Il realismo imprescindibile di Nicolai Hartmann. #stililaicali #lanternadelcercatore

Introduzione

Come l’uomo conosca è – forse – tra i più annosi problemi che la filosofia, nel corso della sua storia, si sia trovata ad affrontare. Difficile poter azzardare ad affermare che esso possa considerarsi, definitivamente, risolto.  
Se, nei secoli passati, con la filosofia antica e medievale, il principale nodo della questione è consistito nella domanda su quali fossero i limiti della conoscenza umana, in un contesto pressoché unanime di dualismo tra un soggetto conoscente un oggetto da conoscere, la filosofia contemporanea, in seguito al sistema kantiano, considera, sostanzialmente, come acquisita, a livello gnoseologico, l’irraggiungibilità dell’in sé delle sostanze, di cui tuttavia continua ad ipotizzare l’esistenza (pur non considerando la metafisica una scienza capace di produrre sapere, come, al contrario, la matematica e la fisica, fondate su intuizioni pure a priori).  Nella prima metà del Novecento la questione è scottante e d’attualità, in filosofia, con la pubblicazione delle Meditazioni cartesiane (1931) di Husserl e della concomitante riflessione della scuola neokantiana di Marburgo: contemporaneamente, persino la vituperata teologia ha modo di interrogarsi al riguardo della conoscenza, con Balthasar («[…] già la conoscenza intracosmica non è altro che un movimento dal soggetto all’oggetto, ovvero dal pensiero al soggetto che regge e che non s’identifica mai con esso, e quindi un oscillare fra poli che non coincidono mai in semplice unità»)[1]. L’interrogativo, tuttavia, sorge da lidi ben più lontani, nel tempo e nello spazio, dalla riflessione contemporanea.

Il problema gnoseologico nella storia della filosofia (Breve excursus)

Prima di affrontare la speculazione di Hartmann, è opportuno gettare uno sguardo sul passato e sui pensatori che lo hanno preceduto.
Nella filosofia antica, due scuole principali si fronteggiano, rispetto alla gnoseologia, intorno a due concezioni fondamentali: da una parte, le idee platoniche, a cui l’anima umana può accedere secondo la forma della reminiscenza, dall’altra la concezione aristotelica dell’intuizione come forma di conoscenza derivata da un primo apporto dei sensi, cui segue l’intervento consapevole dell’intelletto. Nel quarto libro delle Enneadi di Plotino, possiamo trovare alcuni elementi di gnoseologia, che saranno in seguito ripresi da autori medievali: la conoscenza è possibile tramite la sensazione (prima attività dell’anima), successivamente, tramite la reminiscenza, dalla contemplazione delle cose sensibili, l’anima riesce a risalire al modello originario, intellegibile. La patristica, in particolar modo quella greca (I-VII secolo), si riferisce, prevalentemente, al neoplatonismo. Nella filosofia medievale, dilaga la disputa intorno agli “universali”, oggetti di pensiero applicabili a più individui, affrontato, in particolar modo, da Boezio (475-525), che definisce gli universali come sussistenti in forma di astrazione, incorporei, presenti nelle cose corporee ma concepiti separatamente da esse, non aderendo né ai nominalisti (per cui l’universale è puro nome) e di cui è esponente Roscellino di Compiègne (1050 – 1120), né ai realisti (che, invece, ipostatizzano l’universale), come Guglielmo di Champeaux (1070-1121) . Abelardo, poi, specifica che l’universalità non appartiene né alle res  né alle voces, bensì ai sermones, intendendo, in questo modo, la parola dotata di significato, dando vita a quel “realismo moderato” che ottiene, per astrazione, gli universali come concetti. Con Tommaso d’Aquino (1225-1274), abbiamo il grande recupero del corpo, nell’antropologia di stampo aristotelico, da cui prende le mosse, a livello gnoseologico, il conseguente rilievo assunto dall’esperienza sensibile, vista quale primo ed imprescindibile gradino; il sentire del corpo coinvolge anche lo spirito, che produce i phantasmata, da cui l’intelletto possibile, tramite l’astrazione dell’intelletto agente, ricava un significato universale (quidditas). Berkeley (1685-1753), muovendo dalle istanze empiriste di Locke, per cui la conoscenza si fonda sulla “costruzione” di una realtà, a partire dalle percezioni, inferisce che non ogni idea discenda dal nostro spirito, che vi siano altre che dipendono da un altro spirito, che è di Dio. Hume (1711 – 1776) si sofferma sulla differenza tra varie percezioni: quelle più forti prendono il nome di impressioni, mentre idee sono quelle gradualmente meno impresse (non sono universali); nega la validità delle relazioni causali, che ritiene irrazionali e critica la filosofia antica, basata sulla sostanza, che non ritiene dimostrabile come distinta dalle singole percezioni. Il razionalismo di Spinoza (1632-1677) intuisce l’unicità dell’essere, che si manifesta in molti “modi”, conoscibili tramite quattro forme di conoscenza: conoscenza indiretta (quella che dipende dall’esperienza altrui), esperienza sensibile e induzione per enumerazione semplice (tramite la quale deduco che tutti gli uomini muoiono ed io ne faccio parte), conoscenza intellettiva inadeguata (basata sul nesso causa-effetto) e conoscenza intellettiva perfetta (che coglie l’essenza). Il razionalismo di Leibniz (1646-1716), invece, si basa su una concezione meccanicistica del mondo corporeo, che trova applicazione in una gnoseologia innatista, per cui ogni monade, esclusa la dipendenza da Dio, è autonoma nella sua percezione e può accedere a verità “derivative” (dimostrate) e “primitive” (immediatamente evidenti): molte conoscenze sono probabili, per questo è necessaria una logica delle probabilità.

