Lo Scisma d’Occidente
La morte di Gregorio XI, avvenuta a Roma il 27 marzo 1378, rese necessaria l’immediata elezione di un nuovo pontefice. Gregorio era stato l’ultimo papa avignonese e aveva ristabilito la sede pontificia a Roma da circa un anno quando morì. I cardinali riuniti in conclave subirono delle enormi pressioni da parte del popolo romano perché il nuovo eletto fosse un papa romano o comunque italiano, interessato quindi a mantenere la propria sede nella Città Eterna. Il risultato fu l’elezione, l’8 aprile 1378, dell’arcivescovo di Bari col nome di Urbano VI (di passaggio, vale la pena citare il fatto che questi fu l’ultimo papa nella storia della Chiesa ad essere eletto al di fuori del collegio cardinalizio). All’epoca sembrava una scelta molto intelligente. Napoletano di nascita e di educazione, francese di cultura, aveva fatto parte della curia papale ad Avignone ed era noto per essere un tipo molto efficiente e laborioso. Si pensava che fosse l’uomo ideale per stemperare le tensioni tra italiani e francesi all’interno del collegio cardinalizio. I cardinali, tuttavia, si resero presto conto che l’uomo che avevano eletto era tutt’altro che adatto alla sua carica. Urbano sviluppò una personalità dominante, era insofferente a tutti i consigli e raccomandazioni, dando addirittura l’impressione di essere mentalmente piuttosto instabile. Soprattutto, desiderava ripristinare la corretta funzione monarchica del papa nei confronti dei cardinali. Ad Avignone, infatti, i cardinali avevano assunto poteri sempre maggiori che, nel loro insieme, si avvicinavano ad una forma di governo della Chiesa di tipo oligarchico. Quando i cardinali si resero conto delle intenzioni del papa, si ritirarono uno ad uno ad Anagni e il 20 settembre 1378 elessero sommo pontefice uno di loro, il cardinale Roberto di Ginevra col nome di Clemente VII (antipapa), sostenendo apparentemente che l’elezione di Urbano era stata imposta loro dalla folla romana. L’elezione di Urbano, però, nonostante alcune irregolarità, non può essere definita non canonica. In effetti, per diversi mesi i cardinali avevano riconosciuto costui come papa, e la tesi di un’elezione forzata emerse solo gradualmente, man mano che i primi andavano sperimentando l’autoritarismo del nuovo papa. Ma la loro affermazione di essere stati costretti con la forza, per quanto poco supportata dai fatti, offriva l’unico mezzo per mettere in dubbio l’elezione e presentarla come non canonica.
Poco dopo l’elezione, Clemente e tutti i cardinali si stabilirono ad Avignone dove la curia papale era ancora pienamente funzionante (non avendo avuto il tempo Gregorio XI di riorganizzarla compiutamente a Roma). A questo punto, la cristianità latina si ritrovò con due papi in carica: Urbano VI, che regnava a Roma, con un nuovo collegio cardinalizio, e un altro, Clemente VII, che governava da Avignone. L’elezione di Clemente fu significativa per due aspetti: uno stesso collegio cardinalizio aveva eletto due papi; tale azione dimostrava in modo lampante un grave difetto nel diritto canonico, che non prevedeva alcuno strumento giuridico per affrontare una situazione in cui un papa eletto risultasse poi palesemente inadatto al ruolo a cui era stato designato. Una volta eletto, un papa che fosse diventato pazzo, demente o per qualsiasi altra ragione inadatto a governare la Chiesa non poteva essere rimosso. I cardinali furono quindi costretti a ricorrere all’unica scappatoia legale a loro disposizione, asserendo di non aver potuto eleggere il nuovo papa in modo pienamente libero.
