“Vieni, seguimi, lontano da tuo padre e da tua madre, dai fratelli e dalle
sorelle, dalla tua casa, dal focolare, dalla città, dalla patria. Seguimi nel
deserto, fino ai quaranta giorni di digiuno, e fino alla tentazione del Demonio;
seguimi quando salgo a Gerusalemme, seguimi fino alla colonna del supplizio,
alla flagellazione, alla corona di spine, fino al calvario, alla croce. Seguimi, non
come Pietro, ma come Giovanni; tienti, come Maria, ai piedi della croce e
guarda il mio sangue scorrer su te in gocce ardenti. Seguimi, come mi hanno
seguito i santi martiri, come sant’Ansano, fino alla caldaia di pece bollente,
come san Pietro martire fino alla testimonianza del sangue ! Seguimi, come
Maddalena, nelle caverne di rocce, e come sant’Antonio nel deserto!”
Questa visione che ebbe Santa Caterina, e che viene narrata da fra’ Tommaso Caffarini nella Legenda minor rappresenta l’inizio del percorso cateriniano sulle orme dei santi eremiti. Sicuramente Sant’Antonio Abate, precursore dei monaci e degli eremiti nel medioevo costituì un mirabile esempio di santità, cui molti santi medievali – chi più chi meno – sono debitori.
Ascesi, ricerca della perfezione, meditazione continua su Cristo, senza distrazioni, senza interruzioni.
Similmente nei miei paesi della Vald’elsa, sono infatti residente a Certaldo, nel tardo medioevo vi sono stati molti esempi di “cellane”: donne che vivevano in cellette anguste, murate vive, e per decenni si dedicavano alla preghiera in solitudine.

Il mondo del tardo medioevo era certamente un mondo violento, per certi versi inospitale, ma molto rispettoso delle scelte spirituali, per cui le donne che sceglievano di isolarsi in una sorta di fortezza, simile a quelle che venivano costruite per difendere le città in quegli anni, poterono godere se non del supporto, certo del rispetto.
Nella valle dell’Elsa, vicino a Siena vi sono state appunto due cellane la cui vita da recluse era già conosciuta già nel XIII secolo: Santa Verdiana da Castelfiorentino e Beata Giulia da Certaldo, entrambe – una dopo un pellegrinaggio a Santiago de Compostela, l’altra dopo una visita all’antica Basilica di Santo Spirito in Firenze decisero di chiudersi in celle piccolissime,
davvero poco più grandi del loro corpo, e di rimanervi per anni, offrendo la propria vita al Signore.
Santa Verdiana, morta nel 1242 permase reclusa nella sua cella per 34 anni, Beata Giulia da Certaldo vi rimase invece 28 anni.
E’ certo che Santa Caterina voleva rispondere alla sua vocazione seguendo questo modello, il Beato Raimondo da Capua, suo confessore, nella Legenda Maior – che è la principale fonte biografica sulla vita della santa ci descrive che:
“Quand’era piccina, desiderava ardentemente di ritirarsi in un eremo, ma non
ne aveva mai trovato la via. Non era volontà del cielo che ella si rinchiudesse in
un eremitaggio, e veniva lasciata su questo nella sua illusione; quindi non
poteva avere intorno a ciò, se non la cognizione suggeritale dall’inesperienza di
una bambina. Così avvenne, che combattendo il desiderio con la pochezza degli
anni, il desiderio prevalse, ma senza vittoria.
Non potendo più contenere quel desiderio, pensò una mattina di andare in
cerca di un eremo. Con previdenza infantile prese un pane e se ne andò sola
verso la casa della sorella maritata, che abitava vicino alla porta di
Sant’Ansano. Oltrepassata la porta, cosa che non aveva mai fatto, prese giù per
una strada scoscesa, e non vedendo più case pensava già di essere arrivata
sull’orlo del deserto. Andando ancora avanti, trovò finalmente una grotta, che
le piacque e v’entrò tutta allegra, convinta d’aver trovato il romitorio dei suoi
sogni.
