
L’iconoclastia
Con il termine iconoclastia (letteralmente “rottura delle immagini”) ci si riferisce all’opposizione estrema alla rappresentazione della figura umana e alla venerazione delle immagini. L’origine esatta del movimento iconoclasta in seno alla Chiesa cristiana è oscura. I suoi sostenitori asserivano di basarsi sul Primo Comandamento (Es 20,4-5) e su altri passaggi biblici; costoro erano sinceramente preoccupati che la crescente devozione verso le icone tendesse a sfociare verso vere e proprie forme di idolatria. Essi sostenevano che solo l’Eucaristia, gli edifici della chiesa e il segno della croce fossero pienamente santi, poiché erano stati consacrati da Dio direttamente o attraverso un sacerdote. I loro oppositori, detti iconofili, per contrastarli facevano riferimento a passi biblici che mostravano l’approvazione delle immagini e sostenevano che il Comandamento non era inteso per i cristiani, ma solo per gli ebrei, i quali ai tempi di Mosè erano inclini all’idolatria. Essi sostenevano che le icone e le reliquie erano efficaci veicoli del sacro.
Un certo disagio nei confronti delle immagini sacre fu espresso nel IV secolo da Eusebio, il quale, seguendo Origene, negò che l’immagine di Cristo potesse essere raffigurata. Della stessa opinione fu Epifanio di Salamina, il quale sosteneva che le immagini nelle chiese distraevano i cristiani da un approccio al sacro puramente spirituale. Tuttavia, a parte un movimento iconoclasta di breve durata in Armenia tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, non ci furono ulteriori discussioni sulla questione fino all’VIII secolo.
Nel 724, due vescovi dell’Asia Minore, Costantino di Nacolia e Tommaso di Claudiopoli, sostenuti dall’imperatore Leone III e da alcuni dei suoi consiglieri, condannarono la venerazione delle immagini, citando le tradizionali proibizioni bibliche. Essi furono osteggiati dal patriarca Germano I, ma nel 726 l’imperatore manifestò il proprio sostegno a questo movimento ordinando di togliere la figura di Cristo che sormontava la porta del palazzo imperiale. Infine, in un’udienza solenne, fece delle pressioni così insistenti su Germano perché questi approvasse un decreto contro le immagini dei santi da costringerlo a dimettersi (7 gennaio 730). La natura e la formulazione esatta del decreto sono sconosciute, così come la sua applicazione. La conseguente distruzione di icone, croci e reliquiari storici sembra essersi concentrata principalmente su oggetti mobili che si prestavano a manifestazioni di devozione (baciare, circondare con lampade votive, ecc.). La distruzione non fu né generale né ugualmente intensa in tutti i luoghi. La presunta ostilità di Leone al culto della croce è probabilmente un’invenzione successiva; non c’è infatti alcuna prova che egli si opponesse di per sé al culto dei santi o delle reliquie.
I principali oppositori della politica di Leone erano i monaci e i membri del servizio civile di Costantinopoli. L’azione repressiva dell’imperatore nei confronti degli oppositori si limitò all’esilio, alla confisca e, nel peggiore dei casi, alla mutilazione. Non ci sono prove certe di alcun martirio in questo periodo, anche se abbondano racconti di carattere puramente leggendario in tal senso. L’alto clero si sottomise all’imperatore, accettando il nuovo patriarca Anastasio, anche se le direttive imperiali contro le immagini non furono sempre osservate con particolare zelo. Fuori dalla capitale Giovanni Damasceno, portavoce del patriarca di Gerusalemme, scrisse tre difese delle immagini sacre, mentre il papato, ancora politicamente soggetto all’impero bizantino, reagì vigorosamente contro la politica imperiale. I papi Gregorio II e Gregorio III scrissero lettere di protesta, e il sinodo romano del 731 espresse la sua ferma opposizione verso l’iconoclastia. La tensione fu ulteriormente esacerbata dalla decisione di Leone di rimuovere Illirico, Sicilia e Calabria dalla giurisdizione papale. Questa decisione contribuì a spingere il papato nell’orbita politica dei franchi, che allora erano la potenza emergente in Occidente.