I risultati di questa situazione furono davvero disastrosi. I seguaci di ciascun papa si raggrupparono secondo linee nazionali piuttosto definite. Tra coloro che aderivano ad Urbano c’erano il Sacro Romano Impero, l’Inghilterra, l’Ungheria, la Scandinavia e gran parte dell’Italia; mentre Francia, Regno di Napoli, Savoia, Scozia, Spagna e Sicilia aderivano a Clemente. Ogni papa anatemizzò il suo rivale e tutti i suoi seguaci, cosicché l’intera cristianità occidentale si ritrovò, almeno in teoria, scomunicata. È ovvio che lo spettacolo di due papi che si attaccano a vicenda in modo indecoroso produsse dubbi e confusione dove prima c’era una certezza indiscussa. La divisione comportò inoltre per il papato una pesante perdita di dignità e autorità. La situazione era aggravata dalla frequente divisione tra i capitoli delle cattedrali e gli istituti religiosi, dove in un unico corpo si potevano trovare sia seguaci dell’uno che dell’altro papa, con il risultato che interi ordini erano divisi in due campi. Questa divisione si ripercuoteva persino a livello locale, dove due presbiteri di differente obbedienza si contendevano a volte la medesima parrocchia. Inoltre, le spese delle due curie papali, ciascuna con il proprio collegio cardinalizio e i propri servitori, così come i costi dei disegni politici da esse perseguiti, dovettero essere affrontati con un aumento delle tasse imposte al clero. Di questa situazione approfittarono i vari movimenti ereticali, gettando ancor di più la cristianità occidentale in una situazione di completo caos.
Questa situazione catastrofica fece sorgere quel movimento che passò poi alla storia come conciliarismo, secondo il quale un concilio ecumenico doveva decidere la questione e d’ora in poi doveva essere la suprema autorità ecclesiastica, alla quale anche il papa doveva essere sottoposto. Proposta in primo luogo dall’università di Parigi, quest’idea acquistò col tempo un numero sempre maggiore di adesioni. I papi furono ovviamente irremovibilmente avversi al conciliarismo e, alla morte di Urbano, il suo collegio cardinalizio elesse Bonifacio IX, che fece ben poco per sanare la divisione della cristianità. Non lo fece nemmeno il successore di Clemente, Benedetto XIII (antipapa), l’ardente Pietro de Luna, anche se le discussioni e i negoziati tra i due campi continuarono. Nello stesso anno in cui Benedetto fu eletto, l’università di Parigi avanzò tre vie possibili per porre fine allo Scisma: 1) la via cessionis, che prevedeva le dimissioni volontarie di entrambi i papi; 2) la via compromissi, che prevedeva che un tribunale indipendente fosse autorizzato a decidere quale papa dovesse dimettersi; 3) la via concilii, che prevedeva che la decisione fosse presa da un concilio ecumenico. L’università stessa era favorevole alla prima proposta. La testardaggine di Benedetto convinse Francia e Spagna a ritirargli l’obbedienza nel 1398, provocando le dimissioni di tutti i cardinali tranne cinque. Le truppe francesi assediarono il palazzo papale di Avignone e tennero Benedetto prigioniero per quattro anni. La Francia, tuttavia, non aveva riconosciuto Bonifacio e la confusione divenne tale che nel 1403 una riunione di principi laici ed ecclesiastici francesi suggerì di riprendere le relazioni con Benedetto. Nel frattempo, la maggior parte delle università proponeva mezzi per porre fine allo scisma, ma ogni sforzo veniva vanificato dall’opposizione dei papi in carica. Nella linea romana Gregorio XII succedette a Bonifacio nel 1406 e inizialmente era desideroso di porre fine al conflitto. Tuttavia, quando fu organizzato un incontro tra i due papi per il settembre 1407 a Savona, Gregorio cambiò idea e rifiutò di incontrare il suo rivale.
