Cominciamo oggi una nuova rubrica storica inserita all’interno delle nostre Lanterne dei Cercatori; insieme al nostro Adriano Virgili faremo un’affascinante viaggio nella fede, viaggiando nella storia dei concili della Chiesa Cattolica in pillole. Buona lettura, fr Gabrio
L’inizio della crisi ariana
L’editto di Serdica del 311 ed il successivo (cosiddetto) editto di Milano del 313 avevano segnato la fine della più feroce persecuzione che i cristiani avessero subito all’interno dei confini del grande Impero Romano. Non solo il tempo delle violenze anticristiane sembrava finalmente terminato, ma sul trono sedeva persino un imperatore, Costantino, che non faceva mistero delle sue simpatie per il cristianesimo. C’erano i presupposti perché la Chiesa potesse crescere e prosperare grazie alla pace raggiunta con i suoi nemici esterni (anche se una breve ulteriore persecuzione si ebbe nei territori governati da Licinio tra il 321 e il 324), quando scoppiò una delle più spinose e longeve tra le sue crisi interne: quella ariana.
Ario, un presbitero di origine libica che risiedeva ad Alessandria, cominciò a diffondere una dottrina di carattere eterodosso attorno alla natura del Verbo che ebbe un grande successo, anche grazie alla sua fama di asceta e alla qualità letteraria dei suoi scritti e delle canzoni di cui fu autore (che, a quanto pare, piacevano molto al popolo). Al centro della teologia di Ario sta la dottrina dell’agennesía (non generazione) come attributo essenziale della Divinità: Dio è necessariamente non solo increato, ma anche non generato e non originato, e la Divinità è assolutamente incomunicabile e unica. Di conseguenza, il Verbo (Lógos), che le Scritture designano chiaramente come generato dal Padre, non può essere il vero Dio. Anche se è adorato da tutti i cristiani, Egli è Dio e Figlio di Dio solo per partecipazione nella grazia o per adozione. Poiché la Divinità è indivisibile e incomunicabile e il Verbo ha il suo essere dal Padre, non resta che l’affermazione che Egli è una creatura, “estranea e dissimile in tutto dal Padre”; una creatura perfetta e immensamente superiore agli altri esseri creati, ma pur sempre una creatura.
Poiché Ario non accetta l’opinione di Origene, che postulava una creazione ab aeterno, afferma che il Figlio ha avuto un inizio: “C’era un tempo in cui non c’era”. I principali argomenti usati da Ario e dai suoi seguaci (detti appunto ariani) si fondano su alcuni passaggi della Scrittura, come: “Il Signore mi ha creato all’inizio della sua attività” (Pr 8,22), dove a parlare è la Sapienza di Dio, identificata con il Verbo; “il Padre è più grande di me” (Gv 14,28), affermazione messa in bocca a Gesù; “primogenito di tutta la creazione” (Col 1,15), espressione riferita a Cristo.
Appartiene alla cristologia ariana anche la negazione dell’esistenza di un’anima umana
in Cristo, con il Verbo a fare le veci della stessa. Sebbene poi Ario si sia occupato poco dello Spirito Santo, i suoi seguaci, fedeli alla logica del loro sistema, considerarono la terza Persona, o Ipostasi, della Trinità come la più nobile creatura prodotta dal Figlio, ma dissimile sia dal Padre che dal Figlio e inferiore ad entrambi.
A partire dal 318 o, forse, dal 320, Ario cominciò a scontrasi con Alessandro, vescovo della sua città, quando quest’ultimo lo rimproverò per i suoi insegnamenti eterodossi. Rifiutatosi di ritrattare la sua posizione, Ario dovette comparire davanti a un sinodo di quasi 100 vescovi dell’Egitto e della Libia convocato dal vescovo Alessandro verso il 320. Rimanendo inamovibile, fu scomunicato dal sinodo in oggetto, come lo furono diversi suoi seguaci. Seguendo la prassi normalmente adottata in questi casi, Alessandro inviò lettere encicliche a nome del sinodo ai vescovi più illustri, spiegando e confutando gli errori di Ario, notificando la sua scomunica e chiedendo loro di evitare la comunione con lui. Queste lettere affermano, soprattutto sulla base del Vangelo secondo Giovanni cap. 1, che il Verbo è coeterno al Padre, veramente Dio e il Figlio unigenito di Dio.