Gli storici sono divisi sulla motivazione di base di Leone. Non c’erano argomentazioni teologiche particolarmente articoalte per sostenere l’iconoclastia, come quelle che furono poi elaborate dai protestanti dopo la Riforma. Alcuni sostengono che determinante sarebbe stata l’influenza della cultura islamica: l’imperatore era consapevole dell’opposizione dell’islam alla figura umana nell’arte e, in qualche modo, potrebbe essere stato influenzato dal rigore degli arabi contro le immagini. Inoltre, in Asia Minore, che era allora la principale fonte di reclute dell’esercito, c’erano molti gruppi sfavorevoli alle immagini; l’intera Asia Minore divenne infatti la principale enclave dell’iconoclastia e l’esercito ne divenne il più fanatico sostenitore. Altri hanno suggerito motivazioni politiche, ma l’opposizione dell’imperatore al monachesimo fu un risultato, non una causa dell’iconoclastia, e non ha alcun fondamento l’ipotesi secondo cui in realtà l’imperatore puntasse ad appropriarsi dei beni di quei monasteri di cui le disposizioni iconoclaste avrebbero causato la chiusura. C’è da notare che la famiglia di Leone III proveniva da una regione monofisita e che l’iconoclastia era vista da molti come la conclusione logica, anche se estrema, del cristianesimo monofisita. Tuttavia, la ragione più probabile che spinse l’imperatore a sostenere l’iconoclastia fu il momento di estrema crisi che stava vivendo Bisanzio: nel 726 c’era stata una grave eruzione vulcanica a Thera e l’impero aveva subito gravi perdite territoriali a causa delle invasioni degli slavi, degli avari e degli arabi. Le lettere del patriarca Germano e le cronache di Teofane e Niceforo testimoniano a favore dell’ipotesi che Leone considerasse questi mali come un segno del dispiacere di Dio per la venerazione delle immagini; lì dove invece l’islam, che propugnava un rifiuto assoluto delle immagini, stava conoscendo un’espansione che non sembrava aver precedenti nella storia.
Per quanto l’iconoclastia fosse stata imposta per decreto imperiale, questa non godeva di alcun sostegno teologico o canonico in senso stretto, il successore di Leone III, Costantino V Copronimo, cercò di far condannare le immagini dalla Chiesa e di imporre l’iconoclastia come un dovere di coscienza oltre che un obbligo civile. Verso il 752 elaborò una teoria originale sulle immagini, che sviluppò in trattati e che, come suo padre, difese nelle udienze pubbliche. Due anni dopo la fece ratificare in un concilio generale dell’episcopato bizantino tenutosi nel palazzo suburbano di Hieria dal 10 febbraio all’8 agosto.
La definizione di iconoclastia preparata da questo concilio – che fu proclamato “ecumenico” – è stata conservata negli Atti del successivo Secondo Concilio di Nicea. Gli iconoclasti denunciarono tutte le rappresentazioni pittoriche come idoli e dichiararono che qualsiasi rappresentazione di Cristo era falsa perché doveva necessariamente o separare le due nature di Cristo (che era stato l’errore di Nestorio) e creare così un quarto membro della Trinità, o circoscrivere la persona del Verbo, che di suo non ha limiti (quella confusione tra umanità e divinità di Cristo che era stato l’errore dei monofisiti). L’Eucaristia era l’unica immagine appropriata di Cristo. Contro queste tesi, gli iconofili sostenevano che alla luce dell’Incarnazione, in cui Dio si era rivelato nella carne, era possibile realizzare delle rappresentazione pittoriche di Cristo. Negare che Cristo avesse assunto una forma circoscrivibile sarebbe stato negare l’Incarnazione, lo strumento della salvezza dell’uomo.
Gli iconoclasti rifiutavano le rappresentazioni dei santi per ragioni morali: la venerazione di tali immagini equivaleva alla venerazione della materia morta. Gli iconofili rispondevano che essi veneravano non le immagini in quanto tali, ma i soggetti rappresentati nelle immagini. Il Concilio di Hieria, tuttavia, pose dei limiti rigorosi a qualsiasi estensione delle sue definizioni per includere una negazione completa della venerazione dei santi o delle reliquie. Basò le sue definizioni sulla Scrittura e sulla tradizione e finì con l’anatematizzare i campioni greci delle immagini, cioè Germano, Giovanni Damasceno e Giorgio, un monaco di Cipro.