Il concilio di Pisa
Nel 1409 fu convocato di concerto a Pisa dai cardinali sia di obbedienza avignonese che romana un concilio nella speranza di porre fine allo Scisma d’Occidente, che a questo punto durava ormai già da trent’anni. Il tema era stato affrontato per la prima volta nel giugno del 1408 a Livorno, quando 13 cardinali italiani, stanchi delle titubanze di Gregorio XII, unirono le loro forze a quelle della curia di Benedetto XIII. I due papi rivali vennero sollecitati a partecipare, ma resistettero strenuamente a tutte le proposte, decidendo invece di tenere ognuno un proprio concilio, Benedetto a Perpignano, Gregorio in un luogo imprecisato, che dovrebbe essere Cividale. Alcune delle aree di obbedienza consolidate decisero di rimanere fedeli alle loro vecchie tradizioni. Re Ruperto di Germania, Ungheria, Venezia e Rimini scelsero di seguire Gregorio, mentre Aragona, Castiglia, Scozia e alcune parti della Francia si schierarono dalla parte di Benedetto. La maggior parte del mondo cristiano occidentale, però, decise di aderire al tentativo di soluzione della crisi che i cardinali stavano cercando di operare a Pisa. Apertosi il 25 marzo 1409, il concilio fu sostenuto da 4 patriarchi, 200 vescovi (102 dei quali si recarono in loco di persona), 287 abati (107 dei quali presenti a Pisa), i generali degli ordini mendicanti e della maggior parte degli altri ordini, circa 700 teologi e canonisti, i delegati della maggior parte degli stati occidentali e 13 delle maggiori università.
Al cospetto dell’opposizione dei due papi in carica, il concilio si trasformò in un processo allo scisma che, a causa della sua lunga durata, fu considerato alla stregua di un’eresia. Così, dopo aver preso atto che le parti, pur regolarmente convocate, non si erano presentate, i due papi furono dichiarati contumaci nella seconda sessione (27 marzo). Un mese dopo questa sentenza fu estesa ai cardinali che erano rimasti loro fedeli. Un elemento di dissidenza entrò nell’assemblea quando gli inviati del re Ruperto di Germania presentarono un memoriale a favore di Gregorio alla quarta sessione (15 aprile). Tuttavia, questi lasciarono il concilio il 21 aprile, senza attendere la risposta promessa. La fase centrale del concilio iniziò tre giorni dopo (quinta sessione), quando ai due pontefici furono rivolti 37 capi di imputazione per non aver cercato di trovare una soluzione allo scisma impegnando la loro buona volontà. Il concilio cercò di muoversi nel modo legalmente più rigoroso possibile: prima di andare avanti, fece dichiarare “canonica e legittima” la fusione dei due collegi cardinalizi e la revoca dell’obbedienza a uno dei due papi. Solo in seguito furono esaminate le testimonianze (17-22 maggio) relative ai capi di accusa di cui sopra. Infine, nella quindicesima sessione (5 giugno) i due papi furono formalmente deposti come scismatici ed eretici. Tre settimane dopo Pietro di Candia, cardinale gregoriano di Milano, fu eletto papa col nome di Alessandro V. Egli presiedette le sessioni rimanenti, pubblicò alcuni decreti di riforma e, promettendo di convocare un concilio per il 1412, sciolse l’assemblea il 7 agosto 1409. Poiché Benedetto XIII e Gregorio XII rifiutarono però entrambi di sottomettersi alla sentenza di deposizione, il risultato del concilio di Pisa fu che la Chiesa si trovò ora alle prese con addirittura tre papi. Di conseguenza, quello che nelle intenzioni di chi lo aveva promosso era stato inteso come un tentativo di porre fine al caos imperante nella cristianità occidentale finì per peggiorare ancor di più la drammaticità della situazione in cui questa versava.
Convocazione e svolgimento del Concilio
Come accennato poco sopra, alla fine del concilio di Pisa del 1409 la Chiesa si ritrovò non più con due, ma con tre papi: Benedetto XIII, Gregorio XII e Alessandro V, a cui nel 1410 succedette Giovanni XXIII (antipapa). Fu proprio quest’ultimo che il 9 dicembre del 1413 convocò il Concilio di Costanza. Lo fece a malincuore e sotto l’estrema pressione del re Sigismondo, l’imperatore di Germania eletto, che svolse un ruolo di primo piano nel concilio come suo protettore ufficiale. Anche alcuni dei principali teorici del conciliarismo furono attivi nella gestione degli affari dell’assemblea, e fin dall’inizio molti padri si mostrarono determinati a porre fine allo scisma a tutti i costi, anche se questo comportava un attacco alla dottrina tradizionale della sovranità papale e la sua sostituzione con la dottrina del primato conciliare.