Il rapporto (ineludibile) con l’ontologia

Come evidenzia Vanni Rovighi, «e per realismo si intende l’affermazione che qualcosa esiste, che c’è qualche cosa, questa non è oggetto di problema, ma è la prima evidenza; se invece per realismo si intende una determinata concezione della realtà, il dimostrarla sarà compito della metafisica e delle altre scienze della realtà».[2] Ciò ha comportato che, pur nella consapevolezza della necessaria separazione non solo tra discipline, ma, ulteriormente, all’interno della stessa disciplina, tra gli ambiti che la caratterizzano, la speculazione gnoseologica, si è trovata, fin dai primordi, a dover gestire una “scomoda” interdisciplinarità. La gnoseologia stessa, per definizione, presuppone che possa esistere qualcosa al di fuori di me: in un certo senso, la possibilità di una conoscenza presuppone una necessaria alterità. È inevitabile, a questo punto, però definire i lineamenti di quest’alterità. Se qualcosa esiste, cos’è questo qualcosa? È evidente, però, che un simile interrogativo si inserisce in quelli che caratterizzano l’ambito ontologico, vertendo sulle caratteristiche del – supposto – essere. Ci troviamo, quindi, già nelle prime battute a dover utilizzare una sorta di ponte metafisico, necessario a poter stabilire “cosa” sia conoscibile, giro di boa per poter procedere in definizioni ulteriori che concernano le modalità di conoscenza.

La doppia svolta: Cartesio e Kant

La sospensione dell’assenso, in ambito filosofico, può considerarsi estesa a qualunque proposizione che riguardi tutto il reale, dal momento che tale è l’oggetto della filosofia. Questa sospensione , tuttavia, non significa – necessariamente – negazione del reale o dubbio sulla possibile esistenza del reale, che caratterizza lo scetticismo. È – piuttosto – la metodologia richiesta per affrontare la realtà in modo filosofico.

“Da Cartesio (1596-1650) in qua”[3] il dubbio metodologico (“un dubbio per ricostruire il sapere su fondamenta più salde”[4]), distaccatosi dal dubbio scettico, si è fatto garanzia della scientificità del procedere filosofico che, soprattutto con l’incessante progresso delle discipline scientifiche, ha sentito sempre più la necessità di sistematizzarsi anche a livello metodologico, per potersi attestare in modo fondato come disciplina credibile ed aiuto.

La filosofia di Kant (1724-1804) ha sicuramente costituito un contributo unico e  dal peso rilevante, all’interno della storia della filosofia. Famosa è la critica al valore della metafisica, che trova prima stesura nella Dissertazione del 1770: mancando, in questa,  l’intuizione del sensibile, il metodo deve precedere la scienza, come affronterà più diffusamente  nella Critica della ragion pura. Individuando lo spazio come forma del senso esterno e il tempo come forma del senso interno, tramite i quali possiamo conoscere la cosa come appare (fenomeno), ma non la cosa in sé (che rimane al di là della portata della nostra conoscenza).  La metafisica pretendeva di essere la scienza del noumeno e, dal momento che le categorie e i giudizi sintetici a priori si riferiscono al mondo dei fenomeni, la metafisica è esclusa dalla possibilità di portare conoscenza, come le altre scienze, così come egli attesta nella Logica trascendentale.

