Nessuno si aspetta che l’Inquisizione Spagnola riceva complimenti dagli uomini del Terzo Millennio a motivo della singolare benevolenza con cui trattò le donne accusate di stregoneria; eppure, è esattamente questo il trattamento che la comunità accademica internazionale sta riservando ad Alonso de Salazar y Frías (+ 1636), cui Gustav Henningen ha dedicato uno studio dal titolo eloquente di L’avvocato delle streghe: un elogio non immotivato, alla prova dei fatti. Quella che state per leggere è la strana storia di Zugarramurdi, un paesello di trecentonovanta abitanti, duecento ottantadue dei quali furono accusati (o si accurarono spontaneamente!) di aver praticato la stregoneria; e, soprattutto, è la storia dei tre avveduti inquisitori che impedirono alla psicosi di trasformarsi in strage.
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Zugarrarmurdi è un minuscolo villaggio arroccato sui Pirenei, nella regione della Navarra, a pochissimi chilometri dalla frontiera con la Francia. E infatti, quando mancavano pochi giorni al Natale del 1608, il paesello fu scosso da una notizia inaspettata: Maria de Ximildegui, che quattro anni prima aveva lasciato il villaggio per seguire i suoi genitori che erano andati a lavorare in Francia, aveva deciso di far ritorno in patria. Timida adolescente quando aveva fatto i suoi bagagli, Maria nel frattempo era diventata una donna ormai sbocciata all’età adulta: e ci volle ben poco, ai compaesani, per rendersi conto che il suo soggiorno in terra di Francia aveva fatto maturare la ragazza in più di un modo.
Con ammirevole candore, come se fosse la cosa più normale del mondo, Maria confessò di aver praticato la magia nera, mentre si trovava all’estero. A quanto disse, s’era trovata invischiata in un brutto giro di stregoneria adolescenziale nel quale l’aveva trascinata una sua coetanea, una vicina di casa con la quale aveva (sciaguratamente!) stretto amicizia. Naturalmente, quando s’era avvicinata a lei, Maria non aveva idea di star familiarizzando con una strega; eppure, quando la sua amica l’aveva invitata a un sabba, lei non aveva avuto la forza per sottrarsi alla sottile fascinazione che quell’atmosfera incantata aveva esercitato su di lei. E così, era iniziata quella lenta spirale verso il male che l’aveva spinta a diventare a sua volta una strega; ma poicché Iddio non cessa mai di rincorrere le pecorelle che si stanno smarrendo, maturò gradualmente in lei il desiderio sempre più grande di allontanarsi da quella malefica congrega. E così, infatti, Maria fece un giorno: dicendo addio alle sue compagne di malefatte, alleggerendosi l’anima con una confessione sacramentale grazie alla quale regolarizzare la sua posizione a Dio e tornando poi nel suo paesello natio.
O, quantomeno: fu questa la storia che, con toni accorati, Maria raccontò ai suoi compaesani e al perplesso parroco del villaggio. Quando qualcuno – forse poco entusiasta al pensiero di ritrovarsi con una strega, ancorché pentita, come vicina di casa – la interrogò sulle motivazioni che l’avevano spinta a tornare a Zugarramurdi, la ragazza risposte con un certo pragmatismo. Innanzi tutto, correva voce che, oltreconfine, l’energico inquisitore francese Pierre de Lancre stesse per avviare una caccia alle streghe su larga scala (cosa che effettivamente accadde di lì a poco), e Maria aveva paura di essere coinvolta e di finire al rogo. Secondariamente, aveva tutta l’intenzione di togliersi qualche sassolino dalle scarpe: nel corso della sua pratica stregonesca, Maria aveva scoperto che anche a Zugarramurdi esisteva una cosca di perfide megere. E, non avendo più nulla da perdere, Maria era determinata a fare i nomi.