Il concilio si aprì il 5 novembre del 1414 e vi presero parte oltre 300 vescovi, insieme a 29 cardinali, tre patriarchi, 33 arcivescovi, diverse centinaia di di teologi e canonisti, più di 100 abati e una dozzina di principi regnanti. Si trattò della più grande assemblea rappresentativa della cristianità medievale. I padri conciliari si trovarono di fronte a tre grandi compiti: porre fine allo Scisma d’Occidente, combattere le nuove eresie di John Wyclif e John Hus (che anche in ragione del caos in cui versava la Chiesa andavano assumendo dimensioni ragguardevoli) e riformare la struttura istituzionale della Chiesa.
Giovanni XXIII sperava che il concilio si sarebbe accontentato di condannare i suoi due rivali, Gregorio XII e (l’antipapa) Benedetto XIII; e contava sul sostegno dei numerosi prelati italiani presenti a Costanza – quasi la metà dei vescovi presenti alla sessione di apertura erano italiani – per evitare qualsiasi attacco alla propria posizione. Questa speranza fu frustrata quando i rappresentanti inglesi e tedeschi insistettero per un sistema di votazione per nazioni, in cui ogni gruppo nazionale avrebbe espresso un voto nelle sessioni formali del concilio. All’inizio l’assemblea era divisa in quattro nazioni – inglese, francese, tedesca e italiana – e una quinta fu aggiunta dopo che i delegati spagnoli si unirono al consiglio nell’ottobre del 1416. Tutti i dibattiti si svolgevano in assemblee separate per ogni nazione e in un comitato direttivo composto da deputati eletti da ciascuna nazione. Quando si raggiungeva l’unanimità tra le nazioni, una sessione generale dell’intero concilio promulgava formalmente le decisioni raggiunte senza ulteriori discussioni. I cardinali si lamentarono del fatto che questo sistema gli impediva di svolgere qualsiasi ruolo attivo nel sinodo, così, nel maggio del 1415 furono autorizzati a nominare sei rappresentanti nel comitato dei deputati delle nazioni. A luglio, il sacro collegio iniziò a esprimere un voto nelle sessioni generali insieme ai voti delle quattro nazioni.
All’inizio del 1415 il concilio cominciò ad affrontare i gravi problemi dello scisma. Giovanni XXIII si trovava in una posizione particolarmente vulnerabile, poiché aveva condotto una vita notoriamente poco retta e a febbraio fu suggerito che il concilio nominasse una commissione per indagare sui suoi presunti crimini. Di fronte alla minaccia di uno scandalo pubblico, Giovanni promise solennemente di abdicare nella seconda sessione generale del concilio tenutasi il 2 marzo, ma poi cambiò idea e fuggì dal concilio il 20 marzo, rifugiandosi presso il duca Federico d’Austria. In queste circostanze i prelati riuniti a Costanza potevano continuare a funzionare come concilio ecumenico solo se erano disposti ad affermare che i membri di un concilio, a prescindere dal papa, godevano della diretta guida divina e possedevano piena autorità sulla Chiesa. Con la sua fuga Giovanni XXIII intendeva interrompere il Concilio, ma ottenne il risultato di spingere i padri che vi partecipavano su posizioni conciliariste estreme che molti dei moderati avrebbero preferito evitare.
A questo punto, a prendere l’iniziativa fu re Sigismondo, organizzando una terza sessione generale (26 marzo) in cui si decretò che il Concilio conservava la sua piena autorità nonostante la partenza del papa e si dichiarò che non questo si sarebbe sciolto fino a quando il compito di porre fine allo scisma e di riformare la Chiesa non fosse stato completato.
