Convocazione del Concilio
Il 15 giugno 1520, Papa Leone X aveva condannato 41 proposizioni di Martin Lutero. Tale condanna non aveva però sortito gli effetti desiderati, tanto che in molti ambienti della cristianità non era stata accettata e non le era stato attribuito il valore di una decisione definitiva. Il partito conciliarista, infatti, per quanto uscito definitivamente sconfitto dal Concilio Lateranense V, era riuscito a diffondere tra i cristiani l’idea, stimolata dal ricordo dei primi grandi concili ecumenici della Chiesa, secondo cui al fine di risolvere in modo irriformabile una controversia di carattere teologico fosse necessaria la decisione di un concilio ecumenico.
Sia coloro che erano fedeli a Roma che coloro che erano schierati dalla parte di Lutero a Norimberga (1523) fecero così richiesta di un “concilio libero e cristiano in terra tedesca” da tenersi entro un anno. Nelle intenzioni dei luterani, tale concilio avrebbe dovuto essere “libero” nel senso di “libero dall’ingerenza del papa”, anche se avrebbe dovuto essere convocato col suo consenso e con quello dell’imperatore; avrebbe dovuto essere “cristiano” nel senso che avrebbe dovuto “attenersi esclusivamente agli insegnamenti della Bibbia” e che anche i laici vi avrebbero dovuto avere voce; avrebbe dovuto tenersi “in terra tedesca”, nel senso che “avrebbe dovuto essere convocato in una città appartenente all’Impero e quindi meno soggetta al potere politico del papa”. Il tenore di questa formula di Norimberga spiega il motivo per cui papa Clemente VI fu molto reticente a convocare il summenzionato concilio, per quanto l’imperatore Carlo V premesse perché lo facesse; inoltre, le guerre tra l’imperatore e il re Francesco I di Francia (1521-29 e 1536-38) resero praticamente impossibile la convocazione di un concilio in territorio imperiale. In questo modo, i luterani guadagnarono tempo per stabilire, con il sostegno delle autorità secolari, una nuova organizzazione ecclesiastica e presentare una loro professione di fede alla Dieta di Augusta (1530), una professione che prendeva esplicitamente le distanze dal cattolicesimo. L’imperatore si sforzò di raggiungere un accordo con loro durante la Dieta suddetta, ma senza successo. Allora, in ragione di un accordo specificamente raggiunto con Carlo V a Bologna, Clemente VII si offrì di convocare un concilio, ma pose condizioni così numerose e onerose che, alla fine, non se ne fece nulla.
Fu il successore di Clemente, Paolo III a porsi come obiettivo fondamentale del proprio pontificato la convocazione di un concilio ecumenico; ma la convocazione concordata durante la visita di Carlo V a Roma nell’aprile del 1536 non andò a buon fine in ragione di alcuni problemi insorti col duca di Mantova, città che secondo il succitato accordo avrebbe dovuto ospitare il grande sinodo e che all’epoca era un feudo imperiale, soprattutto in merito alla richiesta da parte del suddetto di dislocare un’intera armata in città per proteggere le autorità ivi convenute. La data di convocazione era stata fissata per il 2 giugno 1536; fallito questo tentativo, il concilio fu trasferito a Vicenza, dove i delegati papali si recarono per constatare che nessun vescovo si era presentato. Alla Dieta di Ratisbona (1541) l’imperatore tentò nuovamente di sanare la frattura con negoziati diretti con i protestanti, ma invano.
Il 22 maggio 1542, il Papa convocò il Concilio a Trento, sede raccomandata dall’imperatore. Ma una nuova guerra tra Carlo V e Francesco I rese ancora una volta la situazione assai intricata e sette mesi dopo i vescovi presenti a Trento erano solo dieci. Il concilio dovette essere quindi sospeso e poté essere ripreso solo dopo la pace di Crepy (18 settembre 1544), con la quale il re di Francia si assunse l’obbligo di inviare allo stesso dei propri delegati. La bolla Laetare Jerusalem (19 novembre 1544) decretò per il 15 marzo 1545 la nuova convocazione del concilio a Trento. In tale bolla venivano fissati i tre obiettivi principali del sinodo: sanare la frattura confessionale, riformare la Chiesa e stabilire la pace per poter elaborare una difesa contro gli Ottomani. Il 22 febbraio 1545, il Papa nominò tre cardinali come suoi legati: gli italiani Giovanni Del Monte e Marcello Cervini, e l’inglese Reginaldo Pole (che sarà l’ultimo arcivescovo di Canterbury di confessione cattolica).
