Un fratello da custodire nel Pentateuco. #lanternadelcercatore #clubbersambrosiani

Spunti di riflessione sulla fraternità nel Pentateuco

«Come quando il fratello disse all’altro fratello: “Andiamo nei campi”» (S. Quasimodo)

Basta questo riferimento, all’autore siciliano, per evocare il brano biblico che mostra l’inizio di ogni violenza, a partire da invidia e risentimento.
Caino uccide Abele.
Non troviamo alcun riferimento alla balistica, alla dinamica precisa dell’uccisione, come siamo abituati dalla morbosa curiosità della cronaca, ma troviamo quanto basta. Il peccato più grave di un uomo contro un uomo, dai suoi prodromi fino alle sue estreme conseguenze, in quanto ferita delle relazioni.

“Se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (Gen 4,7)

Questo l’ammonimento che Dio stesso rivolge a Caino. Sottolineando come non vi sia una predestinazione al male. Piuttosto, al contrario, vi è la possibilità di scorgere i primi “segnali” e correre ai ripari. In questo senso, è da considerarsi questo tu lo dominerai: Dio ha intuito che il cuore di Caino è rabbuiato, inquieto, in subbuglio. Qualcosa inizia a fermentare, dentro di lui, sobbollendo lentamente; possiamo prestarci attenzione e pensare a strategie per contrastarlo, oppure ignorarlo, nell’illusione che possa essere un metodo utile.
In questa dinamica, ci troviamo, forse quotidianamente, anche noi. Il peccato non è mai un’azione immediatamente negativa, verso noi stessi o verso gli altri, ma si fa strada dalla nostra interiorità, fino ad estrinsecarsi, in modo lentamente progressivo. Ordinariamente, si distinguono cinque stadi di penetrazione della malizia nel cuore: 1) la suggestione, 2) il colloquio, 3) il combattimento, 4) il consenso, 5) la passione. L’ultimo rappresenta lo stadio più radicato nell’animo. Potremmo dire che è diventato un’abitudine. Abbiamo ormai giustificato il male come strada percorribile e non ne vediamo (più) la pericolosità.[1]

Troviamo, più avanti, nel primo libro della Bibbia, al capitolo 42, un’ulteriore narrazione, che mette in luce il lacerarsi, progressivo, della fraternità: la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli. Anche qui, prima ancora dell’atto lacerante, possiamo vedere un allontanamento progressivo tra i due poli in gioco (Giuseppe da una parte, i suoi fratelli dall’altra). Potremmo, anzi, azzardare che, in questa narrazione, possiamo addirittura trovare, in modo paradigmatico, le dinamiche del deterioramento di un rapporto, in particolar modo, all’interno di quello che è il tessuto familiare.
Partiamo dal principio. Le vicissitudini familiari di Giacobbe, padre (tra gli altri!) di Giuseppe, iniziano al capitolo 37 del libro della Genesi, quando il patriarca si stabilisce nella terra di Canaan. Già nei primi versetti[2] veniamo a sapere di una predilezione di Giacobbe per Giuseppe, motivata dal suo essere “figlio della vecchiaia”. È  il padre stesso ad alimentare questa preferenza e la conseguente invidia degli altri fratelli, regalandogli un abito particolarmente prestigioso (una tunica con le maniche lunghe): nei versetti successivi[3], vedremo ricomparire quest’abito, indossato in modo decisamente inopportuno (inviato a dare una mano ai fratelli, al lavoro nei campi, non sembra essere l’abbigliamento più adatto allo scopo).
Successivamente, è lo stesso Giuseppe a riferire i propri sogni ai fratelli maggiori. Che, senz’alcuna sorpresa, li ascoltano malvolentieri e con accresciuto astio nei confronti. Cambia, infatti, la simbologia (gli astri oppure i covoni), ma il significato profondo non è di molto difforme, tra i vari che narra loro: sono tutti segnati dal predominare della sua figura, rispetto ai fratelli e persino ai suoi familiari, tanto che il padre stesso arriva a dissuaderlo dal raccontarli. I fratelli «lo odiarono ancor più, sia per i suoi sogni, sia per il modo di raccontarli» (Gn 37,8); la reazione del padre è differente: rimaneva a pensarci, questo “nuovo Giacobbe” (dopo l’episodio di Yabbok[4]) ci mostra un patriarca riflessivo, che pone attenzione ad ogni segno che Dio pone sul suo cammino. Compresi i sogni del figlio Giuseppe.

