Morte e modernità. Un saggio filosofico. #novissimi #lanternadelcercatore

Ospitiamo con grande gioia le riflessioni del nostro amico e criminologo, Luca Grisolini già nostro ospite che ci dona il suo saggio “La morte nella modernità: breve indagine su un tabù insuperato”.

La morte nella modernità: breve indagine su un tabù insuperato

INTRODUZIONE

La morte rappresenta ad oggi uno degli argomenti più sconosciuti e affrontati dalle discipline sociologiche. Come dimostra la non certo vasta biografia sul genere, questo tema continua ad esplicarsi come un tabù difficilmente superabile, a cui neanche gli esperti della materia riescono ad approcciarsi con rigore e continuità.

Il primo fattore rilevante che abbiamo osservato è come la morte, di per se stessa, non rappresenti un vero e proprio argomento di studi, ma sia concepita altresì come uno scenario in cui si manifestano altri fattori sociologici rilevanti: si parla di fine vita relativamente al concetto di vecchiaia, di fatto esaltando a argomento principale l’elemento della percezione dell’anzianità; o lo si fa in un dibattito concernente la medicina, e quindi dedicandosi ai sistemi che vengono utilizzati nella modernità per addolcire o comunque rendere più dignitoso e distante il momento del trapasso. Ancora, si studiano i rimedi psicologici e societari evolutisi nei tempi per creare una sorta di distanza emotiva, un muro insomma, che allontani il vivere quotidiano dal terrore pressoché continuo della propria finitezza e inutilità nell’incorruttibile sistema del tempo.

Ma descrivere la morte di per se, ponendo l’attenzione su ciò che ogni uomo veramente prova

sentendo avvicinare il capolinea,  rimane ancora un campo inesplorato.1

Forse perché descrivere uno stato simile comporterebbe una partecipazione attiva al momento descritto: solo un malato terminale di cancro, un suicida o un vecchio disteso sul letto di morte potrebbero descrivere in modo oggettivo e particolareggiato l’aumentare esponenziale di sensazioni e stati d’animo di un momento temuto per tutto il corso dell’esistenza.

L’analisi avviene infatti dedicandosi ai terzi, più che ai diretti protagonisti dell’evento: si analizza il comportamento della famiglia davanti al parente irrimediabilmente incurabile, e ancora si prende in considerazione la secolarizzazione delle persone esterne al parentado che accompagnano al trapasso il moribondo.

Partiamo dunque, come assunto di questo nostro piccolo contributo, dal sostenere che gli elementi trainanti degli studi sociali rivolti all’argomento del fine dell’esistenza sono legati a due macroargomenti:

_ la percezione dell’individuo della morte: progressiva eliminazione del pensiero ricorrente della

finitezza attraverso espedienti pratici che allontanino la sua consapevolezza.

_ la morte come momento sociale vissuto da una pluralità di attori in evoluzione di attori diversificati: questo filone, che si richiama sopratutto al legame con il mondo della medicina, prende in analisi il ruolo crescente di persone esterne al mondo della famiglia che si arrogano il compito di accompagnare l’individuo al trapasso attraverso l’ausilio di strutture prima interamente concernenti la famiglia.

Già da questa divisione, ci si rende conto come il trait d’union delle due macroaree sia la concezione che l’individuo moderno teme a tal punto la propria morte da aver progressivamente allontanato qualsiasi elemento che in qualche modo gliela rammenti, compresa la vicinanza ai parenti stretti nel momento cruciale, ormai demandato a un personale specializzato.

Leggendo Baumann ed Elias il primo elemento che viene messo in risalto è proprio questa crescente separazione tra il mondo dei morti e quello dei vivi, alimentata dalla decadenza di elementi tradizionali (quali il culto dei morti, la vicinanza al moribondo e i servigi resi al cadavere) e dalla progressiva eliminazione del termine morte dal vocabolario comune (i bambini sono ad oggi all’oscuro dell’argomento per l’ostinazione dei genitori di tralasciare la sua reale natura o impedire loro di vivere il trapasso di persone vicine). Eppure entrambi questi autori sembrano aver tralasciato l’aspetto contrario, sempre più evidente nella società moderna, e contraddittorio rispetto al presupposto del confinamento della morte: quello della sua spettacolarizzazione (su cui pone un interessante accento Allievi nel suo surrogato saggio), applicata attraverso l’esposizione continua ai media, ai network, al mondo dei videogiochi.

Appare dunque chiaro un doppio livello su cui porre la propria attenzione: quello della partecipazione alla morte percepita come scomparsa di un caro o di una persona vicina, che appunto conduce all’esito della riflessione sulla vacuità esistenziale, e viene come già detto messa in sordina, e quella della morte “vista attraverso uno schermo” con particolare riferimento alle maggiori possibilità tecnologiche che informano sui fatti del mondo o ci rendono capaci di uccidere ed essere uccisi virtualmente senza creare degli eccessi di sensibilità e ansia per la lontananza degli sfortunati caduti o appunto per la loro reale inesistenza.

