Pesce al venerdì. Pesce in Quaresima. Pesce come cibo di magro per eccellenza.
L’associazione mentale è così radicata che verrebbe la tentazione di darla per scontata; invece credo sia interessante spendere qualche parola in più sulla questione, se non altro perché qualcuno potrebbe pure chiedersi “son pur sempre animali. Perché il pesce sì e il maiale no?”.
Una domanda inappuntabile, in effetti.
Una domanda che, anticamente, si era posta anche Santa Romana Chiesa, giungendo alla conclusione che in effetti, se non ti mangi il pollo, non si vede perché dovresti mangiarti lo storione.
Nei primi secoli di Storia cristiana, anche il pesce era escluso dalla rigidissima dieta quaresimale, alla pari di qualsiasi altro alimento che avesse origine animale.
È graduale il farsi lentamente strada di un atteggiamento di tacita tolleranza: formalmente, il consumo di pesce non è incoraggiato… e tuttavia, nessuno più si prende il disturbo di vietarlo.
Entro il X secolo, la transizione è completa: in tutto l’orbe terracqueo, non vi è più dubbio alcuno che il pesce possa integrarsi a pieno titolo nella dieta di magro d’un buon cristiano. Anzi, il pesce diventa pian piano il cibo quaresimale per eccellenza; dunque, diventa pian piano il cibo cristiano per eccellenza. In quelle aree d’Europa che non erano ancora state completamente cristianizzate, sono proprio i missionari a imporre (con una certa forza!) questa nuova moda gastronomica. Se vogliamo dar retta a quanto racconta Beda nella sua Historia ecclesiastica gentis Anglorum, quando Wilfrid di York si rese conto che molte comunità della Northumbria non praticavano la pesca, si diede da fare organizzando dei veri e propri corsi intensivi da pescatore aperti a tutta la popolazione. Non era un dettaglio, non era una bizzarria: evidentemente, agli occhi di Wilfrid era l’unico modo per permettere ai neo-convertiti di poter vivere una Quaresima come Dio comanda.
Ed è notevole, se ci pensiamo, una associazione così forte, evidentemente già molto radicata anche in epoche assai precoci. In fin dei conti, il pesce è un prodotto di non sempre facile reperimento, per non parlare poi della logistica legata al trasporto e alla conservazione. Passi, che Wilfrid ritenesse prioritario avviare alla pesca le popolazioni che vivevano su un’isola (tutto sommato, la materia prima doveva essere abbondante); ma pensiamo ad esempio ad altre aree d’Europa che non avevano sbocchi sul mare nemmeno a pianger cinese. Vien da chiedersi: nel bel mezzo della Germania, tanto per dirne una, chi è che realisticamente riusciva a mangiare pesce per tutta la Quaresima?
Risposta banale: i ricchi, tanto per dirne una. Viaggiando su cavalli lanciati al galoppo, il pesce di mare riusciva a raggiungere, ancora fresco, le mense dei più ricchi.
Se a qualcuno venisse in mente di far notare che è ipocrita lo spendere un capitale per poter gustare raro pesce marino in un periodo che sarebbe votato alla penitenza: non siete certo voi gli unici a pensarlo. E anzi, questa pratica era guardata con molta freddezza anche dai religiosi d’un tempo. Esempio eclatante è quello di Abelardo, che in una delle sue lettere a Eloisa la sconsiglia dal rinunciare alla carne se l’alternativa è ripiegare su pesci costosi, il cui solo acquisto è uno schiaffo alla miseria.
Naturalmente, la pesca marina continuava a essere praticata nelle zone costiere, e naturalmente nulla vietava alla brava gente che viveva in quelle zone di andare a fare compere al mercato del pesce. Il problema insomma non era il prodotto in sé e per sé; il problema era lo spreco di risorse e di denaro messo in atto da chi era disposto a tutto pur di avere in tavola un salmone in crosta nei suoi venerdì di magro.
“Evvabbeh, ma allora che avrebbe dovuto fare un poveraccio che non viveva in zone costiere?”, potrebbe obiettare a questo punto qualcuno.
Molto semplice: avrebbe dovuto rassegnarsi all’idea di mangiare pesce d’acqua dolce.
Quello sì che era disposizione ovunque, e ovunque poteva essere pescato; e che lo si mangiasse come se non ci fosse un domani ci viene confermato da una infinità di fonti. Sono relativamente pochi i ricettari medievali che indugiano su ricette a base di pesce marino; in compenso, il pesce d’acqua dolce ha tutta l’aria di esser stato una presenza costante sulle tavole della brava gente. Sidonio Apollinare, nel V secolo, canta in versi le lodi del luccio; Gregorio di Tours, nel VI, elogia la versatilità delle trote. Nel suo trattato sui cibi, il medico Antimo analizza negli stessi anni le proprietà nutritive di un unico pesce di mare, che se ne sta lì, un po’ spaesato, in mezzo a un esercito di pesci d’acqua dolce, evidentemente assai più diffusi.
Ma non solo: quasi ogni monastero si circondava di fossati nei quali allevava pesce per il fabbisogno alimentare della comunità; i contratti d’affitto stipulati dai vari centri monastici includevano quasi sempre, nel canone annuale, un pagamento in natura da effettuarsi mediante una fornitura di pesce (e/o di uova e formaggi. Non a caso, altri cibi di magro, preziosi per la dieta monastica).
