Federigo Borromeo, ruscello che va a gettarsi limpido nel fiume. #manzoni #promessisposi #cardinalfederigoborromeo

“E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare?”

I promessi sposi, Cap. XXIII, 14-15

Il cardinale Federigo Borromeo è realmente esistito, è il cugino del più famoso, nonché santo, Carlo Borromeo, “maggior di lui di ventisei anni”, una figura storica, appartenente alla chiesa buona, protettore degli umili. Insieme a fra Cristoforo, il suo personaggio costituisce l’esempio più alto di virtù cristiana presente nel romanzo: il primo agisce a livello elementare e popolare, il secondo opera ai massimi livelli di potere, ma in costante rapporto con il popolo e le persone più bisognose. L’umiltà, la povertà, la carità, l’intelligenza culturale e umana sono le virtù che lo contraddistinguono e ne fanno un vero esempio di rigore morale. A lui Manzoni affida la testimonianza della propria religiosità.

Il cardinale ci viene introdotto come “arcivescovo di Milano” all’inizio del capitolo 22 e, dopo la parentesi dell’Innominato, che si veste per andare ad incontrarlo, ci viene presentato per tutto il resto del capitolo con tanto di date rappresentative della sua vita. Ecco che ritroviamo il realismo storico di cui Manzoni aveva discusso con il suo amico Fauriel. L’autore ce lo introduce con l’anno della sua nascita e subito gli associa una metafora per descrivere la purezza della sua figura durante l’intera sua vita: “La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume”.

Manzoni ci descrive anche fisicamente il cardinale Borromeo nel capitolo 23, quando si trova a tu per tu con l’Innominato, sottolineandone un “portamento naturalmente composto, e quasi involontariamente maestoso“, raccontandocelo “non incurvato né impigrito dagli anni“, canuto, pallido, con i segni della meditazione e di una “gioia continua d’una speranza ineffabile”, con una “bellezza senile” che sicuramente fa pensare che in gioventù fosse bello, sebbene al momento dell’ incontro, nel 1628, il  cardinale abbia già 64 anni. La descrizione fisica ha una spiccata connotazione morale, i dettagli fisici rimandano a doti spirituali, espresse con antitesi: “occhio grave e vivace”, “fronte serena e pensierosa“, “pensieri solenni e benevoli”. Alla descrizione del carattere e più in generale della figura del personaggio, Manzoni dedica intenzionalmente molto spazio, infatti scrive proprio che “intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d’andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente.” Tutto ciò contribuisce a spiegare l’effetto psicologico della sua presenza sull’animo dell’Innominato, che proverà al suo cospetto al contempo timore e conforto. Il rapporto fra l’Innominato e il Cardinale è immaginato dal primo come una sfida aperta, uomo di fronte a uomo, senza intermediari, ma un tale esempio di rettitudine non poteva che scalfire quella corazza di peccato che avvolgeva l’Innominato, che finirà per sciogliersi nell’abbraccio pietoso del Cardinale: “Cosa può far Dio di voi? Cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà”. E’ la vittoria del bene sul male, la vera vittoria a cui tende la sua testimonianza di sacerdote e di cristiano, testimonianza di impegno e sacrificio, come ricorderà anche a don Abbondio, esortandolo al coraggio. Il suo è un personaggio complesso, che presenta tratti di forza che si manifestano attraverso l’accoglienza, ma anche tramite la fermezza delle sue convinzioni.

Nato in una famiglia ricca, Federico vive con “tutti i mezzi d’una grand’opulenza“, “tra gli agi e le pompe“, ma ciononostante sin da piccolo è attento “a quelle parole d’annegazione e d’umiltà“. Era nato il 18 agosto 1564 da Giulio Cesare Borromeo e Caterina Trivulzio, due tra le più importanti famiglie milanesi del tempo; aveva deciso di intraprendere la carriera ecclesiastica nel 1580,seguendo le orme di suo cugino Carlo Borromeo: “prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin d’allora antica e universale, predicava santo”, entrando nel collegio di Pavia, fondato da Pio IV nel 1561, di cui Federico divenne poi amministratore. Viene creato cardinale nel 1587 (questa data non è indicata da Manzoni nel romanzo) e nel 1595 viene nominato arcivescovo di Milano nella basilica cardinalizia di S. Maria degli Angeli a Milano, per volere del papa Clemente VIII.

            Una volta entrato in collegio a Pavia, oltre alle prescrizioni normali, da solo ne aggiunge altre due: “insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo“ e “visitare, servire, consolare e soccorrere gl’infermi“, dichiarando, inoltre, di volere “una tavola piuttosto povera che frugale“,“un vestiario piuttosto povero che semplice“. Questa semplicità e povertà la ritroviamo anche dopo che è stato nominato arcivescovo di Milano, e quindi può godere dell’appannaggio economico della nuova carica ecclesiastica, quando ci viene espressamente descritto come: “uomo sommamente benefico e liberale“, che spendeva soldi “in soccorso immediato de’ bisognosi“, la cui vita “fu un continuo profondere ai poveri”. Per il Manzoni illuminista la religione è pratica, attiva, concentrata sul tema della carità e dell’operosità cristiana.

Ma subito Manzoni ci dice che questa attenzione alle piccole cose non faceva di lui una persona “incapace di disegni elevati“, alludendo alla “biblioteca ambrosiana“, anzi era un “uomo dotto”. La Biblioteca Ambrosiana a Milano esiste grazie al cardinale Federico Borromeo, che la “ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che potè avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme”.

(La biblioteca ambrosiana oggi)

La Biblioteca venne fondata il 6 settembre 1607, come da atto costitutivo, ma l’inaugurazione avvenne due anni dopo, il 7 dicembre 1609, nella festività di Sant’Ambrogio. Stando alle informazione del romanzo, leggiamo che la biblioteca ospitava “trentamila volumi stampati“, “quattordicimila manoscritti“, “una galleria di quadri, una di statue“. Il cardinale era, infatti, un esperto collezionista, in particolare di Caravaggio e di fiamminghi, tanto che fu in carteggio con Bruegel. Ma il progetto del cardinale legato alla Biblioteca Ambrosiana non finisce qui, infatti lo stesso narratore ci indica che l’ecclesiastico volle vicino alla biblioteca “un collegio di dottori”  il cui compito  “era di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l’obbligo ad ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli“; “un collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana“; “un collegio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno“; “una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena“; “una scuola delle tre principali arti del disegno“, ovvero pittura, scultura e architettura. Aveva compreso l’importanza della conoscenza delle lingue per la comprensione delle culture straniere. La Biblioteca Ambrosiana doveva essere a disposizione della cittadinanza, in netto contrasto con la concezione secentesca della cultura come strumento di dominio. L’unica cultura che Manzoni concepisce è appunto al servizio della pubblica utilità.

Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito cha da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”

M. Yourcenar, Memorie di Adriano

Giorgia Pietropaoli


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