Iddio, che già lei aveva veduto da lontano sorridere e benedirla, il quale accetta
i buoni e santi desideri, quantunque non avesse disposto che la sua sposa
menasse quel genere di vita, pure non lasciò senza premio questo suo gesto,
Così, appena si fu messa fervidamente a pregare, a poco a poco fu sollevata in
alto, tanto quanto lo permise l’altezza della grotta, a rimase a quel modo fino
all’ora di nona.
Caterina pensava che ciò avvenisse per opera del demonio, quasi egli volesse
impedirle coi suoi tranelli di pregare, e volesse togliergli il desiderio dell’eremo,
si mise allora ad invocare il Signore con più fervore e costanza.
Soltanto verso l’ora in cui il Figlio di Dio crocifisso portò a compimento l’opera
della nostra salute ella, com’era salita, poté rimettere i piedi a terra e capire,
per ispirazione divina, che non era ancora il tempo d’affliggere il suo corpicciolo
pel Signore, e di lasciare così la casa paterna, e col medesimo spirito che si era
mossa, se ne tornò indietro.”

Dunque Santa Caterina, dopo questo episodio comprese come il Signore la chiamasse a permanere in una “cella” ma che non contenesse il suo corpo, bensì il suo “intelletto”.
Una cella quindi che non vincolasse negli anni il suo corpo a rimanere in un determinato luogo, ma una cella interna all’intelletto dell’individuo, dove l’anima possa isolarsi dalle preoccupazioni, dalle istanze mondane e dedicarsi
esclusivamente all’introspezione, in un movimento che in Caterina procede – dall’esterno verso l’interno di sé, mettendosi in ascolto di Dio.
E’ infatti Caterina stessa a descriverci questo percorso nel proemio del Dialogo della divina Provvidenza :
“Levandosi una anima ansietata di grandissimo desiderio verso l’onore di Dio e
la salute de l’anime; exercitandosi per alcuno spazio di tempo nella virtú,
abituata e abitata nella cella del cognoscimento di sé per meglio cognoscere la
bontá di Dio in sé; perché al cognoscimento séguita l’amore, amando cerca di
seguitare e vestirsi della veritá.” (Dialogo I, 1)
In questo Santa Caterina da Siena è davvero una grande innovatrice: se nei percorsi delle altre mistiche toscane tardomedievali l’isolamento eremitico è il termine, in Santa Caterina “l’abitare la cella” non è che un momento
propedeutico alla contemplazione in cui l’intelletto si libera dal carico di preoccupazioni del mondo, contempla Dio, riceve da questo la carità ed in un movimento estrospettivo torna verso gli altri arricchito, rivestito di Verità ed in
slancio di carità, per la salvezza delle anime. “La carità infatti, da vita a tutte le virtù…perché nessuna virtù si può avere
senza attingere alla carità” (Dialogo I, 7) La Carità nel Dialogo della divina Provvidenza è la “madre di tutte le virtù”, e
“nessuna virtù nasce se non dalla carità” (Dialogo VII, 128) “che si manifesta tramite un grande desiderio della salvezza delle anime”.
Dunque in Santa Caterina la cella del “conoscimento di sé” non è che un preludio necessario alla contemplazione, il vero obbediente infatti : “Della cella si fa uno cielo, dilettandosi di parlare e conversare in me, sommo e etterno
Padre”. (Dialogo IX, 159)
In questa devota conversazione l’anima alleggerita può contemplare la Verità ed orientarla verso il prossimo: dunque il movimento dell’anima in Santa Caterina da Siena non termina con la contemplazione – bensì con la carità che
non può non diventare predicazione, con un percorso tipicamente domenicano.