Artisticamente queste decisioni si tradussero in una sostituzione delle scene bibliche e agiografiche con decorazioni di carattere neutro e la sostituzione delle figure monumentali nelle absidi con una croce. All’inizio, le autorità mostrarono una certa moderazione nell’attuare le decisioni contro le immagini e la repressione violenta degli oppositori non ebbe luogo che a partire da una dozzina di anni dopo. Nel 761 o 762 il monaco Andrea di Creta fu giustiziato, e nel 756 la persecuzione scoppiò in sul larga scala. Stefano il Giovane promosse un movimento ostile al concilio di Hieria e tra i suoi seguaci raccolse molti esponenti dell’alta sicietà costantinopolitana. Lo stesso patriarca Costantino II fu tiepido nell’applicare gli editti imperiali, e l’imperatore arrivò sempre più a sospettare una congiura o un complotto nei suoi confronti. Il 20 novembre 765, Stefano fu ucciso dal popolo; poco dopo l’imperatore impose un giuramento di fedeltà per promuovere la politica ostile alle immagini. Al suo ritorno dalla campagna estiva del 766 umiliò tutti i monaci con una grottesca parata nell’ippodromo; attaccò i membri del suo stesso entourage e gli alti funzionari; infine destituì il patriarca e lo fece decapitare l’anno successivo. Contemporaneamente mise dei generali di provata fedeltà al comando di aree militari in Asia Minore, il più famoso dei quali, Michele Lacanodracone, si distinse nella regione di Efeso per la feroce repressione del monachesimo e la confisca delle proprietà monastiche.
L’iconoclastia si era così evoluta, in forza delle circostanze, in una guerra contro monachesimo. Non è chiaro se i monaci furono presi di mira da Costantino perché resistevano alla sua politica imperiale in modo più robusto o se egli vedeva il monachesimo come un’istituzione dannosa per l’impero. I nemici dell’imperatore Costantino gli attribuirono attacchi alla maternità divina di Maria e all’intercessione dei santi, ma non ci sono molte prove che queste accuse siano in qualche modo fondate. Secondo la Vita di Santo Stefano il Giovane, Costantino sostituì le immagini nella chiesa della Vergine a Blacherne con mosaici di alberi, uccelli e animali. Tuttavia, le immagini di Cristo e dei santi presenti a Santa Sofia non furono toccate fino al 768-769, quando il patriarca Nicola I le fece rimuovere. Di questo periodo di persecuzione sono stati conservati i nomi di quattro monaci martirizzati che sono commemorati nei calendari liturgici il 20 o 28 novembre: Pietro, Stefano (il più noto), Andrea e Paolo.
Convocazione e svolgimento del Concilio
Nel 775, a Costantino V, successe Leone IV il quale allentò notevolmente la pressione iconoclasta. La morte prematura di costui (8 settembre 780), però, sembrò dovesse far naufragare in modo definitivo ogni speranza di ripristinare la venerazione delle immagini in Oriente. L’intero apparato statale e le alte cariche della Chiesa erano nelle mani di fervidi sostenitori dell’iconoclastia; l’esercito, che l’imperatore Costantino V Copronimo, il più appassionato iconoclasta di tutti, aveva così spesso condotto alla vittoria, era rimasto gelosamente devoto alla sua memoria e, di conseguenza, rappresentava apparentemente un invincibile baluardo iconoclasta. Tuttavia, quando l’imperatrice Irene assunse il potere nel 780 in nome di suo figlio, Costantino VI, che era ancora minorenne, si mostrò subito favorevole ad un ripristino della venerazione delle immagini in tutti i territori che ricadevano sotto la sua amministrazione. Un complotto, vigorosamente represso, le permise di sbarazzarsi di diversi ministri ed alti funzionari contrari alla venerazione delle immagini. Costei si mise allora in contatto con papa Adriano I, informandolo dell’intenzione del governo bizantino di convocare un concilio generale e chiedendogli di inviare rappresentanti debitamente autorizzati. Inoltre, per rimuovere il principale ostacolo a tale concilio, il patriarca Paolo IV fu sostituito come da Tarasio, già segretario dell’imperatrice stessa.
