«”Punto di Vista Storico” significa, in poche parole, che quando un uomo dotto incontra una qualsiasi affermazione in libro vecchio, la domanda che non si farà mai è se tale affermazione sia vera».
(C.S. Lewis – Le lettere di Berlicche)
«Quid est Veritas?»[1] domanda Pilato, di fronte ad un condannato illustre, consegnato, per invidia, da quei Giudei di cui qualcuno ha affermato sia il re. Impossibile che questa pericope non sia risuonata nelle orecchie dei filosofi medievali, anche quando intenti alla riflessione filosofica intorno alle questioni sollevate dalla logica o dall’etica. La domanda sulla verità è, per così dire, a tal punto essenziale da risultare fondativa rispetto al rapporto che non solo i filosofi, ma gli uomini medievali, più in generale, intessono con la filosofia.
Considerando poi, in particolare, come gli intellettuali dell’Occidente latino e greco che si interessano allo studio della filosofia, siano, pressoché unanimemente, degli ecclesiastici, è inevitabile che il contatto con il Dio incarnato, che ha affermato di essere non solo via e vita, ma – egli stesso – verità[2], divenga il primo, mordace interrogativo, che si affianca alla conoscibilità e comunicabilità della medesima, nonché all’indipendenza dello studio della scienza e delle arti, rispetto alla verità rivelata.
Un primo avvicinamento al problema è riscontrabile nelle dispute eucaristiche dell’XI secolo, che frappongono Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia: al di là della condanna nei confronti della dottrina dell’impanazione del primo al concilio di Vercelli del 1050, il suo ruolo è di grande rilievo, perché sospinge chi voglia affrontare la questione da lui sollevata (a partire da Lanfranco, pur riluttante a trattare una questione divina in termini umani), ad utilizzare terminologia e metodologia della filosofia classica, aprendo la strada alla successiva Scolastica. Prima di questo periodo, tuttavia, la maggioranza dei pensatori sulla scia del neoplatonismo agostiniano, soprattutto rispetto alla ricerca della verità, declina in vari modi la dottrina dell’illuminazione, come Giovanni di Salisbury, altro autore dell’XI secolo, che ha modo di specificare, nel Policraticus:
Il primo grado della filosofia consiste […] nel discutere i generi e le proprietà delle cose, così che si riconosca in modo accorto cosa sia vero nei singoli casi. Il secondo grado nel seguire fedelmente quel tanto di verità di cui ognuno è stato illuminato[3]
Grande rilevanza ha, poi, la ricezione, in Occidente, di quella che sarà nota come «dottrina della doppia verità» di Averroè (filosofo arabo vissuto nel XII secolo): è bene ricordare come, anzitutto, anch’egli fosse credente (nel Dio del Corano) e non riteneva che potesse esservi un contrasto (se non apparente), tra verità di fede e ragione: qualora vi fosse, era sanabile tramite una corretta interpretazione del testo sacro. Protagonista, con Sigieri di Brabante, delle condanne contenute nel decreto censorio del 2 marzo 1277 emanato dal vescovo di Parigi Étienne Tempier, troviamo il nome di Boezio di Dacia, intellettuale danese, le cui parole, alle nostre orecchie, tuttavia, appaiono lungi dall’essere condannabili, ma, anzi, capaci di segnare una distinzione tra ambiti di competenza, come quando scrive che «multa esse vera quae tamen, si non affirmes vera nisi quantum ratio humana te inducere potest […] talibus enim creditur auctoritati divinae et non rationi humanae»[4].
Nello specifico, Anselmo d’Aosta (noto anche come Anselmo di Canterbury), autore vissuto nella seconda metà dell’XI secolo, nel capitolo XI del suo libro De Veritate[5], ci fornisce una definizione molto importante, proprio perché sarà in seguito ripresa sia da Alberto Magno, che da Tommaso d’Aquino, il discepolo che ne perpetuerà la fama, dominando con la sua prolificità la seconda metà del XIII secolo. Nella sua esposizione dialogica (suddivisa in parti pronunciate dal Discipulus ed altre dal Magister), a partire dal capitolo X, l’autore si interroga se la somma verità possa avere «principio e fine»: individuando nella somma verità la causa di ogni proposizione vera, egli afferma che essa possa considerarsi senza principio o fine, perché è nella mente divina che essa esiste, anche se da noi è percepito in un tempo diverso da quello attuale (passato o futuro). Nel capitolo XI, giunge, quindi, ad una definizione della verità come «rettitudine che si può percepire solo con lo spirito» (veritas est rectitudo sola mente percepibilis), in quanto considera la verità come una declinazione della giustizia, che, a differenza di quella dei corpi, non è necessario sia visibile perché aderisca a tale definizione. Nel XII capitolo, si passa quindi al raffronto con la giustizia, in quanto ogni cosa retta è da attribuire anche alla giustizia. Si definiscono, quindi, due tipologie di giustizia: una giustizia di necessità, che è quella per la quale gli enti si adeguano in modo inevitabile a quello che la loro natura richiede ed è considerata come virtù: è chiaro, quindi, come questa seconda tipologia possa essere attribuita esclusivamente ad un soggetto razionale, in grado di compiere una scelta, basata non solo su retto intendimento ed azione, ma, in particolar modo, retto volere, tanto è vero che quest’ultimo è sufficiente a considerare di possedere rettitudine, nel momento in cui essa sia desiderata «per sé».