E li fece per davvero, cominciando con una sua coetanea che un tempo era stata sua compagna di giochi (vien da chiedersi se, all’epoca, le due andassero d’accordo). E poi allargò il raggio, cominciando a denunciare uomini e donne, giovani e vecchi: a onor del vero, le carte processuali lasciano intendere con tutta chiarezza che, almeno in un primo momento, il parroco di Zugarramurdi si approcciò con grande scetticismo a quelle accuse di stregoneria su larga scala. Ma poi successe qualcosa di francamente imprevisto: gli individui che erano stati accusati di stregoneria cominciarono a confessare. E non solo: si autodenunciarono anche delle donne che non erano nemmeno state accusate ma che (essendo parenti o amiche strette delle streghe ree confesse), ragionevolmente “non potevano non sapere”.
A che si deve questa follia? Quando mai s’è visto un paesello nel quale, durante una caccia alle streghe, le donne fanno a gara per autodenunciarsi?
Beh: come vedremo, non è da escludere che meccanismi psicologici profondi fossero entrati in gioco dietro questa fretta di consegnarsi alle autorità; e tuttavia, è pur vero che il singolare comportamento fu in larga parte motivato da osservazioni molto razionali, all’insegna del pragmatismo. Contrariamente a quanto accadeva in altre aree d’Europa (per esempio, le isole britanniche o la spietatissima Germania), la Spagna riservava un trattamento relativamente mite a quelle “streghe” che, dopo essersi pentite, si consegnavano spontaneamente alle forze dell’ordine confessando le loro colpe e collaborando con le autorità giudiziarie. Nella maggior parte dei casi, le streghe ree confesse (e, più in generale, tutti gli eretici che dichiaravano di voler tornare sulla retta via) andavano incontro a un unico processo di fronte alle autorità ecclesiastiche (senza dunque che fossero messi in mezzo i tribunali civili, come invece succedeva altrove) e avevano buone chance di cavarsela con pene esclusivamente spirituali: penitenze, pellegrinaggi; quelle cose lì.
Sia chiaro: con questa affermazione, non si vuole passar il messaggio che la Spagna fosse una landa illuminata nella quale era impossibile che donne innocenti venissero mandate al rogo. Venivano condannati a morte gli eretici che si erano resi colpevoli di atti ritenuti particolarmente odiosi (quasi sempre coincidenti con azioni di propaganda, che avevano trascinato anche altri nell’errore) e tutte quelle streghe che erano scoperte relapse: cioè, ritornate a praticare la magia dopo una prima e mendace richiesta di perdono. Tutto considerato, bastava avere la sfortuna di essere denunciati per due volte consecutive (magari perché i vicini di casa erano dei paranoici superstiziosi che davvero si erano convinti che tu fossi una jettatrice) per ritrovarsi in situazioni decisamente poco piacevoli: ma, fortunatamente, non era questo il caso delle donne di Zugarramurdi; che, cullandosi nella rassicurante certezza di una fedina penale immacolata, ritennero che il modo migliore per togliersi d’impiccio dopo esser state coinvolte in quella brutta storia fosse confessare, professare pentimento, richiedere l’assoluzione… e poi sperare in bene. Decisione non priva d’un pizzico di follia, che avrebbe anche potuto avere gravi conseguenze se quelle donne si fossero trovati davanti a giudici fanatici e creduloni.
Ma, fortunatamente, l’Inquisizione Spagnola non era poi così retrograda come molti tendono a pensare: ed è questo il momento di far entrare in scena i tre veri eroi di questa strana storia.
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Il primo e primo in grado era Alonso Becerra (c. 1560 – 1622), che prestava servizio per l’Inquisizione ormai da parecchio tempo.
Suo braccio destro era Juan de Valle Alvarado (c. 1553 – 1616), che negli uffici dell’Inquisizione aveva svolto per anni compiti da segretario prima d’essere promosso a ruoli attivi.