Il Concilio sotto Paolo III e Giulio III (1545-52)
Questa seconda convocazione inviata a Trento ebbe successo soprattutto perché il papa e l’imperatore avevano raggiunto un accordo su una procedura comune contro i protestanti tedeschi: la loro opposizione al concilio (e all’imperatore) doveva essere spezzata con la forza militare, quindi dovevano presentarsi al concilio e, se necessario, essere costretti a sottomettersi alle sue decisioni. Poiché non si concretizzò alcuna campagna imperiale contro la Lega di Smalcalda e non sembrava saggio far aspettare ancora a lungo i vescovi già presenti a Trento, il papa ordinò che il concilio si aprisse il 13 dicembre 1545, nella cattedrale di San Vigilio, sebbene fossero presenti solo 34 partecipanti con diritto di voto. Poiché non c’era stato un sufficiente lavoro preparatorio, le deliberazioni richiesero quasi due mesi per entrare nel vivo; il 22 gennaio 1546 fu presa la decisione di trattare le questioni dogmatiche e quelle legate alla riforma ecclesiale in parallelo.
Le discussioni sui punti dogmatici da parte dei padri conciliari con diritto di voto nelle congregazioni generali furono preparate nelle congregazioni teologiche (la prima si tenne il 20 febbraio 1546). Il primo punto che si decise di trattare fu la questione della Sola Scrittura. Il decreto pubblicato nella quarta sessione (8 aprile 1546) conteneva un elenco dei libri canonici dell’Antico e del Nuovo Testamento così come già precedentemente stabilito nel Concilio Ecumenico di Firenze (rifiutando quindi l’esclusione dal loro numero dei libri deuterocanonici voluta dai protestanti) e stabiliva che le tradizioni apostoliche sulla fede e sui costumi “conservate con successione continua nella chiesa cattolica” dovevano essere accettate “con altrettanta riverenza” della Sacra Scrittura. Non c’è dubbio che la maggioranza dei padri conciliari pensasse a un’integrazione materiale della Sacra Scrittura quando propose il principio della tradizione. Un secondo decreto dichiarava la Vulgata autentica, cioè apodittica quando citata in conferenze, dibattiti e sermoni. Alle critiche mosse a questo decreto a Roma, i legati del concilio risposero dichiarando che non si intendeva sopprimere lo studio dei testi originali (greco ed ebraico).
La proclamazione della Parola di Dio nei sermoni presupponeva una migliore formazione dei sacerdoti. Nella sessione 5 (17 giugno 1546), il concilio ritenne di potersi accontentare di rinnovare e ampliare il decreto promulgato nel IV Concilio Lateranense sull’istituzione di lettorati in grammatica e teologia nelle chiese cattedrali. La predicazione nelle domeniche e nei giorni festivi fu resa obbligatoria per tutti i vescovi e i pastori; una controversia tra vescovi e ordini esenti dalla loro giurisdizione relativa alla concessione della licenza di predicare fu risolta con una sentenza che stabiliva che nelle chiese degli ordini esenti era necessario solo il permesso dei superiori dell’ordine, mentre in tutte le altre chiese era necessaria la licenza dell’ordinario locale.
Nella medesima sessione, i padri conciliari condannarono in sei canoni sia la negazione pelagiana del peccato originale, sia l’insegnamento di Lutero secondo cui con il battesimo il peccato originale non viene cancellato, ma solo non imputato. La concupiscenza che rimane anche dopo il battesimo non è da ritenersi peccato in senso stretto, anche se è talvolta chiamata peccato (anche dall’Apostolo Paolo) perché proviene dal peccato e inclina al peccato.
