenti (ad esempio, 1 Tessalonicesi 1,9sgg; 1 Corinzi. 15,1-7), mentre (come sostenuto da Dodd) sembra probabile che i vangeli siano stati concepiti per fornire estese illustrazioni narrative dei contenuti dell’annuncio cristiano. Giovanni sembra proprio dire che questo è il suo scopo (Giovanni 20,31; in contrasto con 1 Giovanni 5,13, che chiarisce che la lettera è destinata a coloro che già credono) e potrebbe essere questo anche lo scopo di Luca, qualora il Teofilo a cui il suo vangelo è dedicato non fosse stato un credente, ma qualcuno ancora semplicemente interessato all’annuncio cristiano (Luca 1,1-4).

3) C’era una ragione di tipo didattico. Era necessario fornire a coloro che avevano fede in Gesù un quadro più completo delle sue opere e del suo insegnamento. Se il Teofilo lucano era già un credente (Luca 1,3sgg) è probabile che fosse questo uno degli scopi di Luca. Allo stesso modo i cinque grandi blocchi in cui Matteo suddivide l’insegnamento di Gesù risultano meravigliosamente appropriati per spiegare lo stile di vita cristiano a una comunità di credenti; il Discorso della Montagna (Matteo 5-7) sembra particolarmente adatto a questo scopo.

4) C’era una la necessità di diffondere il messaggio evangelico anche nei luoghi più lontani. Sappiamo che i primi cristiani ancora verso la metà del II secolo tenevano in grande considerazione la trasmissione orale dell’annuncio evangelico, quindi il testo scritto non fu concepito come un qualcosa destinato a sostituire le tradizioni orali. Tuttavia, permise alle stesse di diffondersi più facilmente, poiché i documenti scritti potevano essere copiati in modo relativamente economico ed erano abbastanza leggeri da poter essere trasportati da un viaggiatore.

Adriano Virgili

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Bibliografia essenziale

R. Burridge, Che cosa sono i vangeli, Brescia, Paideia, 2008

C. A. Evans, Fabricating Jesus, Downers Grove/Nottingham (UK), IVP, 2006

C. H. Dodd, The Apostolic Preaching and its Development, London (UK), Hodder & Stoughton, 1936

C. S. Keener, Christobiography: Memory, History, and the Reliability of the Gospels, Grand Rapids (MN), Eerdmans, 2019

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