Ultimo ma non per ultimo, v’era giustappunto Alonso de Salazar Frías (c. 1564 – 1636): appena nominato inquisitore, aveva scarsa esperienza sul campo ma godeva di una preparazione eccellente e di un senso pratico non sempre scontato in chi passa la vita tra studi astratti e libri sacri.
A richiedere a gran voce la presenza dell’Inquisizione furono, a quanto pare, i monaci premostratensi che risiedevano nell’abbazia di Urdax, a pochi chilometri di distanza dal paese, allarmati per le notizie di quelle strane ciance di stregonerie che arrivavano dalla vicina Zugarramurdi, e che il parroco del luogo non sembrava più in grado di gestire da solo. Poco dopo il Capodanno (erano passati una ventina di giorni dal momento in cui la confessione di Maria aveva fatto scoppiare il panico), il tribunale dell’Inquisizione inviò sul posto, e in incognito, un notaio a cui fu dato il compito di interrogare otto testimoni che asserivano di avere sospetti sulle donne del villaggio. Il notaio tornò indietro con un plico di denunce che facevano accapponar la pelle per l’orrore: a detta di questi onesti cittadini, Zugarramurdi era piagata da una inspiegabile mattanza di neonati che nascevano cadavere, o morivano pochi giorni dopo la nascita, con decessi decisamente superiori a quelli che normalmente si registravano altrove. Si mormorava tra le vie del borgo che a uccidere i bimbetti fossero delle scellerate che sembravano un mostruoso ibrido tra la strega e il vampiro, giacché succhiavano il sangue delle vittime fino a lasciarle senza forza e senza vita. E se, inizialmente, gli sgomenti inquisitori inorridirono per la gravità delle accuse e per i toni disperati degli interrogati, fu proprio il tenore delle loro agghiaccianti testimonianze a far sorgere in loro le prime perplessità.
Diciamo che una cosca di streghe vampiro che dissangua e uccide tutti i neonati della zona non è esattamente quel tipo di cosa che può passare inosservata senza lasciar traccia nelle cronache. Decidendo di ricorrere agli archivi dell’Inquisizione per capire se, in passato, i loro colleghi avessero mai avuto a che fare con fenomeni simili, i tre sacerdoti scoprirono che, in effetti, denunce di simile tenore si erano già levate, nella zona di Zugarramurdi, una novantina di anni prima. Nel 1526, alcuni villaggi della zona avevano raccontato le stesse identiche storie: sembrerebbe un’aggravante, se non fosse che gli inquisitori dell’epoca avevano chiuso il caso con un “niente di fatto”, mettendo per iscritto le ragioni che li avevano portati a dubitare. Interrogando le accusate, avevano avuto la forte impressione che le donne stessero confessando cose che avevano solamente sognato, o forse immaginato in uno stato allucinatorio: e anzi, suggerivano ai posteri di procedere con molta cautela qualora si fossero trovati a dover gestire altri casi dello stesso genere.
I posteri – cioè i tre inquisitori in carica nel 1609 – non trascurarono il consiglio. E anzi: preparandosi a interrogare tutte quelle donne che s’affrettavano a dichiarare colpevolezza, compilarono un questionario in cui molte delle domande erano espressamente finalizzate a capire se le donne avessero realmente vissuto (e non solo immaginato) le malefatte di cui si ritenevano colpevoli. Ne citiamo alcune: «durante il sabba, oppure sulla strada dell’andata e del ritorno, hai udito il rumore dei campanili e delle torri campanarie dei villaggi vicini; oppure i versi dei galli e dei cani delle fattorie?». Oppure: «all’infuori del sabba, nella vita di ogni giorno, t’è mai capitato di parlare con le altre streghe che erano presenti e di discutere con loro dell’accaduto?». O, ancor più eloquentemente: «mentre eri al sabba, la tua assenza fu notata dai familiari che dormivano con te nella stessa stanza? E se non fu notata, quali artifici avevi utilizzato per nascondere la tua assenza?».