Vari assunti, numerose ottiche e diversificati esiti: in questo piccolo studio ci proponiamo di analizzare, nel modo più sintetico e completo possibile l’argomento della morte, cercando di individuare i maggiori frame del concetto di morte nella sua evoluzione storica, con particolare

attenzione ai suoi risvolti nell’epoca moderna. Tenteremo inoltre di andare “oltre” la biografia offerta proponendo dei nostri personali spunti e perplessità, nella speranza di aver colto l’argomento nonostante la sua sostanziale difficoltà interpretativa.

LA CONSAPEVOLEZZA DELLA MORTE

La morte è la condizione che accomuna tutti gli essere viventi: razza umana e animali, piante e cellule. Tuttavia, l’uomo è l’unico essere animale ad avere la piena consapevolezza di quale sarà il proprio destino.

Questa conoscenza imprime in lui un diverso attaccamento alla vita che va ben al di là dello spirito di sopravvivenza: mentre l’animale fugge o uccide per paura o istinto, senza sapere veramente quale potrebbe essere il suo destino di preda o predatore, l’uomo sin dalla nascita è a conoscenza del fatto di avere una sveglia rimessa, di essere sottoposto a un conto alla rovescia a cui non potrà porre rimedio.

Di fatti, il mondo moderno mette a disposizione una gamma pressoché infinita di elementi che possono permettere all’individuo di realizzarsi, nella quotidianità come nel lavoro, nel mondo dei sentimenti come nelle aspirazioni. L’individuo trascorre la maggior parte della sua esistenza a cercare di appagare i propri desideri e migliorare in qualche modo il proprio status sociale, con la consapevolezza che un giorno tutto quello che tanto faticosamente ha costruito nell’arco di una vita intera verrà annullato con la sua scomparsa.

Questo pensiero fisso accompagna l’esistenza terrena dell’uomo per tutta la vita: il pensiero della cessazione rappresenta forse l’elemento più difficile da accettare, in quanto prelude alla scomparsa di noi, del nostro corpo, della nostra funzione all’interno della società.

Soprattutto, prelude alla scomparsa della ragione: partendo dall’assunto cartesiano del “cogito ergo sum”, si può dire che l’essere in quanto tale, la tangibile prova della nostra esistenza derivi dalla possibilità appunto di pensare. La morte rappresenta invece il non essere, prefigurandosi come un’assenza di pensiero e capacità percettiva/ razionale, ovvero come la negazione della peculiarità propria dell’esistenza.

Come scrive Zygmunt Baumann:

l’unica cosa che il pensiero non può comprendere è la propria non esistenza: esso non può concepire un tempo o un luogo che non lo contenga più, in quanto ogni attività di concepimento lo comprende come forza che concepisce”.2

In poche parole, la razionalità umana non riesce ad immaginare una dimensione spazio- temporale

che ne escluda le funzioni e l’esistenza: il proprio non essere non può essere immaginato.

Questo perché l’uomo, di fatti, non avrà mai una piena conoscenza della morte, in quanto è un

momento, come la nascita, di cui può avere ricordo solo da testimone e mai da protagonista.

Si può vedere morire, ma non si riesce a vedere se stessi nei panni del morente, poiché è un’immagine intollerabile: eppure, sin dai nostri esordi vitali siamo pienamente consapevoli che quello che sarà l’esito.

Questo senso d’impotenza rispetto al proprio destino accompagna l’essere umano in ogni suo passo nel percorso esistenziale: affinché esso non lo opprima, e per sfruttare a pieno il tempo a propria disposizione senza per forza pensare al suo esaurirsi, l’uomo ragiona e agisce come se fosse destinato all’immortalità, e con esso tutte le sue azioni.

Niente, in realtà, è veramente eterno in questo mondo: tutto è destinato al cambiamento, alla trasformazione, persino le cose inanimate. E nulla si esaurisce mai del tutto, ma ogni cosa trasla esclusivamente di forma, divenendo un diverso composto o una differente materia. Così, come le montagne sotto l’agire delle intemperie e del tempo finiscono per modificarsi nell’aspetto e nella morfologia, così il corpo umano, oramai privo di vita, va ad alimentarne forme differenti o completamente nuove, concorrendo o trasformandosi ad ed in altro.

L’uomo non riesce ad accettare questa trasformazione, che lo renderà qualcosa d’inanimato, privo di ragione, e cerca di elaborare strategie che permettano alla sua dote caratterizzante di trovare un’uscita se non altro psicologica all’annullamento della ragione. La religione legata alla prospettiva dell’aldilà rappresenta un chiaro esempio di quanto detto: la fede in essa permette di accettare la disgregazione della materia del corpo come tale, e dunque la sua scomparsa nel tempo, ma lascia immaginare la sopravvivenza di ciò che veramente conta, dell’anima appunto, in una dimensione altra dove essa potrà continuare a realizzarsi e appagarsi definitivamente. Di fatto, occorrerebbe sottolineare che per quanto la scienza ci dia a sapere, avviene esattamente il contrario di quanto descritto: l’anima scompare e si annulla, il corpo continua in qualche modo a “vivere”.