La successiva discussione attorno alla dottrina della giustificazione durò sette mesi per l’impossibilità di risolvere la questione ricorrendo alle decisioni dei concili precedenti e per il desiderio di evitare prese di posizione definitive su controversie in corso all’interno delle scuole teologiche cattoliche (tomisti, scotisti, agostiniani). Inoltre, nel luglio del 1546 iniziò la guerra contro i protestanti, che a volte si avvicinò così minacciosamente alla città di Trento che si pensò a una sospensione o a un trasferimento del concilio. La prima bozza di decreto sulla giustificazione (presentata il 28 luglio) dovette essere ritirata perché incontrò la disapprovazione generale; la seconda bozza, commissionata da Cervini al generale agostiniano Girolamo Seripando (presentata il 23 agosto) fu infine adottata dopo ripetute revisioni nella sessione 6 (13 gennaio 1547). Per la prima volta, ai 33 canoni furono premessi 16 capitoli dottrinali per presentare la dottrina cattolica in forma positiva. Il concilio rispose al desiderio più ardente di Lutero affermando che la grazia di Dio è necessaria per l’intero processo di giustificazione, anche se tale processo non esclude le disposizioni alla grazia o la collaborazione del libero arbitrio. L’essenza della giustificazione non consiste nella sola remissione dei peccati, ma piuttosto nella “santificazione e nel rinnovamento dell’uomo interiore” mediante la carità soprannaturale. La fede non è l’unica condizione della giustificazione, sebbene ne sia il “principio, il fondamento e la radice”; nessuno può essere certo di essere in stato di grazia. La grazia della giustificazione aumenta attraverso l’osservanza dei comandamenti di Dio, che è un dovere imposto da Dio e non semplicemente un segno di giustificazione compiuta. La grazia della giustificazione può essere persa a causa del peccato mortale (non solo per la perdita della fede) e può essere recuperata attraverso il sacramento della penitenza. La vita eterna in Dio è una grazia, non una semplice ricompensa.
Il decreto sulla giustificazione fu adottato quasi all’unanimità, il decreto sull’obbligo di residenza per i vescovi e i pastori, presentato il 7 gennaio 1547 nella congregazione generale, incontrò invece una forte opposizione perché si limitava a sancire la pena per la mancata residenza per un periodo di sei mesi, cioè la privazione delle entrate, senza tenere sufficientemente conto delle ragioni della mancata residenza, che erano già state sottoposte all’esame di molti vescovi nell’estate del 1546: si trattava dell’intralcio alle attività episcopali da parte del potere secolare, della curia, ecc. Solo 28 dei 60 partecipanti con diritto di voto diedero al decreto il loro placet incondizionato in questa sessione, e solo nella congregazione generale del 25 febbraio si poté stabilire la sua adozione tenendo conto dei voti placet qualificati. I legati si sentirono obbligati a prendere in considerazione le richieste dei vescovi e ad ampliare il loro programma di riforma. Il decreto di riforma adottato nella sessione 7 (3 marzo 1547) eliminò una serie di abusi in materia di diritti di giurisdizione e di ordinazione; le prerogative dei vescovi furono estese fino a includere il diritto di effettuare visite anche ai benefici parrocchiali esenti.
La stessa sessione, dopo un’approfondita discussione che si protrasse dall’8 al 22 febbraio, determinò la nozione cattolica di sacramento e ne fissò il numero a sette. I sacramenti furono definiti come segni efficaci, che portano la grazia attraverso il rito stesso ex opere operato e non semplicemente in ragione della fede di chi li riceve. Il Concilio definì anche la dottrina sui sacramenti del battesimo e della confermazione.
Un’epidemia di tifo, probabilmente portata dal fronte di guerra tedesco, fornì l’occasione per trasferire il concilio da Trento, sfera di influenza dell’imperatore, a Bologna, sotto l’egemonia papale. Il decreto di trasferimento, adottato nella sessione 8 (11 marzo 1547), fu protestato da una minoranza di 14 vescovi, quasi tutti sudditi dell’imperatore, che rimasero a Trento. La maggioranza partecipò alla prima sessione di Bologna, tenutasi il 21 aprile 1547. I mesi successivi furono dedicati a un’intensa trattazione della dottrina sui restanti sacramenti e sul sacrificio della messa, sul purgatorio, sulla venerazione dei santi e sui voti monastici, sia nella congregazione teologica che in quella generale. Ma nemmeno uno dei decreti su queste questioni dogmatiche e sui relativi abusi poté essere adottato, perché il papa, pur respingendo gli inviti da parte dell’imperatore a far rientrare il concilio a Trento, non voleva spingere al limite la tensione con il suddetto. Dopo la presentazione da parte di Carlo V di una solenne protesta sia a Roma che a Bologna contro il cambiamento della sede del concilio, Paolo III decretò la sospensione dei suoi lavori (16 febbraio 1548). L’importanza dell’intervallo bolognese risiede nel suo fondamentale lavoro preparatorio per le successive discussioni conciliari.