L’ordine di convocazione del Concilio fu promulgato in tutto l’Oriente all’inizio del 786. Roma aveva accolto con favore questo passo da parte dei greci e inviò una delegazione di due membri del clero romano: un chierico secolare e un religioso, cioè l’arciprete Pietro e l’igumeno Pietro del monastero greco di San Saba. Non c’erano altri rappresentanti dell’Occidente. L’episcopato bizantino inviò 350 dei suoi membri. Il 1º agosto 786, il Concilio si aprì nella stessa Costantinopoli, nella basilica dei Santi Apostoli, alla presenza dei sovrani, ma elementi della guardia imperiale fecero irruzione nella chiesa, costringendo il Concilio a sciogliersi. A questo atto di insubordinazione delle sue truppe, il potere imperiale rispose con lo scioglimento ed il trasferimento delle unità responsabili dello stesso e con il trasferimento del Concilio a Nicea in Bitinia, dove si aprì il 24 settembre 787.
Le sessioni, otto in tutto, durarono tre settimane e tutte, tranne l’ultima, si tennero nella chiesa di Santa Sofia a Nicea. A presiedere il sinodo c’era il patriarca Tarasio, non i legati papali, i quali però firmavano tutti i documenti per primi ed erano sempre elencati per primi.
La prima decisione che il Concilio si trovò a dover prendere fu quella di stabilire se i vescovi iconoclasti presenti avessero o meno il diritto di partecipare all’assemblea. Ci vollero le prime tre sessioni per risolvere tale scottante questione, poiché i monaci – numerosi e attivi – si opponevano con determinazione alla decisione del Concilio di riconoscere gli iconoclasti una volta che avessero abiurato la loro eresia davanti all’assemblea. Le due sessioni successive (1 e 4 ottobre) stabilirono la legittimità della venerazione delle icone attraverso un esame della tradizione scritturistica e patristica. La sesta sessione (5 e 6 ottobre) trattò la richiesta di Roma di condannare il sinodo tenutosi a Hieria nel 754. La settima sessione (13 ottobre) costituì il culmine del sinodo, fissando i termini del decreto dogmatico che proclamava la fede nell’efficacia dell’intercessione dei santi e nella legittimità della venerazione delle icone o delle statue, cioè del culto di dulia in opposizione al culto di latria, dovuto solo a Dio:
Definiamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del signore Dio e salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’immacolata signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti. Infatti, quanto più frequentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio di ciò che esse rappresentano e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si tratta, certo, di una vera adorazione, riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all’immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L’onore reso all’immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto.
A questa definizione dogmatica furono aggiunti ventidue canoni disciplinari. Tra le disposizioni più significative in essi contenute troviamo le seguenti: l’elezione dei vescovi doveva essere libera da ogni ingerenza di carattere secolare; ai vescovi era fatto divieto di raccogliere denaro; si stabilì l’obbligo di indire dei sinodi locali ogni anno per discutere dei problemi delle singole regioni; i presbiteri non potevano lasciare la loro parrocchia senza l’approvazione del loro vescovo, non potevano reggere due parrocchie contemporaneamente e dovevano vestirsi decorosamente, ma senza sfarzo; monaci e monache dovevano condurre vite nettamente separate.
L’imperatrice, per evidenti fini politici, desiderava associare il popolo della capitale alle decisioni del Concilio e decise quindi di chiudere lo stesso con una sorta di apoteosi, facendo venire tutti i padri a Costantinopoli per un’ottava sessione nel Gran Palazzo imperiale. Il 23 ottobre tutti si riunirono davanti alla sovrana, che si rivolse direttamente all’assemblea e fece proclamare il decreto di fede; firmò poi quest’ultimo davanti a suo figlio, Costantino VI, e ai legati romani. Gli atti del Concilio divennero legge dello Stato; la loro stretta applicazione doveva assicurare alla Chiesa bizantina una tregua di circa 30 anni. Il Concilio segnò così la fine del primo periodo di iconoclastia.
Dopo il Concilio
Anche se l’Oriente fu virtualmente riportato alla pace dal Concilio, l’apparizione degli atti in Occidente causò considerevoli problemi. Non è molto probabile che il testo effettivo degli atti sia stato presentato a papa Adriano I per l’approvazione, anche se il Patriarca Tarasio gli aveva riferito ciò che era avvenuto nel Concilio. Gli stessi atti giunsero alla Santa Sede in una traduzione latina contenente gravi errori su punti essenziali, arrivando persino a rappresentare i padri di Nicea come se dicessero il contrario di ciò che avevano effettivamente definito.