Un’altra soluzione elaborata dall’uomo per rendersi in qualche modo immortale è legabile per esempio alla riproduzione: nel concepimento di un figlio si può concretizzare la possibilità che qualcosa di nostro, sia esso patrimonio genetico, memoriale o materiale, sopravviva al nostro corpo

e continui a vivere in quello della prole e della discendenza. Questo elemento, di freudiana memoria, pone l’accento sullo stretto legame di connessione degli istinti di vita. Baumann così descrive l’interdipendenza tra la necessità di riproduzione e la consapevolezza della scomparsa:

Perché la funzione di conservazione venga svolta a dovere, l’istinto di morte deve essere dall’istinto di vita : thanatos e libido, pulsione di morte e pulsione sessuale. Insieme, i due istinti innati soddisfano, per così dire, le necessità della natura. In una prospettiva naturale

<<obbiettiva>> in senso non umano , essi collaborano strettamente nel conseguire un risultato congiunto e tuttavia univoco che può essere definito la conservazione e la perpetuazione della specie3

All’aspetto della conservazione è legato l’elemento della sopravvivenza, ovvero il sistema elaborato dall’uomo per garantire il proprio mantenimento in vita. Se l’animale persegue questo stesso obiettivo tramite l’istinto, incosciente del reale significato della sua lotta, l’uomo sin dalla sua origine ha sfruttato la sua capacità di offendere e difendersi con piena consapevolezza degli esiti delle sue azioni. Se la facoltà di uccidere viene interpretata dal mondo animale principalmente come metodo per procacciare cibo e come sistema di protezione, nell’uomo l’esigenza di sopravvivere viene interpretata in un sistema molto più lato.

Il proverbio latino “mors tua, vita mea”, in un certo senso mette già in luce la visione della morte come l’annientamento di un potenziale avversario la cui scomparsa in qualche modo migliora la condizione di chi rimane. Questo istinto di elevazione attraverso la violenza letale ha trovato in passato sfoghi ben più ampi rispetto a quelli nella modernità: l’omicidio, in epoca medievale, era all’ordine del giorno, e a causa di una mancata legislazione efficace che ne punisse i rei, esso veniva commesso per gli scopi più futili o utilitaristi.

Con la nascita dello stato moderno e con il progressivo affermarsi di una società meno istintiva e ben più controllato nello sfogo delle proprie passioni, l’istinto di sopravvivenza è diventato un elemento sempre interno alla natura umana, ma espresso in maniera meno violenta e brutale.

L’uomo ha infatti imparato ad aborrire quel tratto della sua natura che prevede la distruzione altrui: questo non significa affatto che l’omicidio sia scomparso del tutto (continua anzi a prosperare, in maniera più spiccata nei paesi meno emancipati, ma in quota certo non trascurabile anche nei paesi più evoluti), tuttavia esso si dimostra assai meno attuato che in passato.

Se l’istinto di sopravvivenza viene oggi a delinearsi come qualcosa di sostanzialmente esecrabile nella sua attuazione più pura dal singolo, allo stesso tempo esso può essere trasformato in un’arma di coinvolgimento di massa che ne distoglie dal reale significato in nome di un bene finale più alto. E’ questo il caso della guerra: uccidere per difendere i confini della propria patria, le minacce in cui possono incorrere i propri cari in caso di un’occupazione straniera e la salvaguardia di un determinato benessere fanno del combattimento e dell’annientamento del nemico una forma ancora legittimata di morte proprio perché volta alla sopravvivenza.

Dare la morte continua dunque ad essere approvata come atto legittimabile dal sistema moderno in caso esso si conformi come una condizione necessaria e irrinunciabile.

La società di oggi dunque teme, autorizza o punisce la morte a seconda della situazione, e in alcuni casi addirittura, ne diventa la responsabile.

E’ questa la teoria evoluta da Emile Durkheim nel 1897 a proposito del suicidio, considerato come risultato finale del processo di anomia dell’individuo rispetto al proprio gruppo di appartenenza.