Francesi, inglesi e tedeschi si accordarono allora su una dichiarazione che affermava in termini generali la superiorità dei concili ecumenici sul papato. I cardinali protestarono con Sigismondo contro la promulgazione di un tale decreto, e alla quarta sessione generale (30 marzo) ne fu letto uno più moderato dal cardinale Francesco Zabarella, decreto che fu approvato. Questo decreto affermava solo che il concilio allora in corso a Costanza, data la situazione del tutto particolare in cui si stava svolgendo, possedeva l’autorità sul papa “nelle questioni che riguardano la fede e la fine del presente scisma”. In altre parole, rivendicava l’autorità suprema per un concilio solo nelle circostanze del tutto anomale presenti in quel particolare momento della storia della Chiesa, in cui non c’era certezza su chi potesse essere considerato il vero papa. Ciò non soddisfece i conciliaristi più radicali, e il sentimento antipapale a Costanza raggiunse un nuovo apice durante la settimana successiva, quando divenne evidente che Giovanni XXIII non aveva alcuna intenzione di tornare a riunirsi al Concilio e che avrebbe potuto revocare la sua promessa di abdicare.
Nella quinta sessione generale (6 aprile) il concilio promulgò il decreto Sacrosancta, contenente la dichiarazione completa sul primato conciliare originariamente approvata dalle nazioni. Sette cardinali parteciparono alla sessione e acconsentirono alla promulgazione del decreto, anche se Zabarella si rifiutò di leggerlo. L’atto controverso dichiarava:
Questo santo sinodo di Costanza che è un concilio ecumenico, riunito legittimamente nello Spirito santo a lode di Dio onnipotente, per l’estirpazione del presente scisma, per la realizzazione dell’unione e della riforma nel capo e nelle membra della chiesa di Dio… dichiara che esso, legittimamente riunito nello Spirito santo, essendo concilio ecumenico ed espressione della chiesa cattolica militante, riceve il proprio potere direttamente dal Cristo e che chiunque, di qualunque condizione e dignità, compresa quella papale, è tenuto ad obbedirle in ciò che riguarda la fede e l’estirpazione dello scisma ricordato e la riforma generale nel capo e nelle membra della stessa chiesa di Dio. Inoltre, dichiara che chiunque, di qualunque condizione, stato, dignità, compresa quella papale, rifiutasse pertinacemente di obbedire alle disposizioni, decisioni, ordini o precetti presenti o futuri di questo sacro sinodo e di qualsiasi altro concilio ecumenico legittimamente riunito, nelle materie indicate o in ciò che ad esse attiene, se non si ricrederà, sia sottoposto ad adeguata penitenza e sia debitamente punito, ricorrendo anche, se fosse necessario, ad altri mezzi giuridici.
La sfida di Giovanni XXIII fu di breve durata. Sigismondo mosse guerra a Federico d’Austria, che si sottomise rapidamente e il 17 maggio il papa fu arrestato in Germania e riportato al Concilio come prigioniero. Il 29 maggio fu dichiarato colpevole di spergiuro, simonia e condotta scandalosa e fu formalmente deposto dal papato. Giovanni accettò docilmente la sentenza e rinunciò a ogni pretesa sul papato. Una volta uscito di scena, Gregorio XII, il papa della linea romana, comunicò al concilio la sua volontà di abdicare a patto che gli fosse permesso di convocare i prelati riuniti per una seconda volta come concilio ecumenico e affermare così ancora una volta la legittimità della propria linea papale. I prelati di Costanza non avevano voglia di creare difficoltà e acconsentirono a questa procedura. L’abdicazione di Gregorio fu formalmente accettata dal concilio il 4 luglio 1415.