Contestualizzazione storico-filosofica della figura di Hartmann

La scuola di Marburgo e i neokantiani

Nicolai Hartmann (1882 – 1950), filosofo lettone di lingua tedesca, dopo aver studiato medicina, cresce e si forma filosoficamente presso la scuola di Marburgo, dove l’indirizzo fondamentalmente vigente era il neokantismo, di autori di spicco come Hermann Cohen (1842-1918), Paul Natorp (1854-1924) e Ernst Cassirer (1874-1945). Cohen  si schiera anzitutto a difesa dell’apriori, ma identifica il necessario “ritorno a Kant” con l’abbandono della metafisica, mentre si scosta da Kant nella negazione della distinzione tra sensibilità ed intelletto e nella negazione della cosa in sé: spazio e tempo sono assimilate a categorie e l’essere è essere del pensiero; anche la realtà è una categoria, di cui vede un esempio nel calcolo infinitesimale. Natorp corregge la posizione di Cohen, specificando che il pensiero a cui allude Cohen non è l’attività del pensiero, bensì il pensato, visto come un processo in fieri, per ricondurre, sulla scorta dei problemi matematico-scientifico un’incognita X ad un qualcosa di noto (A), così che l’oggetto assume, a questo punto, più distintamente, i contorni del proiectum (qualcosa che il pensiero getta fuori, nella realtà). Cassirer amplia l’oggetto della filosofia, ma rimanendo nella convinzione che lo studio della conoscenza equivalga allo studio del reale, che si esaurisce nella manifestazione di sé. Non solo la conoscenza scientifica, ma anche la conoscenza comune concorre al processo di conoscenza, tramite l’elemento universale e necessario della relazione. Anche per lui, la realtà in sé non solo non è conoscibile, ma non esiste, per cui «non conosciamo gli oggetti, ma piuttosto conosciamo oggettivamente, in quanto nello scorrere uniforme dei contenuti di esperienza creiamo determinate delimitazioni»[5].

L’allontanamento

Nel 1911,  in una lettera Heimsoeth[6], scopriamo i motivi dell’allontanamento dalla scuola di Marburgo: l’intenzione di dirigere i propri studi verso il problema della finitezza del sapere rispetto all’infinitezza del problema, che l’idealismo logico marburghese si precludeva d’affrontare, proprio per la sua chiusura alla trascendenza.

La relazione del 1931 alla riunione plenaria della Kant-Gesellschaft

Già prima di questa relazione, gli studi del filosofo lettone iniziano a convergere nella direzione di una presa di distanza dalla scuola di Marburgo, focalizzandosi, in particolare, nella distinzione di una conoscenza come cogliere (Erfassen), che presuppone la presenza imprescindibile di qualcosa (Etwas), da una conoscenza che si configura come un creare (Erzeugen). Le prime direttrici, in questa direzione, si scorgono già in Fondamenti di una metafisica della conoscenza (Grundzüge einer Metaphysik der Erkenntnis) datato 10 anni prima (1921).

Il primo capitolo si concentra sulla focalizzazione dell’obiettivo della relazione, cioè fondare ontologicamente l’ente, come qualcosa che sussiste, indipendentemente dal fatto che sia oggetto di conoscenza («per un ente è evidentemente del tutto indifferente se e in che misura diventerà oggetto di conoscenza»[7]). Nel secondo capitolo, l’autore prende le distanze sia dal neokantismo che dal realismo ingenuo: se «tutta la datità ha la forma dell’ “apparenza”», diventa necessario poter stabilire quando un fenomeno sia reale e quando apparente, ma, al contempo non si può ridurre la conoscenza ad un fatto isolato dalla «sfera della vita umana» (oggetti, fatti, situazioni, persone). Nel terzo capitolo, introduce altri atti trascendenti, oltre a quello conoscitivo, cioè quelli emozionali recettivi, legati al presente (essere colpito). Nel quarto capitolo, si aggiungono gli atti emozionali recettivi legati al futuro (come l’aspettativa) e quelli attivi (teleologici, come il desiderare). Nel quinto capitolo, conclusivo della sua relazione, centrale è l’analisi degli atti emozionali, visti come elemento-cardine per dare ponderazione alla datità del reale, non perché più profondi, ma perché più fondante nel mostrare la “trascendenza fenomenica”. La prosecuzione lineare (intentio recta) dell’atto conoscitivo ci mostra la trascendenza dell’ente, che, in quanto elemento primordiale dell’ontologia, torna a riprendersi il proprio ruolo di philosophia prima, quale fondamento della gnoseologia.