Dopo la morte di Paolo III, il suo successore, Giulio III, cedette alle pressioni dell’imperatore e il 14 novembre 1550 trasferì nuovamente il concilio a Trento. L’unico legato papale era il cardinale Marcello Crescenzio, al quale erano associati come copresidenti il vescovo Sebastiano Pighino e il vescovo Luigi Lippomano. Il concilio si aprì puntualmente il 1 maggio 1551, ma iniziò a deliberare solo a estate inoltrata; tuttavia, grazie al lavoro svolto a Bologna, riuscì già l’11 ottobre 1551 (sessione 13) ad emettere l’importante decreto sull’eucaristia, che definiva la presenza reale di Cristo nelle specie consacrate in opposizione soprattutto alla dottrina di Zwigli, e la dottrina della transustanziazione, in opposizione allna dottrina della consustanziazione proposta da Lutero. Queste definizioni coprivano otto capitoli dottrinali e undici canoni. Il 25 novembre 1551 (sessione 14), seguì la definizione della dottrina sulla penitenza e sull’unzione degli infermi. Per quanto riguarda il sacramento della penitenza, il concilio distinse tre elementi: contrizione, confessione (almeno dei peccati mortali) e riparazione; l’assoluzione sacerdotale fu definita un atto giuridico. Per quanto riguarda l’unzione degli infermi, la questione principale era la natura sacramentale di questa azione, che Lutero aveva contestato. I decreti di riforma di entrambe le sessioni riguardavano i diritti e i doveri dei vescovi nei confronti del loro clero e regolavano la procedura nei tribunali ecclesiastici.
A questo punto, alcuni ambasciatori e teologi provenienti da terre protestanti (Brandeburgo, Wurttemberg, Strasburgo) si presentarono a Trento per la prima e unica volta. I protestanti si erano impegnati a partecipare al concilio alla Dieta di Augusta del 1548 seguita alla disfatta della Lega di Smalcalda, ma costoro posero delle condizioni che erano oggettivamente irricevibili per i cattolici. Tra queste, la revisione delle risoluzioni già prese dal concilio in modo da basarle esclusivamente sulla Scrittura e la subordinazione del papa al concilio. Le discussioni sul sacramento dell’ordine e sul sacrificio della Messa, iniziate il 2 gennaio 1552, non poterono essere concluse a causa della rivolta dei principi tedeschi alleati della Francia contro Carlo V. Questa scoppiò in primavera e costrinse a sospendere il concilio il 28 aprile 1552 (sessione 16).
Fino a questo punto i lavori del concilio non erano ancora giunti ad un risultato soddisfacente. Le definizioni dogmatiche erano incomplete e solo una parte delle controversie con i protestanti era stata risolta dottrinalmente; ancora meno soddisfacenti erano i decreti di riforma, che lasciavano senza risposta molte richieste urgenti dei vescovi. Nel 1553 Giulio III preparò un’ampia bolla di riforma per affrontare i molti problemi pratici irrisolti, ma morì prima di poterla pubblicare. Il suo successore, Paolo IV, che si era sempre opposto al concilio, convocò a Roma nel 1556 in alternativa allo stesso un’assemblea di riforma papale, ma questa fu sciolta dopo poco tempo a causa della guerra del papa contro la Spagna.
Il Concilio sotto Pio IV (1562-63)
La riapertura del concilio sotto il successore di Paolo IV, Pio IV, ebbe come causa scatenante la sempre più incipiente espansione del calvinismo in Francia. Si doveva trattare di un nuovo concilio, come auspicavano la Francia e l’imperatore Ferdinando I, o della continuazione delle sessioni precedenti, come chiedeva il re Filippo II di Spagna? Sebbene la bolla di convocazione, pubblicata il 29 novembre 1560, eludesse la questione, una risposta implicita alla stessa fu data dal fatto che nel corso dei negoziati aperti a Trento il 18 gennaio 1563, con 113 padri conciliari presenti con diritto di voto, si decise di riprendere la discussione dell’ordine del giorno interrotto nel 1551 e nel 1552, ossia la comunione sotto entrambe le specie e la dottrina del sacrificio della messa.