Rimaneva solo Benedetto XIII. Sigismondo intraprese un viaggio a Perpignano per cercare di convincere anche lui ad abdicare, ma l’anziano pontefice rimase ostinato fino alla fine. A questo punto (dicembre 1415) i suoi stessi cardinali e i re e vescovi spagnoli abbandonarono la sua causa e accettarono di unirsi al Concilio di Costanza. Il 26 luglio 1417, Benedetto fu dichiarato colpevole di spergiuro, eresia e scisma e privato di ogni diritto al papato. Dopo complicate dispute sulle modalità di elezione di un nuovo papa, si decise che al conclave avrebbero dovuto partecipare sei deputati per ogni nazione, oltre ai cardinali delle tre obbedienze. Per un’elezione valida era necessario il sostegno dei due terzi dei cardinali e dei due terzi dei deputati di ogni nazione. Il conclave durò solo tre giorni e l’11 novembre 1417 gli elettori scelsero Oddone Colonna, un cardinale originariamente di obbedienza romana che aveva aderito al concilio di Pisa e successivamente aveva contribuito all’elezione di Giovanni XXIII. Egli assunse il nome di Martino V. Con la sua elezione si concluse lo Scisma d’Occidente.
Le questioni dottrinali più importanti che il Concilio di Costanza si trovò ad affrontare furono, come accennato, quelle sollevate da Wyclif e da Hus e che concernevano la natura della Chiesa e del sacramento dell’Eucaristia. Gli insegnamenti di Wyclif erano già stati condannati in Inghilterra dall’arcivescovo William Courtenay nel 1382 e furono nuovamente condannati a Costanza. Nel frattempo, fin dai primi anni del XV secolo, Hus aveva iniziato a diffondere le dottrine wyclifite in Boemia. Il suo insegnamento ebbe un effetto esplosivo perché si identificò con una rinascita del sentimento nazionale ceco diretto contro l’autorità imperiale tedesca e cattolica. Alla base di tutti i principali problemi che il Concilio si trovò ad affrontare, infatti, c’era in fondo quella crescente tensione tra le nuove realtà nazionali e il vecchio ideale dell’unità del mondo cristiano. Hus si recò volontariamente a Costanza per difendere la sua posizione. Ricevette un salvacondotto da Sigismondo, ma ciò non lo salvò dall’essere trattato piuttosto brutalmente una volta al cospetto del Concilio. Fu arrestato per aver celebrato la messa pur essendo stato sospeso e fu interrogato per ben cinque settimane con lo scopo di spingerlo ad una totale sottomissione più che di esplorare la possibilità di una qualche forma di riconciliazione. Alla fine fu dichiarato colpevole di eresia in una sessione generale del Concilio e lo stesso giorno (6 luglio 1415) fu bruciato sul rogo dal potere secolare. Sebbene gli insegnamenti di Hus fossero certamente eterodossi rispetto alla dottrina cattolica, l’estrema durezza del trattamento riservatogli trova probabilmente una sua giustificazione più negli antagonismi personali e nazionali che non nel contenuto specifico degli stessi. Soprattutto il suo rifiuto di accettare l’autorità del Concilio in una questione di fede colpiva il cuore stesso la pretesa conciliare di rappresentare la Chiesa universale. Il Concilio non poteva accettare un simile atteggiamento senza rinunciare alle proprie pretese.
La stessa sessione che condannò gli insegnamenti di Hus considerò anche un altro problema dottrinale: quello della liceità del tirannicidio. Si trattava di una questione scottante nella politica francese dell’epoca; nel 1407, infatti, un sostenitore del duca di Borgogna aveva assassinato il duca di Orléans e un teologo di Parigi, Giovanni il Piccolo, aveva difeso l’atto come tirannicidio giustificabile. Il Concilio condannò in termini generali l’idea che fosse lecito uccidere il tiranno. Ma, nonostante i ripetuti appelli di Giovanni Gerson in tal senso, i padri si rifiutarono di condannare specificamente gli scritti di Giovanni il Piccolo. Un caso in qualche modo simile sorse nel 1417 in relazione a un’opera del domenicano Giovanni di Falkenberg. Egli sosteneva che era lecito assassinare il re polacco o sterminare il popolo polacco perché si era alleato con i pagani contro i cavalieri teutonici. Il suo trattato fu denunciato come eretico da una commissione nominata per esaminarlo e dalle nazioni, ma non fu formalmente condannato in una sessione generale del Concilio.