In questa condizione, infatti, l’uomo (che teme e cerca in ogni modo di aggirare la morte) sceglie volontariamente la strada dell’auto annientamento per sfuggire alla frustrazione di un’esistenza che non sente più come propria, o meglio, ad un mondo che non riesce più ad accettare per la mancanza di quell’equilibrio di connessione sua con il resto della società:

Non v’è ideale morale che non si combini, in proporzioni variabili a seconda delle società, con l’egoismo, l’altruismo, e una certa anomia. La vita sociale presuppone, infatti, che l’individuo abbia ad un tempo una certa personalità, che sia pronto quando la comunità lo esiga a farne la rinuncia e infine che sia aperto in certa misura alle idee di progresso. Ecco perché non vi è popolo in cui non coesistano queste tre correnti d’opinione che fanno propendere l’uomo in tre direzioni divergenti e anche contraddittorie. Dove esse si temperano vicendevolmente, l’agente morale è in uno stato di equilibrio che lo pone al riparo da ogni idea di suicidio. Ma basta che una di esse superi di qualche grado d’intensità le altre, perché per le ragioni suesposte, diventi suicidogena individualizzandosi.”4

Darsi la morte costituisce probabilmente l’atto di protesta più violento nei confronti della società di appartenenza: leggendo le statistiche dei dati del 2011 raccolti dal MSD Italia5 mettono in luce l’alta incidenza di suicidi nelle società più evolute. Laddove le possibilità di scelta sono pressoché infinite, e sempre di più mancano appigli valoriali chiari e condivisi, l’individuo spaesato stenta a individuare la propria personalità e a realizzarsi veramente. Questo lo conduce di fatto ad essere

asfissiato dalla velocità del mondo e dell’ambiente che lo circonda, e a porre un freno definitivo all’alienazione in cui viene sprofondato. Non è un caso che i paesi con maggiore incidenza di suicidi presentino uno stato economico- sociale molto elevato (come il Giappone, gli Stati Uniti o i paesi del Nord Europa) oppure siano comunque impegnati in un processo di velocissima evoluzione (come nel caso della Russia, dell’India e della Cina).

Ad ogni modo, la scelta del suicidio rimane secondaria e coraggiosa (in quanto la propria distruzione, almeno in quel caso, viene scelta come iniziativa), mentre la morte continua di gran lunga ad essere “temuta” dalla maggior parte della società, che elabora per se stessa forme di latenza in cui rinchiuderla per provare a vivere con dignità.

C’è da dire che, nel presente più che nel passato, il “trapasso” rappresenta un elemento meno quotidiano: se alla resa a tabù innominabile aggiungiamo gli elementi di maggiore autocontrollo sociale, i progressi macroscopici della scienza (ed in particolare della medicina) degli ultimi due secoli e il diradarsi delle guerre di massa, appare chiaro che colui che muore, agli occhi del moderno più che degli antenati, figura più come l’eccezione che la regola.

BREVE STORIA DELLA MORTE: FARE IL PUNTO OGGI

Stefano Allievi, nel suo interessante saggio “L’uomo e la morte in Occidente. Verso un nuovo paradigma interrogativo” cita lo studio di Philippe Ariès6, in cui la storia del concetto di morte viene divisa in quattro tappe evolutive, che noi riprendiamo come base del nostro contributo.

_ La morte addomesticata: corrisponde al periodo in cui il decesso viene vissuto come un momento proprio della sfera familiare. Cronologicamente, possiamo dotare questa fase nella prima parte del Medio Evo fino al XII secolo: in questo periodo, l’elemento della morte viene strettamente connesso a quello della vita. Essa infatti non procura traumi o drammi esistenziali, ma viene semplicemente accettata come un sonno eterno ed indefinito. Caratteristica principale, dunque, era il non pensare all’argomento, o per lo meno, affidarsi con rassegnazione al riposo delle’essere. Scrive Maria Grazia Soldati: “ Morte come riposo significa fiducia nella continuazione della vita (possibile risveglio in un altro mondo se non in questo), significa trapasso ma non fine, significa accettazione di un momento in cui l’esistenza non si interrompe ma continua dopo la morte,

negazione ostinata dell’annientamento”7. Il processo che accompagnava l’individuo al trapasso era correlato ad una ritualità prestabilita, scarsamente emozionale ma fortemente partecipata dai membri di tutta la comunità. In questo momento la morte era prefigurata senza destare paura, come evento naturale e fortemente coinvolgente.

_ La morte di sé, collocabile temporalmente tra il XII e il XVI secolo, si caratterizza per la “scoperta della morte individuale e della sua drammaticità8. Gli elementi che caratterizzano questo momento sociale sono principalmente due:

  1. l’abbandono dell’essere e dell’avere: l’uomo avverte che la disgregazione dal corpo causata

dalla morte sarà abbandonata dalla vanificazione delle sue azioni e dei suoi possessi;

  • la paura del giudizio universale e della destinazione dopo la morte: questa concezione è collegabile al rafforzamento del ruolo della chiesa e alla nascita di nuovi espedienti religiosi quali il purgatorio.

La morte inizia ad essere guardata con soggezione e timore, ma anche come suggello dell’esistenza da affrontare con dignità e coraggio: ne sono prova gli artes moriendi, veri e propri manuali di buona morte. La gestione del proprio trapasso, eseguita nella correttezza del rito e partecipata dai familiari stretti, era legato alla credenza che esso da solo potesse rivalutare o suggellare un’intera esistenza, davanti agli altri e soprattutto davanti a Dio.