Presiedevano come legati i cardinali Ercole Gonzaga, Girolamo Seripando, Stanislao Osio e Ludovico Simonetta; il nipote del papa, il cardinale Marco Sittico Altemps, anch’egli nominato come legato, lasciò il concilio dopo poco tempo. L’11 marzo 1562 i legati presentarono 12 articoli di riforma, il primo dei quali riguardava il problema ancora irrisolto della residenza episcopale. Il dibattito verteva sull’opportunità che il concilio dichiarasse che i vescovi sono obbligati a risiedere nelle loro diocesi per diritto divino. I sostenitori dello ius divinum erano convinti che questo fosse l’unico modo per porre rimedio alla negligenza dei vescovi che risiedevano a corte o altrove rispetto al territorio affidato alle loro cure pastorali; gli oppositori vedevano in tale dichiarazione una minaccia al primato papale. La votazione del 20 aprile sull’opportunità di una dichiarazione del concilio sullo ius divinum dell’obbligo di residenza diede 67 placet, 35 non placet, mentre 34 padri conciliari rinviarono la decisione al papa. Pio IV proibì quindi di continuare le discussioni su questo tema. I cardinali Gonzaga e Seripando, ritenuti favorevoli alla soluzione dello ius divinum, caddero in disgrazia presso il papa e si pensò di richiamarli. La veemente reazione dei vescovi spagnoli, guidati dall’arcivescovo Pedro Guarrero di Granada, e dei vescovi imperiali contro la misura condannò il concilio all’inattività, finché Gonzaga promise, nella congregazione generale del 6 giugno, di continuare la discussione sull’obbligo di residenza quando si sarebbe discusso del sacramento dell’ordine. In questo modo, la crisi fu temporaneamente superata.
Il primo frutto delle rinnovate deliberazioni fu il decreto della sessione 21 (16 luglio 1562) sulla comunione sotto entrambe le specie, che poneva le basi dogmatiche (espresse nell’affermazione che sotto entrambe le specie si riceve Cristo intero e indiviso) per la risoluzione della questione pratica della concessione del calice ai laici. La questione pratica stessa, tuttavia, che era stata sollevata dall’imperatore Ferdinando I e dal duca di Baviera, fu rimandata in considerazione delle riserve espresse, soprattutto dagli spagnoli. Nella sessione successiva, la regolamentazione della questione pratica fu rimandata al papa, il quale, dopo la conclusione del concilio (16 aprile 1564), autorizzò il calice per i laici a determinate condizioni per diverse province ecclesiastiche della Germania e per i territori ereditari degli Asburgo.
I nove canoni e i nove capitoli dottrinali adottati nella sessione 22 (17 settembre 1562) sul sacrificio della messa sono, insieme al decreto sulla giustificazione, le definizioni di gran lunga più importanti dell’intero concilio. Tutti i riformatori, infatti, avevano negato il carattere sacrificale della messa e la sua abolizione era sempre stata il passo decisivo verso la separazione. Per la Chiesa cattolica la messa è il centro del mistero della salvezza, una commemorazione ma anche un’attualizzazione del sacrificio della croce; la messa non lede in alcun modo l’unicità del sacrificio del Calvario perché lo stesso sacerdote offre lo stesso sacrificio, anche se in modo diverso. Il Concilio stabilì che il sacrificio della messa può essere offerto in onore dei santi e per i fedeli, vivi e defunti. Un contestuale decreto di riforma obbligava i vescovi a eliminare gli abusi nella sua celebrazione.
Durante la successiva discussione sul sacramento dell’ordine (13-20 ottobre, 3-10 novembre) e sullo schema relativo all’obbligo di residenza presentato il 10 dicembre, si riaccese lo scontro tra i sostenitori dello ius divinum dell’ufficio episcopale e gli “zelanti” sostenuti dal legato Simonetta. I primi furono rafforzati da 12 vescovi francesi guidati dal cardinale Carlo di Guisa, giunti a Trento il 13 novembre. Tutti gli sforzi di Gonzaga e Seripando per mettere d’accordo le due parti sul controverso canone 7 del decreto sull’ordine sacro non ebbero successo. Il progetto di formula di Seripando, secondo cui i vescovi erano “stati istituiti nella Chiesa da Cristo” ma ricevevano la loro giurisdizione dal Papa, fu respinto non solo dagli “zelanti” ma anche da Roma; viceversa, i francesi resistettero al suggerimento di Roma di adottare la definizione del primato adottata dal Concilio di Firenze. Ancora una volta i negoziati si impantanarono e il concilio sembrò incapace di compiere progressi fruttuosi. Di Guisa, ormai leader indiscusso dell’opposizione, si recò dall’imperatore Ferdinando I a Innsbruck e lo convinse a richiamare l’attenzione del papa, con due lettere scritte il 3 marzo 1563, sulla gravità della situazione; contemporaneamente un ambasciatore speciale del re di Spagna si presentò a Roma con analoghe lamentele. Questo intervento delle potenze secolari accentuò la gravità della crisi conciliare.