“Gibt es etwas”“Qualcosa è dato”

Quest’affermazione, ripresa dall’interrogativo dello “sciamano” Heidegger, potrebbe essere considerato anello di congiunzione tra il neokantismo e la (neo)scolastica, in Hartmann.

In particolare, l’esponente in cui si possono trovare le maggiori affinità è probabilmente Giuseppe Zamboni (1875-1950), che nel suo Sistema di gnoseologia e di morale (1930) vede la conoscenza come manifestazione di una realtà, in senso fenomenico e fa riferimento ad atti affettivi e volitivi come rivelatori dell’io come ente. In seconda battuta, abbiamo una rilevazione ricorrente in Joseph de Tonquédec (1868 -1962), per il quale, molte obiezioni al valore della conoscenza nascano dalla pretesa che questa posso essere esaustiva: in ciò, possiamo trovare un’eco della consapevolezza hartmanniana di una realtà che non si risolve nell’oggetto del conoscere, ma che, anzi, necessita precederlo.

Del resto, «ciò che Hartmann rimprovera alle vecchie metafisiche non è l’aver ricercato l’unità del mondo, ma il fatto di aver presupposto questa unità, facendola dipendere da un “principio primo”, da un “fondamento ultimo” o da un “Assoluto”»[8]. Pur considerando, infatti, che il realismo ingenuo, in quanto tale, sia da ritenersi una posizione prefilosofica, Hartmann si rende conto che non si possa prescindere da esso, nel tentativo di recupero di una metafisica un po’ troppo frettolosamente “seppellita” dai suoi contemporanei. Il suo tentativo è – quindi – quello di recuperare l’ontologia, per una fondazione filosofica dell’ente, di cui non si accontenta di stabilire che sia oggetto da conoscere, perché, proprio tramite la tappa pre-filosofica del realismo naturale, rimane la prima evidenza di qualcosa che trascende l’essere (solo) oggetto di conoscenza[9]. Non c’è nulla che esista solo per farsi conoscere, né che si rende sussistente solo in vista  della conoscenza. Se c’è un fenomeno, dobbiamo postulare che sia fenomeno di qualcosa; accordando che quel qualcosa non sia conoscibile, deve però esistere, quale conditio sine qua non si avveri l’esistenza del fenomeno da comprendere. Come meglio specificherà lo stesso Hartmann:

Nel rapporto di conoscenza, l’essere in sé è essenziale all’oggetto, ma l’essere in sé è indifferente, rispetto all’essere oggetto; lo permette, ma non lo esige. Da questo rapporto risulta che l’indipendenza dell’oggetto di conoscenza dal soggetto – il suo essere in sé – non viene affatto intaccata dalla dipendenza dell’essere oggetto dal soggetto. Qui c’è la soluzione dell’apparente antinomia. Dipendenza o indipendenza non si contraddicono nell’oggetto di conoscenza perché la prima concerne solo l’essere oggetto, mentre la seconda riguarda l’essere in sé di esso, e l’essere oggetto è qualcosa di esterno per l’essere in sé[10]

Alcune obiezioni

La relazione riceve diverse critiche, sia dal fronte del realismo (come Geiger) che da quello idealista (come Dessoir, Polak ed Heimsoeth). L’obiezione di Geiger riguarda l’inutilità di una confutazione dello scetticismo, accompagnata dalla perplessità del fatto che utilizzi invece un metodo dimostrativo per gli atti conoscitivi: ad Hartmann pare capzioso il primo appunto, mentre difende la capacità fondativa degli atti emozionali, rispetto agli atti conoscitivi (i secondi sono più ricchi, ma meno adeguati ad attestare la realtà). Dessoir effettua il rilievo più forte rispetto al passivismo degli atti ricettivi emotivi, che il relatore ritiene un’esasperazione perché si tratta solo di una parte della teoria della conoscenza, che non ha approfondito, poiché non al centro della sua trattazione;  si domanda inoltre se l’esperienza religiosa sia sufficiente  attestare l’esistenza di Dio: l’autore specifica di non aver preso in considerazione questo particolare tipo d’esperienza (il “fenomeno religioso”) perché lo riteneva escluso dalla «realtà delle cose e del mondo umano»[11].