La domanda di Giuseppe («Cerco i miei fratelli»[5]), poi, mentre è ancora alla loro ricerca, letta con il senno di poi, ha il sapore della rivelazione struggente di quel fiume carsico, che accompagna l’intera narrazione, cioè un rapporto fraterno “nato male” e proseguito peggio, ma – non per questo – inemendabile.

Giuseppe ha dalla sua, pur non sapendolo, l’intercessione di due dei suoi fratelli. Ruben e Giuda. Ruben convince i fratelli a non ucciderlo, ma a lasciarlo in una cisterna (scelta che richiama la sorte di Geremia[6]), con l’intenzione di recuperarlo in un secondo momento[7]; Giuda, causando nel lettore che conosce il Nuovo Testamento un deja – vu con l’omonimo evangelico[8], propone, invece, di venderlo, di modo da poterne avere un guadagno e l’occasione propizia ha le sembianze di alcuni mercanti madianiti. Tramite loro, arriverà in Egitto, venduto a Potifar, uomo di fiducia del faraone[9]. Non mi soffermo sul seguito, celeberrimo: le avances della moglie del suo padrone, la strenua difesa della purezza da parte di Giuseppe, l’ingiusta detenzione e la scoperta della ritrovata utilità della sua capacità di interpretare i sogni, grazie alla quale riacquista la libertà[10].

È a questo punto che il tempo si fa propizio. Giuseppe l’ebreo stimato dagli egiziani, per aver provveduto, in modo accorto, a far scorte di cibo anche per il tempo di carestia, non dimentica le proprie origini. Mentre da ogni dove cercavano cibo in Egitto, arrivano anche i suoi fratelli. È lui, la “vittima” a riconoscerli. Probabilmente, la differenza è segnata dalla lunga permanenza in carcere, perché, al contrario, Giuseppe sembra aver compreso i propri errori, o, quanto meno averci riflettuto. Ecco perché non si fa riconoscere subito, ma li mette alla prova: prima li accusa di essere spie, poi chiede di far arrivare Beniamino, tenendo “in ostaggio” Simeone, in seguito, quando questi li accompagna (nonostante le iniziali riluttanze del padre e le garanzie di Giuda) lo trattiene, accusandolo di furto. I fratelli sono anzitutto stupiti ed increduli e provano a spiegare la loro innocenza, sottolineando di aver restituito anche quei soldi che Giuseppe aveva lasciato loro dalla prima spedizione: perché avrebbero dovuto quindi rubare la coppa?
In modo pragmatico, il primo passo “educativo” di Giuseppe nei confronti dei fratelli passava proprio attraverso il denaro. Glielo aveva già restituito una volta e neppure la seconda lo volle: non era il loro denaro che voleva. Voleva loro!

Proprio in questo momento [11] avviene la svolta, che porta Giuseppe alla commozione. Dapprima la proposta è di rimanere tutti come schiavi, come detenzione punitiva. In seconda battuta, Giuda decide di sacrificarsi, in luogo del fratello Beniamino, spiegando a Giuseppe i motivi che lo spingevano a ciò[12]. La conversione (metanoia) è avvenuta: innanzitutto, è avvenuto un coinvolgimento collettivo, cioè la consapevolezza che il destino di un fratello era legato a quello degli altri; in un secondo momento, si è poi dispiegata la comprensione della gratuità, in senso più profondo, che è la disponibilità a dare la vita per l’altro. Quest’ultimo passaggio, in cui non c’è più l’uguaglianza esatta tra due vite, diventa prefigurazione di Cristo, che è disposto a perdere la propria vita, pur di guadagnare la nostra, di ciascuno di noi. Perché “pur essendo di natura divina”[13], ha dimenticato la sua priorità ontologica, regalando uno sguardo condiscendente alla nostra umanità, donando la propria vita per noi.