Tommaso d’Aquino, al principio della sua Somma Teologica, nella questione 16 della prima parte[6], dopo aver argomentato come oggetto della scienza sia la verità, analizza cosa sia la verità, articolando il ragionamento in otto punti: se risieda nella mente o nelle cose; se sia nell’intelletto che afferma e nega; quale relazione intercorra tra il vero e l’ente; quale relazione, invece, con il bene; se Dio sia verità; se vi sia un’unica verità delle cose; se sia eterna; se sia, infine, immutabile.
Rispetto al primo articolo, della definizione di Agostino, per cui «il vero è ciò che si vede», Tommaso sottolinea come essa si riferisca alla verità ontologica delle cose e non al modo con cui noi le conosciamo. Affronta, quindi, la questione della possibilità dell’esistenza simultanea di più verità, logicamente ipotizzabile nel momento in cui più soggetti possono sostenere tesi opposte. Successivamente, distingue un’apparente contraddizione tra due passi di Aristotele, specificando, nella differenza tra bene e vero, la chiave di comprensione: è vero che il bene si trova nelle cose (costituiscono l’oggetto del desiderio), ma, per quel che riguarda la conoscenza, il suo termine non risiede nelle cose, bensì nell’intelletto ed è sulla base del rapporto che sussiste tra cose ed intelletto che una cosa può essere detta vera oppure falsa, cioè si dicono false (oppure vere) a seconda della relazione con l’intelletto, in questo confermando Anselmo, quando dice che «la verità è la rettitudine percepibile con la sola mente». Il vero discrimine è – quindi – l’esistenza, capace di stabilire se un’affermazione sia vera o falsa.
Nel secondo articolo, muove da quanto affermano Aristotele (l’intelletto non sbaglia, quando conosce la quiddità) e Isacco Israeli (che definisce la verità come l’adeguazione tra la cosa e l’intelletto) e giunge ad affermare che la verità può considerarsi, in senso proprio, nell’intelletto che compone e divide, quindi, che giudica, perché il vero conosciuto è l’atto di cui l’immagine è la forma.
Nel terzo articolo, distingue il vero dall’ente, considerando un passo della Metafisica (2,1) in cui i rapporti di una cosa all’essere e alla verità sono considerati identici. Il vero si estende sia ad essere che a non essere e, come precedentemente dimostrato all’articolo 1, risiede sia nelle cose che nell’intelletto, tuttavia, con una differenza: il vero dell’oggetto va inteso come la sua sostanza (ciò che lo rende tale), mentre il vero nell’intelletto sta in rapporto alla cosa come sua espressione. Inoltre, anche il non ente può essere concepito dalla ragione, pur non esistendo; quindi, non c’è (completa) identificazione tra verità ed essere. Infine, rispetto ad una proposizione, possiamo intenderne la verità in due modi. Da una parte, l’apprensione dell’ente avviene con la comprensione della nozione del vero; tuttavia, essa non è imprescindibile, poiché è possibile, ad esempio, comprendere un ente fittizio, senza né che esso debba necessariamente esistere, né che dalla sua esistenza dipenda la nostra comprensione di esso.