Altra caratteristica tipica del periodo è l’appartenenza al culto religioso come garanzia del sorpasso all’ostacolo della Morte (concepita come vera e propria personificazione): nascono in questo periodo i cimiteri, che assicurano un luogo di rinvenimento dei resti (su cui si possono leggere le accorate dediche delle lapidi) e la permanenza in una terra benedetta.

_ Intorno al XVIII secolo si assiste all’affermazione della morte dell’altro: il focus dell’individuo passa dal proprio decesso all’osservazione di quella altrui, che desta emozioni, coinvolgimento, partecipazione. Acmè di questo momento storico è la consacrazione del culto delle tombe tipico del romanticismo (basti pensare al Dei Sepolcri di Ugo Foscolo): l’aspetto religioso va “scristianizzandosi” e laicizzandosi, trasformandosi in un rapporto più personale con la salma senza il passaggio della preghiera o dell’espediente divino.

A questo piano si oppone il progressivo allontanamento del morente e del morto rispetto al mondo dei vivi: i cimiteri iniziano ad essere allontanati dalle città per motivi igienici (famoso è rimasto l’Editto di Saint Cloud), mentre i familiari cominciano ad allontanarsi dai letti dei morenti e ad assolverne esclusivamente le volontà finali.

_ Il momento contemporaneo, iniziato con la seconda metà del novecento, si configura invece come proibizione della morte. Scrive Allievi, parafrasando il concetto di “morte della morte” di Aries:

La morte scompare dal panorama sociale, oggetto di vergogna e di divieto, “poiché ormai è Generalmente ammesso che la vita è sempre felice o deve sempre averne l’aria”. I riti restano uguali, ma sono svuotati dall’interno del loro pathos, della loro carica drammatica. Non si muore nemmeno più a casa e tra i propri familiari, ma in ospedale e sempre più soli, circon- dati al massimo dalla famiglia ristretta, non da quella cerchia allargata, anche a vicini ed a- mici, che caratterizzava la fase precedente. La morte viene rimossa, scompare dall’orizzonte sociale, come anche da quello individuale.”9

Quest’aspetto viene curato con particolare dovizia di particolare anche da Norbert Elias, nella sua ultima opera “La solitudine del morente10: in essa, il famoso sociologo tedesco evidenzia l’atteggiamento dell’uomo moderno rispetto alla morte, messa alla sordina come qualcosa di disdicevole, terribile, innominabile. Così, mentre le descrizioni dei cimiteri tendono ad eliminare il reale ruolo dei camposanti descrivendoli gradevoli e confortevoli parchi, e mentre i bambini sono totalmente all’oscuro dei meccanismi di dipartita dei propri cari per un freudiano sentimento di rimozione dei propri genitori, chi si ritrova nella condizione di morire si scopre, ancor prima del passo fatale, abbandonato dalla propria famiglia, rinchiuso in un ambiente estraneo come la stanza di un ospedale (e non più tra le rassicuranti quattro mura domestiche) e dotato di un’assistenza esclusivamente medica e impersonale dei medici che poco ha a che fare con il sentimento prima assicurato dai figli, dai fratelli etc.

Anche Baumann pone l’attenzione sul tema, elaborando, soprattutto nella prima parte della sua opera “Il teatro dell’immortalità” un panorama di quelle che sono le strategie, elaborate dall’uomo, per sfuggire alla morsa della morte. Se infatti a livello societario si può parlare di un esilio forzato del termine e del suo valore, l’individuo occupa gran parte della sua vita a mettere in pratica tattiche che permettano a lui o a quanto gli è caro a eludere il pensiero della fine. Interessante, per esempio,

è il conferimento, in un’epoca di secolarizzazione delle religioni e di decadimento del culto, di un

ruolo divino al rapporto d’amore:

(…) L’amore prende il comando nel momento in cui Dio e il Despota- con- una- Missione lasciano la scena. (…)Il mio io, confinato nella mortalità del proprio carapace corporeo, deve acquisire un’immortalità vicaria scindendo il proprio legame privato e conquistando la libertà. Esso deve guadagnare un’esistenza nuova, svincolata e più credibile nell’ambito trans individuale dell’<<universo duale>>. Posso sognare che, nel processo, la mortalità dell’io venga sconfitta dal mero fatto di abbandonare il corpo individuale irrimediabilmente mortale. Il nuovo ancoraggio della sopravvivenza è però un altro corpo e un altro io, imprigionato come il mio nel mutuo conflitto da cui solo dei sotterfugi possono illudere di offrire una via di fuga”.11

La relazione sentimentale si configura dunque come la ricerca di un equilibrio che in qualche modo dia un senso all’esistenza oltre la nostra reale permanenza terrena. Eppure, nel configurare un sentimento che nasce, cresce e si rafforza con la pretesa di essere eterno di diritto, la morte appare ancora più brutale nel suo aspetto disintegrante.