Sconfortante pensare che queste domande furono sufficienti a rendere manifesta la debolezza e l’incoerenza di queste auto-accuse. Sconfortante, perché davvero vien da chiedersi quante vite umane avrebbero potuto essere salvate se, anche in altri casi di caccia alle streghe, i giudici incaricati di vagliare le testimonianze avessero agito con la stessa assennatezza e con lo stesso spirito pratico dei tre frati di Zugarramurdi: l’8 giugno 1610, quando gli inquisitori si riunirono in giuria per decidere cosa fare di tutte quelle donne che avevano ammesso la loro colpevolezza, fu proprio Alonso de Salazar Frías a dare voce alla perplessità di tutti facendo notare che, se nessuna delle “streghe” ree confesse era stata in grado di dare prove convincenti circa la sua reale partecipazione al sabba (tutto sommato un concetto abbastanza semplice: o ci sei andata davvero, oppure no), quale folle sarebbe stato disposto a dare credito alle loro ammissioni di colpevolezza riguardo concetti ancor più aleatori (come ad esempio l’aver causato il decesso di un neonato) o ancor più pericolosi (come ad esempio il fare il nome delle proprie complici)?
Sicuramente, non quel tribunale dell’Inquisizione: che, vagliate le quasi trecento confessioni rilasciate spontaneamente (!) nell’arco di pochi mesi, decisero di archiviare con un “nulla di fatto” la stragrande maggioranza dei casi. Solamente diciassette degli imputati furono effettivamente mandati a processo, perché le loro confessioni sembravano più verosimili della media: undici di loro furono giudicati colpevoli e, di questi undici, sei personaggi dovettero scontare la pena capitale per il fatto di aver commesso crimini particolarmente odiosi (non si erano limitati a praticare la stregoneria, ma – a detta loro – avevano attivamente fatto proselitismo per trascinare anche altri nel gorgo del peccato). Assieme a loro, furono mandati al rogo anche ventun eretici, due bellimbusti che si erano finti agenti dell’inquisizione per ascoltare le confessioni pruriginose delle donne di Zugarrarmurdi e – simbolicamente – cinque fantocci con le sembianze di altri criminali condannati alla pena capitale che però erano già morti per cause naturali in attesa della condanna.
Insomma: non esattamente un bilancio che si chiude a zero, giacché sei persone persero effettivamente la vita. Ma se teniamo conto del fatto che il processo partì con trecento confessioni, ci rendiamo facilmente conto che la ragionevolezza degli inquisitori riuscì comunque a sventare una strage. E non solo: l’eco di quella storia assurda fu tale che, nel 1614, l’Inquisizione Spagnola volle dotarsi di un nuovo regolamento interno per analizzare con sempre maggiore accuratezza i futuri casi di stregoneria (e assicurarsi, per l’appunto, che i giudici ecclesiastici sapessero sempre manifestare il dovuto distacco di fronte alle dicerie di villaggi chiaramente in preda alla psicosi). La nuova regolamentazione, naturalmente, fu frutto di un lavoro di squadra: ma sedici dei trentadue punti di quel nuovo regolamento furono scritti personalmente da Alonso de Salazar Frías, forte dell’esperienza che aveva maturato sul campo durante il caso di Zugarramurdi. Il Malleus Maleficarum fu fortemente screditato, a vantaggio di testi più moderni ed equilibrati; e agli inquisitori fu suggerito di procedere con la massima discrezione qualora si fossero trovati a dover giudicare un caso di stregoneria, senza pubblicizzare eccessivamente la questione e (diremmo noi in termini moderni) senza dare troppa copertura mediatica alle confessioni delle accusate, per evitare che le loro parole facessero scoppiare la psicosi.
Da quel momento in poi, e con pochissime eccezioni, in terra di Spagna le accuse di stregoneria sfociarono in assoluzioni o comunque in condanne simboliche, con penitenze molto lievi; le condanne a morte si contarono sulle dita di una mano. Davvero padre Alonso può a buon diritto vantare il titolo di “avvocato delle streghe”!