Nel quarto articolo, l’autore, dalla definizione di Aristotele (Phys 1, 5), ritiene di poter supporre che il bene sia da considerare concettualmente anteriore, in quanto maggiormente universale rispetto al vero; ciò pare, del resto, confermato da quanto argomentato nel secondo articolo (il bene è riscontrabile nelle cose, mentre la loro verità è accessibile tramite l’intelletto). Di contro, però, Aristotele (Ethic. 4,7), riconoscendo la verità come virtù, le attribuisce uno status di maggiore universalità: la conoscenza precede il bene e, conseguentemente, si può dire che il vero precede concettualmente il bene. Rispetto al desiderabile, il bene è universale e il vero particolare, ma rispetto alla conoscenza, possiamo considerare in modo opposto. Dal punto di vista dell’intelletto, l’ordine prevede prima l’ente, poi il vero ed infine il bene, perché la virtù della verità che si attribuisce alle cose non è da intendersi come la verità in generale, ma come la corrispondenza della cosa alla propria essenza.
Nel quinto articolo, domandandosi se Dio sia la verità, inizialmente, pare impossibile pensare di trovarne in Dio (dal momento che è atto puro e semplice e non ha principio – essendo eterno) quindi non può corrispondere alla definizione di Agostino, per cui verità è«somiglianza delle cose con il loro principio». È necessario chiarire: se ogni verità si trova in Dio, in sommo grado, allora, ogni verità proviene da Lui e, nel suo intelletto, c’è la verità (e, dal momento che, in Dio, essere e intelletto si somigliano, allora possiamo dire che vi sia somiglianza con il principio). Per cui, la verità del peccato è in Dio (il fatto che sia stato commesso), ma non in quanto tale.
Nel sesto articolo, l’autore si domanda se vi sia una sola verità, da cui discenda ciò che è vero. I due riferimenti sono Agostino (De Trin. 15,1) e Anselmo (De Verit. 14): il primo suppone la mente divina come verità, in quanto unica superiore alla mente umana; il secondo istituisce una sorta di proporzione, per cui, come il tempo sta alle cose temporali, così la verità alle cose vere. Tommaso distingue, a questo punto, quando un attributo sia univocamente o analogicamente inteso: nel primo caso, si potrebbe dire che la caratteristica discende in modo diretto da ciò che la origina, mentre nel secondo l’attribuito è assegnato agli enti in modo mediato, come i riflessi di uno specchio rispetto all’oggetto che li origina. Nell’uomo, che conosce sulla base della verità prima, l’intelletto agisce come uno specchio; rispetto all’intelletto divino, è corretta l’osservazione di Anselmo, perché è in Dio il criterio di verità.
Nel settimo articolo, rispetto all’eternità della verità, essa è da intendere non rispetto ad un enunciato, che è vero in modo storico (temporalmente definito), bensì rispetto alla verità nell’intelletto divino, in cui risiedono tutte le nozioni vere, anche quelle che, nell’esperienza umana, lo sono solo in potenza. Si può concludere, quindi, che è Dio, causa prima, che consente la verità di un enunciato, il quale, nel nostro intelletto non è – invece – eterno, ma temporale.
Nell’ottavo articolo, analizza una conseguenza dell’articolo precedente. Anselmo sintetizza la verità come la corrispondenza di una cosa all’idea nella mente divina (De verit. 7, 1): come sarebbe possibile, di fronte a ciò che muta (basti pensare alle azioni compiute dall’uomo)? Ciò è possibile, in quanto la verità immutabile risiede nell’intelletto – e, specificamente, nell’intelletto divino, da cui discende la verità di ciò che è in atto, in modo contingente.
Anche Guglielmo da Ockham, autore vissuto a cavallo tra XIII e XIV secolo, ritorna sull’argomento nella sua Summa Logicae[7], relazionandosi al problema a partire dal punto di vista della logica, cioè in che modo si possa definire che la verità inerisca rispetto ad una proposizione. Tale verità è riscontrata nel momento in cui si possa asserire che soggetto e predicato suppongano la medesima cosa, denotandone l’esistenza. Sono false, invece, le proposizioni che pongano come predicato dei concetti, che non possono essere sostituiti, né in tutto, né in parte al soggetto di cui si parla: è il caso di attribuzioni che possano essere trovate nel soggetto, ma non stare al posto di esso e, a maggior ragione, degli accidenti, che non si trovano neppure internamente al soggetto né in una parte soltanto, ma sono, per così dire, al di fuori di esso.