La crisi fu superata solo dopo che i due legati maggiori, Gonzaga e Seripando, morirono (rispettivamente il 2 e il 17 marzo) e furono sostituiti dai cardinali Giovanni Morone e Bernardo Navagero. Morone, il miglior diplomatico allora a disposizione della curia e in possesso della piena fiducia del Papa, divenne il salvatore del concilio. Poco dopo il suo arrivo a Trento, si recò dall’imperatore a Innsbruck e dissipò i suoi timori che il papa non volesse né la riforma della Chiesa né la continuazione del concilio. Nel frattempo, il papa assicurò al re di Spagna, in diverse lettere personali, che era deciso a continuare il concilio, a confermare e attuare le sue decisioni, in breve “a fare tutto ciò che un buon papa e un buon cristiano possono e devono fare”. Questo pose fine all’intervento degli stati secolari negli affari del concilio. Nella stessa Trento, l’abilità diplomatica del cardinale Morone riuscì a convincere il cardinale di Guisa a un compromesso che prevedeva la semplice omissione del punto più importante della controversia dottrinale, lo ius divinum dell’ufficio episcopale.
Il decreto sull’ordine sacro (4 capitoli e 8 canoni) adottato nella sessione 23 (15 luglio 1563) definì il carattere sacramentale dell’ordinazione sacerdotale e l’esistenza di una gerarchia ecclesiastica basata sull’ordine divino. Il controverso canone 7, ora diventato canone 8, condannava la tesi secondo cui i vescovi nominati dal papa non sono vescovi legali e veri. Il decreto sull’obbligo di residenza, adottato contemporaneamente, iniziava con le parole “è un precetto divino che il pastore conosca il suo gregge”, ma si asteneva da qualsiasi affermazione riguardante il fondamento dell’obbligo di residenza episcopale, che era fatto specificamente per includere i cardinali.
La Sessione 23 ordinò anche l’istituzione di seminari episcopali per la formazione dei sacerdoti. In precedenza non esistevano né norme vincolanti né istituzioni adeguate per la formazione e l’educazione dei futuri sacerdoti; era stato lasciato a ogni singolo candidato il compito di acquisire la formazione necessaria per le sue funzioni sacerdotali. Il concilio si richiamò ad alcuni esempi di formazione organizzata già esistenti a Verona e a Granada, e prese atto del decreto del sinodo nazionale inglese (1556) che istituiva le scuole cattedrali come “asili” (seminaria) del clero e imponeva ai vescovi l’obbligo di erigere, con l’aiuto finanziario del clero diocesano, “collegi” per la formazione e l’educazione dei futuri sacerdoti.
La ragione più profonda delle tensioni vissute durante il concilio era il sospetto di molti vescovi non italiani che il papa e la curia volessero evitare qualsiasi riforma veramente consistente della Chiesa e preferissero accontentarsi di misure di tipo marginale, tali da non intaccare minimamente lo status quo. Ciò che i vescovi ritenevano necessario per la riforma fu messo per iscritto in memorandum. Il 6 aprile 1562, gli spagnoli avevano presentato una lista di questo tipo ai legati papali; e così avevano fatto i francesi. Il concilio, però, non aveva accolto queste petizioni. Ora Morone fece vagliare le stesse dal canonista Gabrielle Paleotti. Fu quindi elaborato un ampio testo, tenendo conto delle tradizioni curiali. La prima parte del medesimo fu messa in discussione il 3 settembre 1563. Il suo pensiero fondamentale era che la salvezza delle anime doveva essere la legge suprema. Pertanto, nella selezione dei vescovi, si doveva prestare attenzione a scegliere solo i più degni, coloro cioè che si riteneva che, sul modello di Cristo, sarebbero stati buoni pastori e annunciatori del Vangelo. I poteri episcopali, fino ad allora esposti a molte limitazioni, vennero di fatto ampliati; ai vescovi, ad esempio, nella loro qualità di delegati della Santa Sede, venne riconosciuto il diritto di correzione e di punizione su tutti gli ordini e i capitoli esenti, sulle istituzioni e sulle persone, nella misura in cui queste fossero impegnate nell’attività pastorale. I sinodi provinciali dovevano tenersi ogni tre anni, quelli diocesani ogni anno; anche gli esenti dovevano presentarsi ad essi e obbedire alle loro disposizioni. Fu introdotto il concorso per le nomine pastorali sul modello spagnolo, in modo da individuare i candidati più qualificati per le stesse.
