“Un momento di sollievo”. L’Innominato fra sicumera e pentimento. #manzoni #promessisposi2023 #innominato.

I Promessi sposi sono una delle opere più iconiche della letteratura italiana e non è un caso che un intervento legislativo del 1870 ne abbia decretato l’obbligo di lettura a scuola.      All’interno del capolavoro manzoniano troviamo diverse figure ancora attuali: chi fa uso della prepotenza, come don Rodrigo; chi è disposto a tutto, perfino accettare una palese ingiustizia, pur di non veder scomodato la propria tranquilla quotidianità, come don Abbondio; chi non si arrende, ma urla a favore degli ultimi e lotta per un mondo migliore, come padre Cristoforo.

     La figura che però qui si vuole approfondire è quella dell’Innominato. Chi è? Quali sono i suoi tratti distintivi? Come spiegare la sua conversione? Quale significato può avere per noi un simile individuo?

     Il personaggio compare in un momento decisivo del racconto: è il XX capitolo e Lucia, dopo il tentato rapimento, è stata affidata alle cure della monaca di Monza, pertanto don Rodrigo decide di affidarsi proprio a questo losco figuro per portarla nel suo palazzo.

     L’Innominato ha un’origine storica ben precisa, infatti il personaggio è ispirato a Francesco Bernardino Visconti, feudatario della Ghiara d’Adda e messo addirittura al bando. Al pari della figura manzoniana anche il Visconti ha la fama di sanguinario ed è protagonista di una conversione per merito del cardinale Borromeo. Il nostro, come suggeriscono Bruscagli e Tellini, rappresenta “la versione manzoniana e cristiana di un topos, di uno dei miti della letteratura romantica europea, l’eroe del male: figura ribelle e luciferina, che sfida e sovverte tutte le leggi, umane e divine, ma pur nella sua negatività, pur nella sua maledizione, è nobile e maestosa”[1].

F. Hayez, Ritratto dell’Innominato.

Lo scenario, quindi, è quello di un individuo avvolto da un’atmosfera di terrore, ma è proprio tale contesto a offrire a Manzoni la possibilità di dimostrare fino a dove può operare Dio: l’Onnipotente arriva a toccare il cuore di uno dei personaggi più abietti dell’opera. Lo scrittore sembra volerci suggerire l’idea che al male e alla dannazione non si è condannati definitivamente, purché si lasci spazio alla voce di Dio e si dia concreta attuazione al suo messaggio di amore.  

      Nel capitolo XX del capolavoro dell’autore lombardo abbiamo il primo contatto con l’Innominato. All’inizio viene offerta la classica descrizione ricca di particolari e nella quale si nota il ricorso all’uso di un lessico che sembra voler suscitare sensazioni negative nell’animo del lettore (una valle angusta e uggiosa, il castellaccio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone). Dopo il colloquio con don Rodrigo, giunto lì per chiedere il rapimento di Lucia, abbiamo un primo momento di svolta ed è lo stesso autore a dire che “da qualche tempo cominciava a provare, se non rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze”[2]. Questa figura, quindi, così granitica nella sua aura di malvagità inizia a mostrare i primi cedimenti, come se qualcosa di nuovo fosse entrato nella sua vita. Di questo troviamo conferma nelle pagine del successivo capitolo, il XXI, quando viene descritta la notte dell’Innominato, quella della svolta nella vita di quest’uomo. Propedeutico al cambiamento è l’incontro con Lucia, durante il quale l’Innominato è colpito dalla serenità della fede della sua prigioniera, ma ciò che lo turba di più è la frase sull’infinita misericordia di Dio, capace di perdonare anche le sue numerose colpe per un’opera di bene. L’affermazione della donna si insinua nella mente del personaggio qui analizzato e diventa martellante nelle ore successive, tanto da tramutare le ore notturne, solitamente dedicate al riposo, in un lungo travaglio. La fuga in camera, quindi, diventa inutile, perché il soffio della voce di Dio non conosce barriere e segue l’Innominato, lo sconvolge e sembra togliergli la sicumera di un tempo. La realtà è che esiste qualcosa di nuovo in lui: rivedendo la sua vita e le sue scelleratezze, prova profonda repulsione e arriva anche a pensare al suicidio, ma è proprio in quel momento che risuonano di nuovo nella sua mente quelle parole sulla misericordia di Dio, che in precedenza lo avevano turbato. In questa occasione però, e qui si intravede plasticamente il suo cambiamento, gli danno una sconosciuta dolcezza: “Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni”[3]. Il buco nero della disperazione è stato superato e la grazia di Dio è riuscita a penetrare anche lì dove sembrava non esserci spazio alcuno. 

     Perché la conversione possa avere un concreto seguito, mettendo la sua potenza al servizio di attività benefiche, sarà necessario il gran passo, carico di umiltà, dell’Innominato: l’incontro con il cardinale Federigo Borromeo, il quale lo accoglierà tra le sue braccia come il padre del figliol prodigo della celebre parabola del Vangelo. 

     In conclusione, l’esempio dell’Innominato può certamente essere una speranza per quanti, oggi, confidano nella grazia di Dio, purché si abbia il cuore aperto all’Onnipotente, proprio come quello del personaggio qui analizzato.    

Nicola Lorenzo Pace


[1] R. Bruscagli – G. Tellini, Letteratura e storia. L’età del Romanticismo, Sansoni per la scuola, RCS Libri S.p.A., Milano 2005, pp.305. 

[2]A.Manzoni, I Promessi sposi a cura di T. Di Salvo, Zanichelli Editore S.p.A., Bologna 2003, p.461.

[3] A, Manzoni, Ivi, p.492-493.

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