Tra i testi portati a confronto, possiamo vedere una maggiore somiglianza nell’affrontare l’argomento tra i primi due, mentre Guglielmo si discosta, mostrando una prospettiva maggiormente influenzata dalla logica, sulla scia degli studi di Abelardo. Tommaso rappresenta, forse, un caso unico nella storia. Il suo lavoro, quantitativamente poderoso, di confronto tra il pensiero dei filosofi, del passato e (suoi) contemporanei, che realizza, in particolar modo, nella “Somma teologica”, muove i passi dalle dottrine, tra gli altri, di Anselmo, specificandola ulteriormente, giovandosi delle recenti traduzioni del corpus aristotelico, che consentivano di integrare le definizioni anselmiane, specificandone alcuni aspetti, come la distinzione tra la verità in senso ontologico e la verità come criterio di conoscenza, che si basa sull’immutabilità dell’intelletto divino, considerato quale causa dell’esistenza anche di ciò che può considerarsi solo come ente intellettuale, ma non contingente. In Tommaso vediamo, poi, trattato un aspetto interessante che sarà oggetto di molti studi successivi, vale a dire il rapporto tra l’essere e la verità, non solo per quello che riguarda gli oggetti, ma anche per quello che riguarda i non enti, gli enti fittizi e i concetti universali, riprendendo l’annosa disputa tra vocalisti (come Roscellino di Compiègne) e realisti (come Anselmo e Guglielmo di Champeaux), in cui si inserisce anche Abelardo.
Lo statuto della verità è un argomento cardine, nella storia della filosofia, perché lo è anche nella filosofia. È impossibile fare filosofia, senza domandarsi il fine di questa attività, a cominciare dalla possibilità (o meno) di raggiungere un risultato che possa definirsi – per quanto possibile – affidabile e duraturo.
È innegabile che le cose vere tendano a mutare (è dovuto, nella più immediata delle spiegazioni, a leggi naturali, cui ogni ente naturale è sottoposto), così che definire, in modo stabile, la verità pare essere un’impresa titanica. Trovare il fondamento della verità nell’intelletto divino è, quindi – probabilmente –, l’unica soluzione per fondare la conoscenza umana in modo credibile, dal momento che anche l’intelletto umano non può essere considerato stabile ed immutabile. Quanto, poi, alla verità, è conveniente reputare sia una e che, piuttosto, sia l’intelletto umano, nella sua fallibilità non a raggiungerne molteplici, ma a coglierne solo una parte, così come gli occhi riescono a vedere una o più facce di un poliedro regolare, ma è impossibile averne una visione totale, dacché non è umanamente possibile accostare, in un colpo solo, tutte le facce della figura solida. Al contempo, però, evidentemente, non sarebbe possibile dire che vera sia solo una o più delle sue facce (corrispondenti alla parzialità del visibile o del percepibile).
L’interrogativo sulla verità – d’altro canto – colpisce al cuore la conoscenza, perché interpella, al contempo, lo statuto epistemologico delle scienze, i loro limiti e l’oggetto ultimo, verso cui siamo sospinti, in modo, per così dire, naturale, dal nostro desiderio di conoscere (come ha modo di evidenziare lo stesso san Tommaso), nella Summa contra Gentiles[8].
(Maddalena Negri)
[1] Gv 18,38
[2] Gv 14,6
[3] Trad. Da IOANNES SARESBERIENSIS, Policraticus, IV, Prologo, cur. K.S.B. KEATS-ROHAN [CCCM, 118], Turnholti 1993, p. 231, rr. 5-9: «Est ergo primus pholosophandi gradus genera rerum proprietatesque discutere, ut quid in singuli uerum sit prudenter agnoscat. Secundus, ut quisque id ueritatis quod ei illuxerit fideliter assequatur».
[4] BOEZIO DI DACIA, Sull’eternità del mondo, traduzione, introduzione e note di L. Bianchi, Unicopli, Milano 2003, p. 150, rr.8-10
[5] A. D’AOSTA, La verità, cap. X, pp. 148 – 154, in Opere filosofiche , a c. di S. VANNI ROVIGHI, Laterza, Bari 2008
[6] TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, Prima Pars, ESD, Bologna, 2014
[7] G. DA OCKHAM, Summa logicae, II, 2
[8]«Est enim quoddam desiderium hominis inquantum intellectualis est, de cognitione veritatis: quod quidem desiderium homines prosequuntur per studium contemplativae vitae. Et hoc quidem manifeste in illa visione consummabitur, quando, per visionem primae veritatis, omnia quae intellectus naturaliter scire desiderat, ei innotescent» (Summa Contra Gentiles, libro 3, capitolo 63).
Per le citazioni tomiste, si veda anche: Corpus Thomisticum
Fonte immagine: Vatican News – Nikolaj Nikolaevič Ge, “Quid est veritas?” – Cristo e Pilato (1890), State Tretyakov Gallery di Mosca
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