Fin dall’inizio, i promotori e i partecipanti al Concilio avevano considerato la riforma della Chiesa come uno dei loro obiettivi principali; e dal punto di vista dei vescovi di Costanza, le riforme più evidentemente necessarie erano una riduzione della tassazione papale e una diminuzione della capacità del pontefice di ingerire nelle nomine che i singoli vescovi facevano all’interno delle proprie diocesi. La questione della riforma divenne un importante argomento di discussione nelle settimane successive alla deposizione di Benedetto XIII (luglio 1417). Nacque allora una disputa relativamente al fatto se il Concilio, in qualità di autorità massima della Chiesa, dovesse portare avanti il lavoro di riforma prima di eleggere un nuovo papa o se il compito dovesse essere intrapreso dopo l’elezione dello stesso e quindi dal papa e dal Concilio insieme. La disputa fu complicata da un crescente antagonismo tra la nazione francese e quella inglese derivante dalle circostanze della Guerra dei Cento Anni, ma all’inizio dell’ottobre del 1417 fu raggiunto un compromesso. Si convenne di promulgare subito le riforme già approvate all’unanimità e di promulgare un decreto che stabiliva che ulteriori riforme sarebbero state intraprese subito dopo l’elezione del nuovo papa. Di conseguenza, il 5 ottobre 1417, il Consiglio promulgò i primi cinque provvedimenti di riforma. Il più importante era di gran lunga il decreto Frequens, relativo alla convocazione frequente dei consigli ecumenici. Esso stabiliva che cinque anni dopo lo scioglimento del Concilio di Costanza si sarebbe dovuto riunire un secondo concilio, poi un terzo sette anni dopo la fine del secondo, e che successivamente si sarebbe dovuto riunire un concilio ogni dieci anni. L’intento evidente era quello di limitare il potere papale.
Il 20 marzo 1418, con l’approvazione del Concilio, papa Martino V promulgò altri sette decreti di riforma riguardanti principalmente la tassazione papale e gli abusi delle disposizioni pontificie: ad esempio, il papa rinunciava a rivendicare le entrate delle sedi vacanti e si impegnava a imporre in futuro una tassazione generale solo in caso di gravi emergenze. Furono proibite le dispense papali che permettevano a uomini di ricoprire benefici ecclesiastici per i quali non erano qualificati dall’ordinazione o dalla consacrazione appropriata. E fu decretato che chiunque, anche un papa o un cardinale, avesse partecipato a una transazione simoniaca, doveva essere ipso facto scomunicato.
L’opera di riforma del Concilio di Costanza fu in buona sostanza abbastanza fallimentare. I conciliaristi, infatti, parlavano di una riforma della Chiesa nel capo e nelle membra, ma le uniche misure pratiche che proponevano miravano esplicitamente a indebolire la posizione costituzionale e finanziaria del papa. C’erano effettivamente degli abusi legati ad una eccessiva centralizzazione da correggere; ma erano solo sintomi di un malessere più generale, una perversione diffusa della struttura degli uffici pastorali nella Chiesa che era generalmente tollerata perché forniva sinecure a molti individui ad ogni livello dell’amministrazione ecclesiastica. I riformatori di Costanza erano per lo più animati da buona volontà, ma non mostrarono un’adeguata comprensione del tipo di riforme che avrebbero potuto ridare slancio alle istituzioni ecclesiastiche.
Il Concilio fu sciolto il 22 aprile del 1418.