Resta però un punto di domanda alla fine di questa storia: a che si deve l’assoluta anomalia delle vicende di Zugarramurdi, in cui un paese intero cadde in preda alla psicosi dopo la prima accusa di stregoneria, affrettandosi a confessare delitti mai commessi e ad attribuirsi la colpa delle morti di tutti i bimbi del villaggio?
Sorprendentemente, in questo caso, potrebbe essere la scienza medica a dare una risposta convincente. Emma Wilby, storica britannica che ha lungamente studiato i processi per stregoneria nella zona di Navarra, fa notare che, a causa dell’isolamento e della forte endogamia che caratterizzarono per secoli la vita delle comunità che vivevano sulle vette dei Pirenei, le popolazioni basche presentano ancor oggi alcune particolarità genetiche, oggetto di attenzione da parte della comunità medica internazionale. A oggi, il 29% della popolazione che risiede sui Pirenei presenta gruppi sanguigni a Rh negativo; una condizione che normalmente non crea disturbi ma che, se si verificano determinate circostanze, può causare problemi di rilievo nel caso di una gravidanza.
Nel momento in cui una donna a Rh negativo genera un feto a Rh positivo, gli anticorpi materni riconoscono come estranei i globuli rossi del bambino in gestazione, dando origine a una sindrome nota come malattia emolitica feto-neonatale. Gli effetti sono devastanti: se non si interviene con apposite terapie, che ovviamente non esistevano nel 1609, gli aborti spontanei sono frequentissimi e così pure i parti prematuri, che mettono al mondo un feto nato morto, tra l’altro segnato spesso da malformazioni che poterono facilmente risultare “mostruose” e “spaventose” agli occhi degli uomini del tempo. I pochi neonati che sopravvivono al parto lo fanno con un destino già segnato, a causa di una severa forma di anemia che in assenza di adeguate cure mediche tende a ucciderli nell’arco di poco di tempo e che si rende evidente ai genitori attraverso un pallore malsano e innaturale: quasi ci fosse qualcosa o qualcuno che sta lentamente prosciugando il bambino succhiandogli via il sangue.
Il fatto che, nei paesi d’area basca, esistesse tra la popolazione una percentuale così alta di individui a Rh negativo rendeva statisticamente molto più frequente l’instaurarsi di questa sindrome. Fino al momento in cui, alla metà del XX secolo, furono scoperte terapie mediche adatte, nei paesi baschi il tasso di mortalità infantile doveva essere considerevolmente più alto rispetto alla media europea. E probabilmente insostenibile da un punto di vista psicologico, se pensiamo alla disperazione con cui le donne del villaggio s’affrettarono a confessare di aver sicuramente fatto qualcosa di sbagliato; di aver sicuramente provocato a causa dei loro peccati la morte dei propri figli, fratelli, nipoti. In quel dicembre 1608, ad accendere la miccia furono le fantasiose storie di stregoneria e di conversione raccontate dalla transfuga Maria de Ximildegui; ma probabilmente, anche in assenza di questa causa scatenante, sarebbe stato qualcos’altro a far scoppiare presto o tardi la psicosi. Quello di Zugarramurdi è uno dei rari casi in cui davvero vien da dire che la paura era alimentata dal luogo stesso; anzi, letteralmente scorreva nelle vene della popolazione.
E, se questa strana storia fosse riuscita a incuriosirvi e a farvi venir voglia di saperne di più: parlo più diffusamente delle streghe di Zugarramurdi, e di altri venti processi per magia e stregoneria tenutisi in Europa dal 1308 al 1757, nel mio libro Ingannatori, malefici e sapienti. Storie vere di uomini e donne durante la caccia alle streghe, disponibile su Amazon.

Lucia Graziano
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