Conclusione. Ritorno al punto di partenza o nuovo inizio?

«Gibt es etwas»: qualcosa è dato, a qualcosa devo – necessariamente – fare affidamento. È impossibile cominciare a camminare senza avere un cammino dinanzi. È impossibile cominciare una speculazione senza avere almeno un punto – saldo – da cui partire. La speculazione può farsi astrazione anche ai massimi livelli, ma non può – del tutto – prescindere dal vissuto («Erlebnis»); o, per meglio dire, non può evitare di prendere in considerazione che un vissuto, per così dire, condiviso, c’è e ci arriva, in modo inderogabile, come un dato. Un dato può essere analizzato e  – in un secondo momento – scartato; ma, se vogliamo essere onesti, non possiamo ignorarlo, oppure etichettarlo come irrilevante, senza prima averlo analizzato.                                              

Basta questo a fare di Hartmann un realista, anche se “critico”? In un certo senso, la collocazione di Hartmann non è una vera e propria collocazione, nella disputa tra realismo: se, da un lato, recupera il realismo, non gli dà statuto filosofico; parimenti, pur contestando alcuni aspetti dell’idealismo, soprattutto quello contemporaneo, non rinuncia alle conquiste kantiane ed alle sue potenzialità, ponendosi l’obiettivo di restaurare l’ente, senza però discutere, in alcun modo, quanto attestato rispetto al fenomeno.

In conclusione, nonostante i limiti o la fragilità di alcuni suoi assunti ed una posizione che pare coraggiosa per il suo tempo, ma non abbastanza per assumersi la responsabilità di una maggiore radicalità, in questo, più di tutto, sta il merito di Hartmann, evidenziato, per altro, da Konrad Huber: avere riportato la filosofia ad attingere dal mondo della vita (LebensWelt).

Maddalena Negri


[1] HANS URS VON BALTHASAR, Liturgia cosmica, (I edizione: 1941), p.78

[2] S. Vanni Rovighi, Gnoseologia. Storia della filosofia della conoscenza, p. 362

[3]S. VANNI ROVIGHI, Gnoseologia. Storia della filosofia della conoscenza, p. 348

[4]S. VANNI ROVIGHI, idem, p. 111

[5] E. CASSIRER, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Berlino, 1910, p. 43

[6] G.D’ANNA, Realismi e ontologia, in Hermeneutica, Morcelliana, 2014, p.214

[7] N.HARTMANN, Ontologia e realtà, Morcelliana, 2021, p. 71

[8] F.SIRCHIA, op. cit., p. 103

[9] Come opportunamente esplicita, nella sua opera successiva: «Il realismo naturale non è una teoria filosofica, appartiene al fenomeno della conoscenza ed è sempre indicabile in esso. Tale realismo si identifica con la convinzione, da cui siamo dominati per tutta la vita, che il complesso delle cose, delle persone, degli avvenimenti e dei rapporti – in breve, del mondo in cui viviamo e che rendiamo nostro oggetto nel conoscere – non è prodotto solo dal nostro conoscere, ma sussiste indipendentemente da noi. Se questa convinzione ci abbandonasse anche un solo istante nella vita, non la prenderemmo più sul serio» (N. HARTMANN, La fondazione dell’ontologia, a c. di F. Barone, 1963, p. 134)

[10] N. HARTMANN, Zur Grundlegung der Ontologie, Westkulturverlag A. Hain, Meisenheim am Glan, 1949, p. 259 in F.SIRCHIA,  La fondazione dualistica della dottrina della conoscenza e dell’ontologia di Hartmann  (Contributi dell’Istituto di Filosofia, volume II, Vita & Pensiero, 1972), pp. 73-74

[11]  N.HARTMANN, Ontologia e realtà, Morcelliana, 2021, p. 217

Fonti immagini:

gettyimages-541050579-2048×2048

https://igp.uni-wuppertal.de/fileadmin/igp/nicolaiHartmann_1000x400.jpg

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