Particolarmente apprezzati erano gli storioni del Po, famosi in tutta Europa per la loro lunghezza; altre prelibatezze erano i gamberi di fiume, che nel XIII secolo Bonvesin de la Riva descriveva come un prodotto particolarmente ricercato al mercato di Milano.
Certo: con buona pace dei gamberi di fiume e degli storioni, era pur sempre il pesce di mare il top dei top dei desiderata della gente medievale in Quaresima (…e, probabilmente, anche dei pescatori, che sarebbero stati ben contenti di veder espandere quel mercato). Ma, ovviamente, restava il grande problema del trasporto e della conservazione. Ci volle un bel po’ di tempo prima che la brava gente si rendesse conto che il pesce sotto sale ha un sapore orrido, ma, in compenso, dura assai più a lungo.
I primi a fare la scoperta furono i pescatori d’aringa, attorno al XII secolo: fu così che il pesce proveniente dal mar Baltico prese ad essere commercializzato su ampio raggio, dando il via a una vera e propria rivoluzione dei sapori. Verso la metà del XIV secolo, un certo Beukelzoon, pescatore olandese, mise a punto un sistema che permetteva di ripulire le aringhe, metterle sottosale e stivarle nell’arco di poco tempo, durante il viaggio di ritorno verso costa di quello stesso peschereccio che le aveva pescate: una tecnica meravigliosa, che sveltiva ulteriormente la produzione.
Proprio sul commercio di aringa sottosale si fondò in gran parte la fortuna della Lega Anseatica, che permise ai Paesi del Nord Europa di guadagnarsi un posto nel mondo. Eppure, non fu la Lega Anseatica ad aggiudicarsi i diritti di sfruttamento delle pescose acque al largo dei banchi di Terranova, dove – si scoprì a inizio Cinquecento – si radunavano miriadi di merluzzi. Furono Inglesi e Francesi ad aggiudicarsi i diritti di pesca in quel ricchissimo scampolo di mare, dopo una vera e propria guerra commerciale che li vide contrapposti agli Olandesi e ai Baschi.
In breve tempo, stoccafissi e baccalà cominciarono a invadere i mercati europei, guadagnandosi un predominio assoluto nell’alimentazione quaresimale dei ceti popolari. La facilità di trasporto e di conservazione permetteva di abbattere radicalmente i prezzi: soprattutto nelle grandi città, fu proprio il merluzzo a scalzare tutti gli altri pesci suoi “concorrenti” per diventare l’indiscusso principe delle mense di magro della brava gente.
Un principe indiscusso e tuttavia sopportato a stento, con la stessa rassegnazione con cui ci si piegherebbe a un tiranno. Perché – va detto e va sottolineato – gli uomini del Medioevo avevano gusti radicalmente diversi dai nostri: globalmente, il pesce non piaceva; non piaceva nemmeno quel pesce per il quale noi, oggi, saremmo disposti a spendere bei soldi.
Non si trattava solamente di passare quaranta giorni di fila a mangiare stoccafisso e baccalà: prospettiva che, immagino, farebbe venire il latte alle ginocchia a molti. Anche il buon pesce fresco che si gustava alla tavola dei ricchi era gustato… con un certo grado di malavoglia: psicologicamente, era pur sempre un cibo accostato alla penitenza. Era quel cibo che ti rassegni a mangiare quando non puoi mangiare ciò che davvero vorresti, tipo la macedonia di frutta che ti prepari sospirando perché il dietista ti ha vietato la torta Sacher a fine pasto.
Insomma: il pesce si mangiava, certamente, e i cuochi di un certo livello avevano anche sviluppato ricette niente male per valorizzarlo al meglio. Ma, culturalmente, restava un surrogato: qualcosa che mangi solo perché te tocca.
Fra l’altro, tutti (anche i medici) concordavano su un punto: il pesce non è nutriente. Non come la carne, quantomeno: a parità di peso, il pesce non sazia; chi si dovesse alimentare col pesce unicamente, rinunciando per sempre alla carne, vedrebbe inevitabilmente venir meno le sue forze. Era questa, la considerazione che del pesce si aveva, all’epoca.
Si conclude con questa riflessione il capitolo che Massimo Montanari ha dedicato a questo alimento nel suo Gusti del Medioevo, saggio da cui ho tratto tutte le informazioni per questo articolo. Si conclude con una riflessione molto vera, che contrappone a questo disdegno medievale la nostra moderna passione per il sushi e per le cenette di pesce nel ristorante vista mare (che mestizia sarebbero state, per un uomo d’altri tempi!).
Ma erano appunto altri tempi. Altra cultura, altra scala di valori.
Da una società che aveva il terrore della pancia vuota (e perciò ricercava soprattutto cibi riempitivi e nutrienti) a una società che ha il terrore della pancia piena (e perciò si orienta verso cibi leggeri e poco nutrienti). Il cibo quaresimale è andato così perdendo ogni significato di rinuncia, di sacrificio, di penitenza. Il pesce ha vinto la sua battaglia.
Articolo originariamente apparso sul blog Una Penna Spuntata
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