La sessione 24 (11 novembre 1563), che adottò questa legislazione di riforma, emanò anche un decreto dogmatico e uno disciplinare sul matrimonio. Il primo difendeva il carattere sacramentale del matrimonio, da cui derivava il diritto della Chiesa di stabilire gli impedimenti; proclamava inoltre l’unità e l’indissolubilità del vincolo da questo stabilito. Il secondo decreto, solitamente chiamato Tametsi dalla sua parola iniziale, dichiarava che i matrimoni segreti non solennizzati in facie ecclesiae non solo erano illeciti, come stabiliva la legge canonica allora in vigore, ma anche invalidi: la validità di un matrimonio dipendeva dall’osservanza della prescrizione relativa alla forma, cioè che il matrimonio fosse solennizzato davanti a un pastore competente e a due o tre testimoni.
Morone fece ogni sforzo, in accordo con Pio IV e con il nipote Carlo Borromeo, responsabile della corrispondenza con i legati conciliari, per concludere il concilio prima di Natale; l’ambasciatore spagnolo, il conte Luna, con un piccolo gruppo di scontenti, cercò di prolungarlo, ma senza successo. La seconda parte del grande testo di riforma fu discussa nella congregazione generale. Il testo era diretto contro le eccessive ostentazioni di cardinali e vescovi e ricordava loro che dovevano essere modelli di santa umiltà (sanctae humilitatis exempla); nell’interesse dell’efficienza pastorale, furono apportate molte modifiche alla legge che regolava le cariche ecclesiastiche, con particolare riguardo al patronato, all’unione dei benefici e alle pretese sui benefici.
Lo schema di riforma dei regolari presentato il 20 novembre si limitava a stabilire alcuni principi certi riguardanti il noviziato, la professione e la vita comune, vincolanti per tutti gli ordini. Conteneva precauzioni per salvaguardare la libertà d’azione nella professione e un inasprimento della clausura per i conventi. Il divieto di concedere abbazie a sacerdoti secolari, soprattutto a cardinali, come commenda, era formulato in modo così vago da risultare inefficace. Una minoranza dei padri conciliari si lamentò della sua indeterminatezza, ma senza successo, e questo abuso non fu del tutto soppresso in seguito.
Oltre a questi decreti di riforma, all’ordine del giorno c’era una dichiarazione del concilio sulle indulgenze (contro le quali erano state indirizzate le 95 Tesi di Lutero che avevano dato il via a tutto il movimento della Riforma), sul purgatorio e sulla venerazione dei santi, delle loro reliquie e delle immagini. Anche la venerazione dei santi costituiva, infatti, un grande elemento di attrito con i protestanti. Poiché non era possibile, per mancanza di tempo, trattare questi articoli di fede in dettaglio con la stessa cura degli altri (nelle congregazioni teologiche e generali), Morone cedette alle insistenze del di Guisa e formò tre commissioni conciliari per elaborare brevi decreti che riproducessero l’essenziale della dottrina cattolica su questi punti e contenessero anche le misure di riforma necessarie proprio in questo ambito. Il concilio affermò che la Chiesa ha piena facoltà di concedere indulgenze; che esiste un luogo di purificazione per i defunti accessibile all’intercessione e al sacrificio dei fedeli; che è “buono e proficuo invocare i santi” e venerare le loro reliquie; che è lecito collocare immagini di Cristo e dei santi nelle chiese e venerarle, perché, come aveva definito il Secondo Concilio di Nicea: “l’onore che viene loro tributato è rivolto agli originali che esse rappresentano”.
Si pensava di pubblicare questi decreti e gli ultimi decreti di riforma il 9 dicembre e di concludere così il concilio. Ma quando nella notte tra il 30 novembre e il 1 dicembre un corriere portò la notizia da Roma che il Papa versava in gravi condizioni di salute, la sessione 25 fu anticipata al 3 dicembre. Durò due giorni perché i decreti di tutte le sessioni precedenti furono riletti, approvati e firmati. I firmatari furono 6 cardinali, 3 patriarchi, 25 arcivescovi, 169 vescovi, 19 procuratori di vescovi assenti e 7 generali di ordini religiosi. Al termine della sessione, il cardinale di Guisa acclamò il papa in carica e i suoi predecessori Paolo III e Giulio III, che avevano convocato e portato avanti il concilio. Tutti i padri conciliari si impegnarono poi a confessare la fede e la dottrina contenute nei decreti dogmatici e ad osservare le direttive dei decreti di riforma.
