Il superfluo indispensabile #studio

Tutti, una volta o l’altra, nella vita, ce lo siamo chiesti, con un libro più ostico, una materia che non era nelle nostre “corde”, un insegnante che non sapeva incontrare, con le sue spiegazioni, il modo di funzionare del nostro apprendimento: «A che serve tutto ciò?».

Potremmo chiamarla motivazione, oppure scopo, o in mille altri modi, ma… perché studiare? È forse la tentazione funzionalistica  del nostro tempo, che, nella nostra testa, instilla una sorta di “graduatoria” per cui, in cima, mettiamo, istintivamente, la medicina, le biotecnologia, le materie ingegneristiche (quello che consentono all’uomo “il progresso”), seguono, se ci accorgiamo del loro valore imprescindibile, studi più umili ma di cui vediamo applicazione pratica (economia e finanza, ma anche architettura o studi legati alla gastronomia e alla chimica), solo in ultimo, quasi come una concessione, garantiamo spazio d’esistenza anche alla materie umanistiche, come gli studi filosofici, storici, letterari, artistici, linguistici. Quasi come si trattasse di un “bernoccolo” di pochi “fissati”, a cui concedere il giocattolino, purché non diano troppo fastidio. Che non sia solo una concezione popolare, ma anche istituzionale, è facile rilevarlo dalla distribuzione dei fondi destinati alla ricerca: se pochi sono i fondi destinati alla ricerca medica, irrisori sono gli esborsi per le altre discipline!

Io per prima, a lungo, ritenni che l’unico lavoro degno di nota fosse quello che faceva sudare la camicia.: Eppure, quello che san Paolo dice del Corpo di Cristo che è la Chiesa («Come il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo» – 1 Corinzi 12,12), si può applicare a qualunque corpo sociale, senza un eccesso di riduzionismo. E, siccome ciascuno è diverso, senza badare a discorsi quantitativi, ciascuno potrà trovare una collocazione in cui la propria scintilla illuminerà gli altri, senza togliere luce a nessuno.

È pur vero, tuttavia, che la società contemporanea non ci è d’aiuto nel trovare gusto nello studio: ricercando un risultato immediato e senza fatica, non ci incoraggia nella direzione della disciplina, dell’autocontrollo, del silenzio, della pazienza (tutti atteggiamenti ausiliari alla proficuità dello studio), supportata dal grande malinteso, che vede lo studioso nella sua versione macchiettistica: «un perfetto esemplare del tipo solitario, solo di fronte ai suoi libri o allo schermo del computer, con l’invito a “non disturbare” attaccato alla porta». Sfugge la necessità di una preparazione ad ogni evento che si realizza. Un centometrista si allena per anni per fare un record di pochi secondi. Talvolta, l’attesa ci pare oltremodo sproporzionata, considerando che «molti studi sono inevitabilmente noiosi». Per questo, è «un atto di speranza pensare che questa fatica darà i suoi frutti in modi che ora non possiamo immaginare»[1]. A volte, ci è chiesto, insomma, di esercitare quella speranza del contadino che vede già la spiga, quando gli occhi non vedono altro che il seme, ancora nascosto nelle profondità del terreno. Del resto, C.S. Lewis ci aiuta in quest’opera, diciamo così, profetica, portandoci un esempio che emerge dal passato: «Sono i piccoli cenacoli di amici che voltano le spalle al mondo quelli che realmente lo trasformano. La matematica degli egiziani e dei babilonesi era una scienza pratica e sociale, posta al servizio dell’agricoltura e della magia; ma la libera matematica dei greci, coltivata da amici che la consideravano un passatempo, ha avuto per noi un’importanza assai maggiore»[2].

Si narra infine, come Tommaso d’Aquino, di passaggio presso il convento di Bologna, fu una volta “reclutato” da un ignaro confratello, per sbrigare delle commissioni in città: il priore aveva ordinato di portare con sé “il primo frate che avesse incontrato” e il confratello aveva incrociato, senza riconoscere il famoso dottore, proprio frate Tommaso, nel chiostro, assorto in contemplazione. I cittadini, riconoscendo il maestro di teologia, si stupivano che un maestro di teologia arrancasse dietro al confratello, di cui faticava a tenere il passo. L’altro frate, alla scoperta, si trovò in imbarazzo; Tommaso, però, con semplicità, rispose che lui era, innanzitutto, un frate e che, se un confratello aveva bisogno, volentieri lo avrebbe accompagnato, in spirito di obbedienza[3]. Un piccolo aneddoto che ci aiuta a vedere come «lo studio è una strada alla santità» quando «apre i nostri cuori e le nostre menti verso gli altri»[4], diventando, così, un ulteriore strumento per una carità che si occupi di nutrire la mente, oltre alla pancia, in una visione integrale dell’essere umano, che rispecchia l’antropologia cristiana.

Senza dimenticare, poi, che il gusto, a volte risiede nelle cose stesse. Perché «l’amicizia è superflua, come la filosofia, l’arte, l’universo stesso (Dio infatti non aveva bisogno di creare)»: eppure, anche se «essa non ha valore ai fini della sopravvivenza», «è piuttosto una di quelle cose che danno valore alla sopravvivenza»[5].

Maddalena Negri


[1] T. RADCLIFFE O.P., Perenne sorgente della speranza (Lettera del Maestro Generale dell’Ordine, 1995)

[2] C.S. LEWIS, I quattro amori, p. 68, Jaca Book 2021

[3] G. DA TOCCO, Storia di san Tommaso d’Aquino, p. 154, Jaca Book, 2015

[4] T. RADCLIFFE, v. supra

[5] C.S. LEWIS, p. 70

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