L’ascetismo invece, così come le opere di “mortificazione” in sé stesse si devono “praticare con discrezione, amando le virtù più di esse, le penitenze si devono praticare come mezzo per crescere nelle virtù….mettendo invece il fondamento della propria vita spirituale nelle mortificazioni iniziate, l’uomo non arriverebbe alla perfezione” (Dialogo II, 9) in questo Caterina manifesta una sensibilità originale soprattutto se la si raffronta a quella del panorama della religiosità femminile tardomedievale in Toscana, dove gli esempi di “cellane” in cui la mortificazione, e la reclusione rappresentavano certamente
gli aspetti più visibili, anche se forse non i più consistenti, della loro vocazione. Per Caterina le virtù, il peccato, il bene o il male, “si esercitano per mezzo del prossimo” (Dialogo II, 8) in quanto Dio – essere perfetto – non può essere né
migliorato né menomato dagli atti umani: chi fa il male lo fa innanzitutto a sé stesso “e al prossimo non a Dio, perché a Dio non può fare del male se non in quanto Dio reputa fatto a sé stesso il male fatto al prossimo” (Dialogo II,6)
Inoltre, giungere alla perfetta conoscenza di sé stessi, porta alla contrizione ovvero al “pentimento per i peccati commessi” ed “all’umiliazione vedendo che il nostro essere e quello degli altri esseri ragionevoli non proviene da noi, ma da
Dio che ci ha amati prima che esistessimo” (Dialogo II, 4).

A ben vedere però le considerazioni cui giunse Santa Caterina sono anche ben attestate nella Sacra Scrittura: che la contemplazione segua il ritiro e l’introspezione – e preceda la carità e dunque la predicazione fruttuosa è
un’indicazione che si trova nel Nuovo Testamento. San Paolo nella Lettera ai Galati ci spiega come, pochi giorni dopo la sua
prodigiosa conversione, si astenne dalla predicazione del Vangelo ritirandosi invece per ben tre anni in “Arabia” (una regione che corrisponde all’incirca all’odierna Giordania) presumibilmente dedicandosi alla meditazione ed alla
contemplazione, per tornare poi alla predicazione del Vangelo, facendo conoscere il Cristo praticamente a tutto il mondo.
C’è inoltre un’altra singolare corrispondenza tra l’individuazione della presenza del Paraclito nel Vangelo secondo Giovanni e il Dio che raggiunge l’anima nella cella del conoscimento di sé in Santa Caterina, che nel nel Dialogo parte IV le
dice : “alla verità si giunge attraverso la conoscenza di sé, però una conoscenza di sé unita e amalgamata di me dentro di te”
Infatti lo Spirito Santo : “è lo Spirito di verità, che dimorerà presso di voi, e sarà dentro di voi, e sarà con voi per sempre”(Gv 14) : il Paraclìto è presenza trinitaria che “rimane” dentro ciascun battezzato – “rimane” è infatti un termine caro sia all’evangelista Giovanni sia a Santa Caterina. Ma non soltanto: come non notare la sincronia tra l’anima desiderosa di Dio e l’azione dello Spirito Santo effuso per l’amore di Dio per l’uomo e nell’uomo ? L’anima infatti in Caterina “rimane nella cella del conoscimento di sé” così come Giovanni dice che lo Spirito Santo “rimane in noi, dentro di noi”, non penso che abbiano descritto cose molto diverse: entrambi descrivono l’incontro tra Dio e l’individuo nella propria interiorità.
Il conoscimento di sé però in Santa Caterina non va equivocato con un procedimento di ricerca della verità e di senso nel profondo di noi stessi – l’individuo non è depositario della verità – così come non possono esistere verità diverse per individui diversi: similmente il movimento introspettivo cateriniano non va confuso con una sorta di purificazione in sé efficace, sufficiente cioè a farci pervenire alla Verità.
Tutto questo infatti se fosse privato dell’ascolto del Signore non sarebbe che un annichilimento fine a sé stesso, il “rimanere nella cella” quindi in Caterina non è un chiudersi, bensì un aprirsi all’ascolto della voce di Dio. La cella dunque è quel “terreno buono” dove il seminatore – Dio – ha gettato il seme (cioè la Parola) – il cui frutto è la Carità verso il prossimo.
Così come l’otre nuovo ben contiene il vino nuovo – anche l’intelletto nella “cella del conoscimento di sé” può farsi fecondare dalla Parola di Dio, farla fermentare e scoprirne il trasformarsi in carità.
Gabriele Ciampalini
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