«Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho chiesto. Perciò anch’io lo do in cambio al Signore: per tutti i giorni della sua vita egli è ceduto al Signore»
(1Sam 1, 27-28)
Forse, solo chi ci è passato riesce a penetrare davvero quale sia la profondità del dolore che colpisce chi non riesce a concepire un figlio, nonostante lo desideri con tutto il cuore. Perché tale era il desiderio di Anna, madre di Samuele. Il fanciullo, figlio del desiderio, figlio della grazia; ricevuto dopo un’estenuante attesa, condita di umiliazione e frustrazione, di fronte alla quale l’amore del marito Elkanà pareva impotente, incapace di raggiungere la profondità di quel dolore.
Un figlio, frutto d’amore, donato per amore. Il primo impatto, empaticamente parlando, è devastante. Un moto di protesta ci abita: come può Anna voler dare al Signore proprio il figlio che ha chiesto, con una preghiera fitta di lacrime, tanto da essere scambiata per ubriaca dal sacerdote Eli?[1] Non era autentica la preghiera di allora? Non ama ora, quel figlio desiderato allora?
Il brano liturgico si interrompe poche parole dopo, concludendosi il primo capitolo. Segue il secondo capitolo, che ci offre il cosiddetto “cantico di Anna”[2], che la Vergine doveva evidentemente conoscere, tante e tali sono le somiglianze tra i due brani biblici, accomunati dai sentimenti di materna gratitudine per un dono ricevuto senza merito, nella piena consapevolezza che non si tratta di un possesso, ma di un eminente dono, di cui si ha la responsabilità della cura, affinché diventi dono per qualcun altro.
Ricordo che, da piccola, faticavo a vedere l’umiltà nel Magnificat. Mi dicevo: “Dov’è l’umiltà se, ancora prima che nasca Gesù, già pensa che tutti si ricorderanno di lei?”. In realtà, il fulcro del testo risiede in questo versetto:
«Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome» (Lc 1, 49).
Qui risiede l’umiltà di Maria: si rende conto che è lasciando agire Dio in lei che può dispiegarsi tutta la potenza dell’Altissimo e non dando fondo a tutto il proprio impegno e alla propria bravura. In fondo, in questo consiste la santità: non contrapporsi all’azione della grazia, affinché ci guidi verso la volontà di bene di Dio.
Sì, è vero, sia quella di Anna, madre di Samuele, che quella della Vergine Maria, Madre di Dio, sono maternità insolite e inattese, con lo zampino di Dio. Ma non sono poi così dissimili ad ogni altra maternità (e paternità). Basti pensare anche solo alla fisiologia del parto, per cui il movimento necessario alla vita nascente è proprio quello di staccarsi dalla madre, che pure lo ha protetto e nutrito per nove mesi. Ma, alla nascita, è necessario, un distacco, un allontanamento: tutto ciò che ricevi, richiede di essere restituito, non posseduto. Perché solo ciò che doni è veramente tuo. La Scrittura, anche in questo caso, va a sviscerare un argomento spirituale che – al contempo – si rivela universalmente umano. Perché tutti siamo figli e tutti – in quanto adulti – siamo chiamati a diventare – pur in modo diverso a seconda del proprio stato di vita – padri e madri. È una chiamata universale ed ineludibile. Pena l’infelicità e una nostalgia di pienezza incommensurabile. Come vivere la maternità e la paternità? Antico e Nuovo Testamento sono armoniosamente d’accordo. Come un dono.
Facile a dirsi, difficile a farsi. È fascino, responsabilità, trepidazione, libertà. Sì: libertà, perché «il dono nasconde il suo donatore proprio per lasciare il recettore libero con ciò che è consegnato nelle sue mani»[3]. Ma anche: timore, riverenza, incertezza: perché questo accompagna – inevitabilmente – ogni libertà. Nessun figlio è dei genitori. Perché nessun figlio è un possesso. La chiamata alla genitorialità è una chiamata, profonda ed inequivocabile, alla gratuità. Ad un amore “a perdere”. Senza utile. Ricevere senza merito, disposti a restituire tutto, fino all’ultima goccia, senza tenere nulla per sé.
Come il Padre, che crea ogni cosa in modo gratuito, senza necessità e senza alcun utile.
Come l’Amore del Cristo crocifisso, che, rivestita la carne umana, percorse le polverose strade del mondo, non ha rinunciato a nulla di ciò che è umano (sofferenza, dolore, malattia; ma anche gioia, condivisione, convivialità, fraternità, solidarietà, amicizia) – ad esclusione del peccato.
Perché Dio si lascia incontrare «là dove non lo cerchiamo, là dove forse non vorremmo trovarlo: nella nostra carne, nel punto più debole della nostra carne»[4].
Maddalena Negri
Fonte immagine: Dailypost.co.uk
[1] Cfr. 1Sam 1,9-18
[2] Cfr. 1Sam 2, 1-10
[3] Christoph Theobald, La rivelazione, EDB, pp. 189-190
[4] Jean-Pierre Brice Olivier OP, Non avere paura del corpo, Qiqajon 2018, p. 7
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