Espulso da Alessandria, Ario si recò in Celesiria da altri suoi discepoli, tra i quali spiccavano Paolino di Tiro e Teona di Laodicea. Eusebio di Cesarea gli diede un’accoglienza amichevole. A Nicomedia, il cui vescovo, Eusebio, gli prestò sostegno, egli scrisse la sua opera Talia (Banchetto), una lunga rapsodia, almeno in parte in forma metrica, in cui espose le sue idee teologiche (del testo oggi conserviamo solo alcuni frammenti). Intanto, il numero dei suoi sostenitori era cresciuto talmente tanto da potersi riunire persino in un sinodo, il quale emise lettere encicliche contro Alessandro. Il conflitto dottrinale e personale tra Ario ed Alessandro perdurò anche durante l’ultima persecuzione condotta da Licinio contro i cristiani ed era ancora in corso quando, sconfitto il suo avversario, Costantino si ritrovò unico padrone dell’Impero.
Convocazione e svolgimento del Concilio
Come già accennato, Costantino simpatizzava apertamente per il cristianesimo e desiderava metterlo sotto la protezione dello Stato, in più il diritto romano, in qualità di Imperatore, gli riconosceva la carica di Pontifex Maximus, il che gli dava la possibilità di intervenire in materia religiosa. In ragione di ciò, egli pensava che fosse suo compito risolvere una controversia che stava turbando l’unità politico-religiosa dell’Impero. Non avendo grosse competenze di carattere teologico, Costantino scrisse ad Alessandro e ad Ario, ingiungendogli di trovare un accordo in quello che lui probabilmente percepiva come un semplice disguido terminologico. A consegnare la missiva imperiale al vescovo Alessandro fu Osio di Cordova, vescovo e consigliere dell’imperatore. Come c’era da aspettarsi, l’operazione non ottenne alcun successo.
Quando un altro sinodo convocato ad Antiochia alla fine del 324 non riuscì ad ottenere l’unità desiderata, l’imperatore decise che per risolvere la questione era necessario convocare un sinodo generale di tutta la Chiesa. Egli sperava che questa iniziativa avrebbe risolto la crisi ariana più altre questioni che in quel momento turbavano la pace all’interno della cristianità. Tra le suddette questioni c’era quella relativa alla data di celebrazione della Pasqua. C’erano infatti alcuni, detti quartodecimani, che celebravano la Pasqua commemorando la morte di Cristo secondo il tradizionale calendario ebraico (il 14 di nisan), mentre la maggior parte dei vescovi celebravano la Pasqua la domenica successiva a questa data, in onore della Risurrezione del Signore. Tra questi ultimi, però, ce n’erano alcuni che seguivano il calendario ebraico, basato sui cicli lunari, anziché quello solare. Costantino voleva eliminare queste differenze stabilendo la data della Pasqua in modo indipendente dal calendario ebraico.
Il Concilio, che si svolse tra il maggio e l’agosto del 325, si aprì a Nicea in Bitinia (la moderna Iznik, nella Turchia nord-occidentale), nel palazzo imperiale, e fu inaugurato in pompa magna da un discorso dello stesso Costantino. Erano presenti tra i 250 e i 300 vescovi (il numero 318 riportato da Ambrogio di Milano e Ilario di Poitiers è simbolico, con probabile riferimento ai 318 servi di Abramo, Gn 14,14), e quasi tutti provenivano dalla metà orientale dell’Impero; più più di 100 venivano dall’Asia Minore, circa 30 dalla Siria, meno di 20 dalla Palestina e dall’Egitto. Tra le figure di spicco c’erano il summenzionato Osio di Cordova (che presiedeva materialmente il concilio con i delegati di papa Silvestro, assente per motivi di salute, i presbiteri romani Vito e Vincenzo), Alessandro di Alessandria (accompagnato dal suo segretario e futuro successore, il diacono Atanasio), Eustachio di Antiochia, Marcello di Ancira, Eusebio di Cesarea in Palestina, Leonzio di Cesarea in Cappadocia, Macario di Gerusalemme, Eusebio di Nicomedia, Ceciliano di Cartagine e alcuni ”confessori” che avevano sofferto nella recente persecuzione di Licinio.