Ancora, Baumann analizza il desiderio dell’uomo di lasciare un’impronta nella società che vada oltre la sua permanenza, il suo tentativo, insomma, di “fare la storia in un mondo senza storia”: questa necessità si concreta nella possibilità dell’uomo moderno di lasciare un segno di sé che prosegua oltre la sua limitatezza. Mentre prima questa facoltà era assicurata dalla ricchezza, dall’estro e dall’eroismo, e quindi questo diritto fosse riservato esclusivamente a uomini di potere, grandi artisti e prodi condottieri, nei giorni nostri appare una possibilità ben più democratica.

Il desiderio di “lasciare un’impronta” ben si unisce a un altro istinto tipico della società moderna, quello dell’apparire, divenuta una vera e propria fonte di business: nascono così le compagnie pubblicitarie, gli esperti dell’immagine, gli apparati di critica e programmazione, che imprimono modelli da seguire e dettano mode che assistono l’individuo nel tentativo di immortalarsi:

“Non sono le grandi azioni a essere immortalate; le azioni diventano grandi nel momento in cui vengono <<immortalate>> e spinte -per un breve momento, elusivo ma mai del tutto cancellabile- al centro dell’attenzione pubblica”12

Sebbene il discorso di Baumann si concentri soprattutto su quest’argomento, volgendo la propria attenzione sui personaggi di spicco della società (vip, politici, eversivi etc.), è possibile ritrovare

questa necessità di apparire per eternarsi anche nel “volgo” più comune. Basti pensare all’uso sempre più massiccio dei social network: attraverso essi, l’individuo non solo può raccontare il proprio ego ad un pubblico potenzialmente mondiale che soddisfi la sua voglia di essere protagonista, ma può addirittura contare su una traccia elettronica, sulla creazione di un suo database dati personali che sopravvivrà sulla rete (eliminazione del profilo esclusa) anche dopo il suo esaurirsi vitale.

“Fare la storia”, buttarsi in una religione eterna lista, innamorarsi, rifugiarsi nella magia, immaginarsi immortali, arrendersi con stoica rassegnazione: diverse facce di un’unica medaglia che dal lato opposto, per quanto si provi a illudere e sperare, non ha che la disgregazione.

Cantava Fabrizio De Andrè: “di fronte all’estrema nemica non vale coraggio o fatica, non serve colpirla nel cuore perché la morte mai non muore”13: di fatto, la società nasconde a se stessa la morte perché riconosce l’inutilità pratica di ogni sua azione di ribalta.

Eppure, se da una parte la modernità presenta quest’aspetto di cancellazione e rimozione della

morte, dall’altra, come ben rileva Stefano Allievi:

“La società dello spettacolo, e non c’e da stupirsi, ha fatto anche della morte uno spettacolo quotidiano ordinario. Finto, per lo più: ma non solo. (…) E’ la morte ‘vera’, che passa però ancora dagli schermi televisivi, anziché dall’esperienza diretta: che in occasione di una carestia o di una strage terroristica fa irruzione nelle nostre case attraverso i Tg della sera, all’ora di cena. Ma che ormai e oggetto privilegiato di interi programmi basati in buona parte su un voyeurismo che ha nella morte il suo centro: si pensi alle varie ‘Real Tv’, o alla vendita in edicola di dvd di incidenti automobilistici e motociclistici o di stragi terroristiche. Le morti ‘finte’ sono presenti anche più massicciamente: e per conseguenza anestetizzano. Come le droghe, danno l’assuefazione. La morte deve essere ‘tanta’, se no non fa più effetto. Hollywood insegna. (…)Ci preme sottolineare, come fatto sociale significativo, il divario, quasi una forma di schizofrenia sociale, tra la sostanziale sparizione dalla vita delle persone della morte ‘vera’, e la diffusione a dosi massicce di quella ‘rappresentata.”14

Anche in luce di questo elemento, Allievi lancia l’ipotesi di un superamento della quarta tappa evolutiva pensata da Aries: ovvero, agli albori del XXI secolo, non si assisterebbe più alla proibizione della morte, ma al suo progressivo recupero come avversario da comprendere e superare. La massmediazione del decesso recupera infatti l’idea della morte come elemento pensabile e necessariamente da accettare, e allo stesso tempo si fonde con il tentativo, in continuo

perfezionamento, di sconfiggere il decesso o allontanarne l’arrivo nel tempo. Protagoniste di questa nuova era sarebbero le gigantesche scoperte scientifiche degli ultimi decenni, i cui risultati sono visibili già in termini di statistiche demografiche. Dalla paura della morte, dunque, al suo studio, fino al tentativo di scontrarsi direttamente con essa nell’obiettivo di sconfiggerla in futuro.