Dopo il concilio
Nella sua sessione finale il concilio aveva incaricato i legati di ottenere la conferma papale del lavoro in questo svolto. La stessa fu data il 26 gennaio 1564; dopo questa approvazione orale, fu preparata la bolla Benedictus Deus, che però fu pubblicata solo il 30 giugno 1564. Tutti i decreti furono approvati senza modifiche; il papa ne riservò l’interpretazione autentica alla Sede Apostolica e proibì la pubblicazione di commenti e glosse senza la sua approvazione. Il 2 agosto 1564, l’interpretazione autentica dei decreti fu affidata a una commissione di cardinali da cui nacque la Sacra Congregazione del Concilio.
Il concilio, nella sua sessione finale, aveva anche rimesso al papa diverse questioni che non era riuscito a trattare. Di conseguenza, Pio IV pubblicò il 24 marzo 1564 l’Indice riveduto dei libri proibiti; Pio V il Catechismo romano (1566), il Breviario romano (1568) e il Messale romano (1570). L’edizione riveduta della Vulgata apparve solo nel 1592 (con la cosiddetta Vulgata Sisto-Clementina). La riforma degli uffici della curia romana, da cui il concilio si era completamente astenuto, fu principalmente opera di Pio V e Sisto V.
Ancora più importante dell’integrazione dei decreti fu la loro attuazione. L’edizione ufficiale dei decreti stampata da Paolo Manuzio fu inviata ai vescovi; in questo modo essi raggiunsero anche l’America e l’Africa. Furono accettati e accolti nei sinodi provinciali e diocesani. Un fattore cruciale fu l’intervento dei papi a favore dell’attuazione dei decreti; nunzi e visitatori apostolici furono incaricati di supervisionare questa esecuzione. Visti i legami ancora stretti tra Chiesa e Stato, i rappresentanti papali si preoccuparono anche di far accettare i decreti ai governi. Gli stati italiani e la Polonia li accettarono incondizionatamente; la Spagna, “senza pregiudizio dei diritti del Re”. Francia e Impero, invece, non li accettarono in modo ufficiale.
Il Concilio di Trento fu la risposta della Chiesa cattolica alla Riforma protestante. Definì in modo netto ciò che distanziava la dottrina cattolica da quella protestante ed eliminò la disastrosa oscurità su ciò che era un elemento essenziale della fede e ciò che era solo un argomento di controversia teologica. Questa fede tridentina fu brevemente riassunta nella Professio Fidei Tridentina, prescritta il 13 novembre 1564.
I decreti di riforma del concilio furono un compromesso tra i desideri dei riformatori radicali e la tradizione curiale, una soluzione non ideale, ma utile. Ovunque siano stati applicati, essi hanno prodotto un rinnovamento e un rafforzamento della vita ecclesiale. La nuova pietà e la mistica cattolica, la rinascita della teologia scolastica, l’emergere della teologia positiva, l’arte e la cultura dell’età barocca dipendono dal Concilio di Trento o almeno sono inconcepibili senza di esso. Non si è trattato di una semplice restaurazione, ma di una vera e propria ventata di novità nel volto della Chiesa. All’odierno rimprovero secondo cui il Concilio di Trento avrebbe approfondito la spaccatura tra cattolici e protestanti e impregnato la Chiesa cattolica di spirito anti-protestante, si deve rispondere che c’era l’assoluta necessità di distinguere chiaramente la fede cattolica dalle confessioni protestanti. Un conseguente atteggiamento anti-protestante era difficilmente evitabile, date le circostanze. Il Concilio di Trento non rimane comunque una barriera insormontabile per il dialogo ecumenico, come spesso si sostiene, perché i suoi decreti dottrinali, pur non necessitando di revisione, sono suscettibili di integrazione.
Adriano Virgili
Alcuni riferimenti bibliografici:
Pietro Palazzini (a cura di), Dizionario dei concili, Roma, Città Nuova, 1963-1968, VI Voll.
Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei concili ecumenici, Torino, UTET, 1978
Pierre-Thomas Camelot, Paul Christophe, Francis Frost, I concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 2001
Klaus Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 2012
Vincenzo Lavenia (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età moderna (secoli XVI-XVIII), Roma, Carocci, 2015
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