Carlo Magno, tenuto all’oscuro di quanto era accaduto in Oriente e ancora dolorante per la ferita alla sua autostima causata dalla rottura del fidanzamento di sua figlia Rotrude con il giovane imperatore Costantino VI, sottopose ai teologi della sua corte, tra cui Alcuino, la traduzione degli atti che il papa gli aveva inviato. Lo stupore dei suoi esperti fu tale che il monarca commissionò una confutazione ufficiale degli stessi, che vide la luce nei famosi Libri Carolini. Non pago, Carlo convocò a Francoforte un grande concilio di 350 vescovi che, in presenza dei legati papali, condannarono il Concilio di Nicea. Un’ambasciata speciale portò a Roma un estratto dei Libri Carolini, così come una lettera in cui il sovrano franco pregava il papa di negare la sua approvazione al Secondo Concilio di Nicea. Nel 794 il papa rispose con un memorandum che confutava in dettaglio le lamentele della corte franca, anche se con moderazione. Ma la Santa Sede non diede ancora la sua approvazione agli atti conciliari, in quanto Costantinopoli si era rifiutata di dare soddisfazione a Roma su altre questioni, come quella relativa alla restituzione alla sua giurisdizione di quei territori e patrimoni italiani e illirici trasferiti al patriarcato di Costantinopoli dall’imperatore Leone III nel 733. Anche in Oriente il Concilio non fu riconosciuto fino all’843; il suo status ecumenico non fu effettivamente confermato fino al Quarto Concilio di Costantinopoli.
Il breve ritorno e la sconfitta finale dell’iconoclastia
Come si è detto sopra, l’esercito bizantino rappresentava il baluardo dell’iconoclastia. Questo sostenne l’ascesa al potere dell’imperatore Leone V l’Armeno (813), il quale in cambio destituì il patriarca Niceforo e usò il sinodo di Pasqua di Santa Sofia dell’815 per annullare il decreto del 787 e riconoscere lo status ecumenico del concilio di Hieria. Ma i tempi erano cambiati, e questo sinodo non menzionava l’idolatria in relazione alla venerazione delle immagini. Inoltre, i nemici delle immagini distinguevano tra immagini devozionali e immagini educative ed elencavano i veri abusi nel loro uso. I cristiani ortodossi avevano inoltre portavoce illuminati ed eloquenti, come Niceforo e Teodoro Studita, e l’opposizione dei vescovi all’iconoclastia era meglio organizzata. Entrambi i campi adottarono una tecnica dialettica più raffinata, anche se, da un punto di vista teologico, il confronto non fu particolarmente prfondo. La persecuzione questa volta fu meno crudele. L’imperatore Michele II (salito al trono nell’820) si dimostrò persino tollerante verso gli iconofili. Suo figlio Teofilo, tuttavia, sotto l’influenza del suo maestro, il futuro patriarca Giovanni VII Grammatico, fu più violento nella sua disapprovazione delle immagini.
Un anno dopo la morte di Teofilo (avvenuta nell’842), i reggenti, l’imperatrice Teodora e l’ammiraglio Teocisto, restaurarono la venerazione delle immagini. Un sinodo frettolosamente convocato si dichiarò a favore del Secondo Concilio di Nicea. Le Chiese sotto il patriarca di Costantinopoli celebrano ancora questo evento ogni anno nella Festa dell’Ortodossia. Il decreto dell’843 fu rinnovato da concili più solenni nell’861, 867, 869 e 879. L’iconoclastia scomparve presto dalla società bizantina anche se non da tutte le coscienze individuali.
Adriano Virgili
Alcuni riferimenti bibliografici:
Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei concili ecumenici, Torino, UTET, 1978
Pierre-Thomas Camelot, Paul Christophe, Francis Frost, I concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 2001
Giancarlo Rinaldi, Cristianesimi nell’antichità, Chieti, GBU, 2008
Klaus Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 2012
Marina Benedetti (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età medievale (secoli VIII-XV), Roma, Carocci, 2015
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