“Sono forse io custode di mio fratello?” domanda Caino[14]. Nel medesimo solco, s’inserisce anche l’interrogazione di Mosè nel deserto[15], spossato dall’incalzare di un popolo, che è diventato un fardello sempre più pesante da trasportare, nel difficile cammino, tra i mille ostacoli che il deserto impone all’incedere, impedendone rapidità e leggiadria. Di fronte alla fatica ed alla stanchezza, che sia fisica oppure mentale, la reazione più umana e naturale è dire “basta”: ognuno per sé e Dio per tutti. Chi me lo fa fare di farmi carico di altri?
Eppure, la risposta è sì. La risposta che ci serve è sì. Quella che nutre la nostra vita, invece di inaridirla.
Custodire il fratello è necessario per custodire sé. Perché, senza la custodia del fratello, troviamo l’indifferenza: prima della violenza, sotto la violenza, accanto alla violenza, cova l’indifferenza. E, in quel calore innaturale, trova spazio il risentimento. È questo l’habitat naturale per cui, come un esperto predatore, attende in agguato per potersi approfittare della nostra distrazione e prendere il sopravvento.

Pietra o fionda, carlinga o meridiana di morte, a volte le ali maligne si dispiegano in una lingua biforcuta, volta ad evidenziare solo il male del fratello. Perché la prima modalità in cui l’invidia si esterna è proprio la parola: tagliente, offensiva, umiliante.

Abbiamo tutti luci e ombre; nessuno è perfetto, abbiamo tutti a patire dalle conseguenze del peccato, nella quotidiana concupiscenza, che mette in difficoltà la nostra volontà di compiere il bene.  A diminuire le ombre, tuttavia, talvolta, basta trovare il coraggio di parlarsi con schiettezza e assertività. Aiutandosi, reciprocamente, ad essere migliori. Unendo così, diversi fini buoni in un’unica azione: migliorare se stessi e (provare a) migliorare gli altri, in quello che altro non è che il tentativo di restituire vigore alla linfa vitale della fraternità che ci lega.

Concludo con un’immagine. Si racconta che, una volta, un uomo vide una bambina trasportare sulle spalle il fratellino e commentò che stesse trasportando un pesante fardello. Lei scosse il capo, negando potesse essere pesante: “Non è un fardello, è mio fratello!”. Sembrerà melenso, ma ci ricorda che, solo in una prospettiva di fraternità, è possibile gettare una luce misericordiosa sugli aspetti più spigolosi e fastidiosi del carattere di chi ci vive a fianco.

Maddalena Negri


[1] Con riferimento alla sapienza degli antichi monaci, ne parla T. Spidlik, su Youtube e, per approfondimento, si può opportunamente leggere, dello stesso autore, L’arte di purificare il cuore (Lipa, 1999).

[2] Gen 37, 3-4: I suoi fratelli, vedendo che il loro padre amava lui più di tutti i suoi figli, lo odiavano e non riuscivano a parlargli amichevolmente

[3] Gen 37, 12 e ss.

[4] Gen 32, 23-30

[5] Gn 37,16

[6] Ger 38, 6

[7] Gn 37,21-22

[8] Cfr. Gv 12,5-6

[9] Gn 37,36

[10] Gn 39,1 – 41,57

[11] Gn 44

[12] Gn 44, 18-34

[13] Fil 2,6

[14] Gn 4,9

[15] L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: “Portalo in grembo”, come la nutrice porta il lattante, fino al suolo che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? (Num 11,12)


Bibliografia di riferimento:

M. SETTEMBRINI, Nel Pentateuco. Introduzione ai primi cinque libri della Bibbia, San Paolo, 2022


Immagine: Wikimedia

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