Sebbene condividiamo appieno l’analisi di Allievi, soprattutto per aver avuto intuizioni nuove rispetto a Baumann e Elias, ne dobbiamo esprimere una critica a nostra vista fondata: il tentativo di sconfiggere la morte non rappresenta una novità, ma è anzi una peculiarità conservatasi nei secoli e messa in pratica attraverso diverse strategie individuali e sociali. Non parleremmo dunque di una nuova era di morte ri- umanizzata, ma di morte “tollerata”, anche se esclusivamente in particolari ambiti e contesti.

Se infatti nel campo della medicina il corpo privo di vita è divenuto un oggetto di studio per debellare le cause della morte, dall’altro lato essa continua ad essere considerata come un qualcosa di impensabile per se stessi (basta pensare allo scarso numero di testamenti biologici e alla vacuità legislativa sull’argomento) e per giunta non controllabile né demandabile alla volontà degli individui (non occorre soffermarsi sul complicatissimo dibattito mondiale intorno al tema dell’eutanasia).

La morte, insomma, continua ad apparire, non diversamente dal secolo scorso, come un tabù nei suoi aspetti più privati e personali: ne è prova lampante il sempre più netto affidamento delle “pratiche” riservate al morituro e al cadavere a un personale estraneo alla famiglia e specializzato nella cura di tali aspetti. Forma moderna, ma stessa sostanza, del classico e tradizionale tentativo di eludere il sentimento individuale di finitezza.

Quanto il crepuscolo dell’esistenza rimanga ancora un aspetto ostile alla quotidianità dell’individuo appare evidente dall’accrescersi delle pratiche ospedaliere riservate agli anziani e ai malati terminali Alla “sconvenienza” dell’assistere alla morte altrui si unisce infatti, in epoca moderna, un cambiamento radicale della formazione della famiglia. Mentre dapprima la sussistenza e la cura dei membri “deboli” erano affidate alle donne e a quanti rimanevano a casa senza svolgere un lavoro, al giorno d’oggi il nucleo familiare si configura come essenziale, formato dalla coppia e dalla (sempre minore) prole, mentre il sostegno dei moribondi e degli anziani è affidato a strutture specializzate a un personale tecnico e impersonale. In un mondo caotico, in cui la velocità del progresso spinge a ritmi forzati ogni individuo della società, non rimane tempo da dedicare al prossimo: avviene dunque una selezione di priorità extrapersonali che vengono portate avanti dai singoli, mentre i rimanenti compiti sono per così dire “demandati”.

L’individuo oramai arrivato al termine del suo percorso vitale si ritrova perciò sostanzialmente solo, rinchiuso tra mura sconosciute e obbligato a una vita quotidiana non scelta, ma imposta dalle regole di convivenza interne, dal ritmo dei medicinali e delle cure, dalla disponibilità del personale.

Il cosiddetto ospizio, per quanto ci venga presentato con appellativi rassicuranti (quali per esempio “casa di riposo”) e come una sorta di hotel dotato di ogni confort e attenzione, altro non è che l’ultima spiaggia per la terza età, un ambiente sconosciuto il quale, a causa di scelte obbligate o meno, sostituisce le mura domestiche oramai divenute inadeguate al prosieguo dell’ esistenza degli anziani.

Un’attenuata variante dell’ospizio viene costituita dalla figura della badante (sempre più spesso straniera di nazionalità, sconosciuta ai suoi “affidati” e all’ambiente in cui essi vivono), la quale riesce a sopperire nel tempo al senso di solitudine proprio degli ospizi attraverso la sua “entrata in confidenza” con i ritmi e la personalità degli assistiti. Soluzione migliore, ma mai sufficiente, rispetto alle richieste di affetto e partecipazione che il vecchio vorrebbe avere: allo sconforto e alla depressione alimentata dalla consapevolezza del proprio stato, si aggiunge il senso di abbandono da parte dei più intimi.

Riguardo invece i destinati alla morte a causa di malattie ad oggi incurabili o costretti in uno stato di coma irreversibile, occorre citare il diffondersi dei cosiddetti hospices, centri specializzati dediti a cure palliative atte a rendere dignitoso il trapasso dei moribondi.

In queste strutture, come sottolinea Silvia Pezzoli nel suo saggio “Il revival della morte. Dalla solitudine del morente alla morte in diretta”, il primo obiettivo del personale è l’abbattimento del dolore, inteso come destabilizzante fisico e psicologico:

“Il dolore che precede la morte è considerato da chi compie questa scelta un dolore inutile e ingiusto, frutto di una cultura che può e deve essere trasformata. Infatti, si può ipotizzare che l‟elemento che per eccellenza definisce le cure palliative sia la loro lotta contro il dolore fisico, ma non solo, contro il dolore per la perdita dei rapporti con gli altri e contro la perdita del senso della vita stesso, per poter garantire una morte più tranquilla e decorosa”15

Ai medici spetta l’assistenza, la cura e il supporto emotivo a persone oramai destinate; altresì non trascurabile rimane il fatto che l’individuo moderno, per affrontare la morte del caro, si appoggi non solo tecnicamente ma anche psicologicamente a un personale con il compito di alleggerire lui la dolorosa pillola che li richiama al proprio destino.