Le questioni dottrinali erano la preoccupazione più urgente del Concilio. I vescovi di orientamento ariano proposero una loro formula di fede che fu indignatamente respinta dalla grande maggioranza dei presenti. Poi Eusebio di Cesarea propose il simbolo battesimale della sua chiesa, il più antico credo orientale oggi conosciuto. Questo fu accolto con favore dalla maggioranza, la quale però insistette sul fatto che al medesimo andassero aggiunte alcune formule al fine di meglio contrastare gli errori ariani. La prima fu “dalla sostanza del Padre”, in modo da contraddire direttamente l’affermazione ariana che il Figlio, non genuinamente generato, non procede dalla stessa essenza, o natura, del Padre, ma solo per volontà del Padre, come le altre creature. La seconda aggiunta, “generato non creato”, affronta l’affermazione di Ario che il Figlio non è tale per natura, ma è “fatto’” dal Padre. La terza aggiunta, “consustanziale al Padre”, comprendeva la parola più significativa del simbolo, il termine che sarà ragione di dispute interminabili per i decenni seguiti al Concilio.
Il termine homooùsios (consustanziale) non è di origine biblica, ma appare per la prima volta nella letteratura gnostica: sono “consustanziali” due cose che hanno la medesima natura. Poiché nella generazione in senso proprio il figlio ha la stessa natura del padre, c’è sempre consustanzialità tra i due, il che è proprio ciò a cui si opponevano gli ariani, negando la generazione del Verbo da parte del Padre. Il concetto di consustanzialità afferma che il Verbo è Dio come il Padre è Dio, e questo perché Egli è il vero Figlio del Padre. Collegando questa affermazione alla prima del testo “Crediamo in un solo Dio”, rimane chiara l’identità numerica della natura del Padre e quella del Figlio. Il Credo si limita solo a menzionare la Terza Persona della Trinità, in quanto non era questa la materia del contendere. Ecco quindi il testo finale che fu approvato dai vescovi a concilio:

“Crediamo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore di tutte le cose visibili ed invisibili. Ed in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, consustanziale al Padre, mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra. Per noi uomini e per la nostra salvezza egli discese dal cielo, si è incarnato, si è fatto uomo, ha sofferto e risorse il terzo giorno, salì nei cieli, verrà per giudicare i vivi e i morti. Crediamo nello Spirito Santo.
Ma quelli che dicono: Vi fu un tempo in cui egli non esisteva; e: prima che nascesse non era; e che non nacque da ciò che esisteva, o da un’altra ipostasi o sostanza che il Padre, o che affermano che il Figlio di Dio possa cambiare o mutare, questi la chiesa cattolica e apostolica li condanna.”
Il Simbolo Niceno fu la prima definizione dogmatica della Chiesa cristiana e attraverso i secoli è servito come cartina di tornasole dell’ortodossia (e, nella versione leggermente modificata che ne fu licenziata dal I Concilio di Costantinopoli, viene ancora oggi recitato la domenica a messa da ogni cattolico). Quasi tutte le espressioni usate sono di derivazione biblica, con l’aggiunta di alcune parole di origine filosofica. Il significato della Scrittura è reso chiaro alla luce della tradizione. La divinità del Figlio viene definita nel suo senso più proprio.
Come accennato sopra, a Nicea ci si occupò anche di altre questioni. Per ciò che riguardava la Pasqua, fu stabilito: (1) che tutti i cristiani dovessero celebrarla nello stesso giorno; (2) che le usanze ebraiche non dovessero essere seguite; (3) che tutte le chiese dovessero invece attenersi a quanto facevano la chiesa di Roma e quella di Alessandria, vale a dire celebrare la Pasqua la domenica successiva al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera.
Il Concilio di Nicea promulgò 20 decreti disciplinari. Successivamente, alcuni canoni siriaci e arabi (pseudo-nicaeni) furono attribuiti al concilio, ma oggi si ha la certezza che si tratta di testi spurii. I canoni 15 e 16 proibivano ai vescovi, ai sacerdoti e ai diaconi di occuparsi degli affari di un’altra diocesi o località. Il canone 4 ordinava che i vescovi fossero consacrati da tutti gli altri vescovi di una provincia o, qualora ciò non fosse possibile, da almeno tre di costoro, mentre la ratifica della nomina spettava al metropolita. Il canone 5 stabiliva che dei sinodi provinciali dovevano svolgersi due volte ogni anno, sotto la direzione del metropolita, al fine di esaminare le scomuniche inflitte dai vescovi. I famosi canoni 6 e 7 ratificavano le prerogative tradizionali delle Chiese orientali. Al vescovo di Alessandria era riconosciuta l’autorità sull’Egitto, la Libia e la Pentapoli, analogamente ai privilegi di cui godeva il vescovo di Roma in Occidente. Ecco la radice del patriarcato: il patriarca ha sotto di sé tutti i metropoliti della sua regione. Erano ratificati anche gli ormai secolari privilegi di Antiochia, di Gerusalemme e di altre chiese, ma non è chiaro se i privilegi in questione fossero intesi semplicemente come onorari.