Il problema della validità dogmatica dei documenti conciliari
Il problema della validità dogmatica è stato sollevato soprattutto in relazione ai succitati decreti Sacrosancta e Frequens. La Frequens, tuttavia, ha un’importanza relativamente minore. Sebbene ispirata da un’ideologia conciliarista abbastanza estrema, si trattava in sostanza di una riforma amministrativa che, come molte altre misure di questo tipo adottate nei concili generali, fu attuata finché sembrò promuovere il benessere della Chiesa e abbandonata quando apparentemente non lo fece. La Sacrosancta, invece, si presenta con l’aspetto di una definizione dogmatica. Nella discussione sulla validità dogmatica della Sacrosancta sono coinvolti due problemi. Quando l’assemblea di Costanza è diventata un concilio ecumenico legittimamente convocato? E quali decreti dell’assemblea ha confermato Papa Martino V? Pochi torici del dogma sostengono che Giovanni XXIII fosse un papa legittimamente eletto o che l’assemblea da lui convocata (novembre 1414) fosse, fin dall’inizio, un legittimo concilio ecumenico. Molti ritengono che lo sia diventato con la convocazione da parte di Gregorio XII (luglio 1415). Altri sostengono che il Concilio abbia acquisito un carattere ecumenico solo dopo l’adesione degli spagnoli (ottobre 1416). Sembra abbastanza certo che le ultime quattro sessioni, tenutesi dopo l’elezione di Martino V (novembre 1417), siano state sessioni di un concilio ecumenico legittimo. La Sacrosancta fu promulgata prima dell’intervento di Gregorio. Pertanto, se si accetta l’opinione della maggioranza, l’intera questione della sua validità dipende dal fatto che sia stata successivamente confermata da Martino V.
Martino non era certo un conciliarista. Parlando in concistoro il 10 marzo 1418, vietò di appellarsi al papa per un futuro concilio ecumenico. D’altra parte, non era possibile per lui ripudiare in toto il lavoro del Concilio: farlo sarebbe stato come ripudiare la validità della sua stessa elezione. La dichiarazione più importante dello stesso Martino sull’intera questione si ebbe durante la sessione conclusiva del concilio, il 22 aprile 1418. In questa occasione, i rappresentanti polacchi chiesero al papa una condanna esplicita di Falkenberg. Martino mise a tacere il clamore che si sollevò e poi dichiarò che avrebbe sostenuto e osservato inviolabilmente tutto ciò che era stato deciso in materia di fede dal Concilio nella sua conciliarità e non altrimenti.
Sembra molto probabile che Martino V abbia espresso la sua approvazione per la Sacrosancta. Sembra però altrettanto probabile che non l’abbia intesa nel senso dei conciliaristi più radicali. Il decreto si riferiva a “qualsiasi altro concilio ecumenico legittimamente riunito”. Tranne che nelle circostanze particolari che prevalevano nel 1415, un tale concilio sarebbe stato necessariamente convocato da un papa. I suoi decreti legittimi sarebbero stati quelli promulgati dal papa e dai padri in concerto tra di loro. Ed è, ovviamente, del tutto corretto affermare che un papa, come qualsiasi altro cristiano, è vincolato da tali canoni conciliari in materia di fede. Comunque sia, sembra chiaro che un decreto emanato da un’assemblea di notabili ecclesiastici (che probabilmente non costituivano un concilio validamente convocato al momento dell’emanazione) e successivamente approvato da un papa in un discorso non premeditato pronunciato nella foga di un dibattito concitato non può essere considerato come una solenne definizione dogmatica di un legittimo concilio ecumenico. Può darsi che il decreto sia suscettibile di un’interpretazione ortodossa. Può darsi invece che il papa e i prelati riuniti a Costanza si siano semplicemente sbagliati. Un risultato importante della ricerca moderna su questa questione è stato quello di sottolineare quanto siano rare le circostanze in cui i pronunciamenti dottrinali dei papi possono essere considerati definizioni infallibili.
Adriano Virgili
Alcuni riferimenti bibliografici:
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Giuseppe Alberigo (a cura di), Decisioni dei concili ecumenici, Torino, UTET, 1978
Pierre-Thomas Camelot, Paul Christophe, Francis Frost, I concili ecumenici, Brescia, Queriniana, 2001
Klaus Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna, EDB, 2012
Marina Benedetti (a cura di), Storia del cristianesimo. L’età medievale (secoli VIII-XV), Roma, Carocci, 2015
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