Prendendo spunto da una ricca documentazione sul rapporto tra medici- pazienti e personale medico- familiari, la Pezzoli mette in evidenza il ruolo fondamentale di supporto offerto dai dottori nella difficile gestione di casi fuori dalla portata dell’uomo normale. Le lettere di gratitudine inviate

agli psicologi e ai curanti fanno si ben sperare in un futuro clinico dei moribondi meno solitario e abbandonato, ma mettono in luce il demandare totale delle vite dei cari in mano a un personale estraneo, che applica le proprie cure per professione, e non per sentimento e vicinanza emotiva.

Siamo dunque di fronte all’ennesimo tentativo di eludere la morte, anche se finalizzato concretamente in una prassi applicabile.

Rimane da chiedersi se la scienza, con gli immensi progressi che quotidianamente riscrivono i manuali di medicina, riuscirà un giorno a superare la sua natura di palliativo momentaneo per divenire cura definitiva dalle malattie e dalle cause del decesso. Non sappiamo se augurarcelo, ma siamo sicuri che l’auspicio migliore da dedicare alla nostra società sia di riuscire ancora ad addomesticare la morte, riportandola ai suoi aspetti originari di coinvolgimento e serenità. Riteniamo questo risultato quasi insormontabile, in un mondo abituato a pensare come se fosse eterno per non rendersi conto dell’esatto contrario: ma ciò aiuterebbe sicuramente nella riscoperta di valori tradizionali che potrebbero andar oltre il mero individualismo dei giorni nostri.

Riportare “la morte” dentro la propria casa sarebbe il primo modo per cominciare a riaffrontare con maggiore atarassia emozionale il proprio destino segnato, recuperando una solidarietà troppo spesso messa da parte.

Firenze, 6/ I/ 2013

Luca Grisolini

Note

1- Sull’argomento scrive a pagina 1 Stefano Allievi nel suo saggio “La morte in Occidente. Verso un nuovo paradigma interpretativo” ( inserito nella curatele di C. Viafora, “Morire altrove”, opera in via di pubblicazione per le edizioni Angeli di Milano): “(…)la voce ‘morte’ risulta quasi del tutto assente dai manuali e dai dizionari di sociologia. Non se ne parla, nemmeno la si cita. .L’uomo e la donna costruiti e immaginati dalla sociologia non muoiono mai: si pongono solo il problema del vivere, mai quello del morire. La morte risulta quindi essere una grande assente, o una grande rimossa, nella disciplina che di mestiere ha il compito di leggere la società e interpretarla (…)”. (pag. 1)

2- Z. Baumann, “Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita” (Ed. Il Mulino, Bologna 1995), pag. 25

3- Ivi, pag. 31

4 E. Durkheim, “Il suicidio” (Utet, Torino 1977), pag. 383

5 – http://www.msd-italia.it/altre/manuale/sez15/1901658.html, passim

6- S. Allievi, “La morte in Occidente. Verso un nuovo paradigma interpretativo”, da pag. 4 a pag. 7, passim. Philippe Aries scrisse un importante saggio sulla morte, titolato “ Saggio sulla morte in occidente: dal Medioevo ai tempi nostri”, in cui mette in confronto la percezione del decesso nelle diverse epoche della società.

7- M.G. Soldati, “Sguardi sulla morte. Formazione e cura con le storie di vita”(Ed. Angeli, Milano 2003)

8- S. Allievi, “La morte in Occidente. Verso un nuovo paradigma interpretativo”, pag. 4

9- S. Allievi, ivi, pag 5

10- Edito per la prima volta in italiano nel 1985 per le Edizioni Il Mulino di Bologna

11- Z. Baumann, cit. pag. 39

12 – Z. Baumann, ivi, pag. 228

13 – F. De Andrè, “La morte”, in Volume 1, 1967

14 – S. Allievi, ivi, pag. 13.

15 – Silvia Pezzoli, “Il revival della morte. Dalla solitudine del morente alla morte in diretta” in Cambio, n. 1/ Giugno 2011

Biografia

_ S.Allievi “La morte in Occidente. Verso un nuovo paradigma interpretativo” in C. Viafora, “Morire altrove”,Edizioni Angeli, Milano 2012)

_ Z. Baumann “Il teatro dell’immortalità. Mortalità, immortalità e altre strategie di vita” (Ed. Il

Mulino, Bologna 1995)

_ E. Durkheim, “Il suicidio” (Utet, Torino 1977)

_ N. Elias, “La solitudine del morente” (Ed. Il Mulino, Bologna 2005)

_ http://www.msd-italia.it/altre/manuale/sez15/1901658.html

_ M.G. Soldati, “Sguardi sulla morte. Formazione e cura con le storie di vita”(Ed. Angeli, Milano 2003)

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