Alcuni canoni avevano a che fare con la dignità del clero: l’ordinazione degli eunuchi (c.1), il divieto di ordinare presbiteri o vescovi dei cristiani appena battezzati o dimostratisi indegni (c.2), l’atteggiamento da tenere nei confronti di quei membri del clero che avevano rinnegato la fede durante le recenti persecuzioni (c.10), e il divieto per i chierici di convivere con donne che non fossero loro parenti strette (c.3). Il canone 13 confermava l’antica pratica di dare la comunione ai penitenti in prossimità della morte. Veniva stabilito un duplice criterio per la riammissione degli eretici (c.19): quelli che non erano stati in errore sulla dottrina della Trinità, come i novaziani, potevano essere riconciliati senza ripetere il battesimo; i seguaci di Paolo di Samotracia, invece, dovevano essere ribattezzati, poiché non era chiaro se essi confessano o meno la fede trinitaria (questo in ragione del fatto che il battesimo, per essere valido, doveva essere celebrato con formula trinitaria, cioè nella fede nella Trinità). Ai diaconi era imposto di dare sempre la precedenza in ambito liturgico ai vescovi e ai presbiteri (c.18). La domenica e i giorni di Pentecoste, i fedeli dovevano seguire la liturgia stando in piedi e non inginocchiati (c.20).
Dopo il Concilio
Il Concilio di Nicea fu il primo concilio di carattere ecumenico e stabilì la prassi che da allora in poi la Chiesa avrebbe seguito per dirimere le più scottanti controversie dogmatiche e disciplinari. La durata dello stesso non è certa, anche se probabilmente fu di diverse settimane. Solo due vescovi, Secondo di Tolemaide e Teona di Marmarica, rifiutarono di sottoscrivere il Credo ivi stabilito ed il relativo anatema. Costoro, assieme ad Ario e ad altri membri minori del clero, furono esiliati in Illirico. Costantino confermò i decreti di Nicea e li proclamò leggi dell’Impero, scrivendo una lettera ai vescovi che non avevano partecipato al grande sinodo al fine di esprimere loro la sua gioia per l’armonia finalmente raggiunta in seno alla Chiesa.
Durante la vita di Costantino, i sostenitori delle tesi ariane, anche se insoddisfatti del Simbolo stabilito a Nicea, non osarono attaccarlo in modo diretto. I cosiddetti eusebiani (Eusebio di Nicomedia e i suoi sostenitori) preferirono muoversi in modo indiretto, tramando e manovrando al fine di far rimuovere dai loro incarichi i più importanti difensori dello stesso. Una prova significativa del loro successo è riscontrabile nell’esilio di Eustachio di Antiochia e di Atanasio di Alessandria.
Degli atti del Concilio sono giunti fino a noi solo il Simbolo con l’anatema aggiunto contro gli ariani, i canoni disciplinari, le liste dei vescovi presenti (esistenti in diverse lingue e non sempre coerenti), e la lettera sinodale che notifica alla chiesa alessandrina la scomunica di Ario e dei suoi seguaci. Sebbene il giudizio di Nicea sull’arianesimo fosse chiaro e conclusivo, fu causa di grandi divisioni in Oriente fino al 381 (anno in cui a Costantinopoli si tenne il secondo Concilio Ecumenico), principalmente a causa del termine homooùsios. Nella loro opposizione al Concilio e a questa espressione, ariani e semi-ariani erano d’accordo e lungamente combatterono per far sì che la Chiesa mutasse il proprio giudizio. Di tutto questo parleremo però nel prossimo articolo.
Adriano Virgili
Alcuni riferimenti bibliografici:
Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei concili ecumenici, Torino, UTET, 1978
Pierre-Thomas Camelot, Paul Christophe, Francis Frost, I concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 2001
Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Chieti, GBU, 2008
Klaus Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 2012
Emanuela Prinzivalli (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età antica (secoli I-VII), Roma, Carocci, 2015
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