Stupirà, ma non necessariamente le epidemie sono il preludio inevitabile di una crisi economica di vasta scala. Se l’epidemia è sufficientemente disastrosa (tipo: se stermina il 50% della popolazione mondiale, come nel caso della Morte Nera del 1348), questo fa sì che i sopravvissuti possano beneficiare di un mercato del lavoro insolitamente favorevole. Se all’imprenditore sopravvissuto serve un dipendente per andare avanti, e tu sei l’unico a inviare il CV perché tutti gli altri sono morti, sei indubbiamente nella situazione di avanzar pretese sulla busta paga.
Di questa tragica fortuna beneficiarono, nel Medioevo, soprattutto i lavoratori che avevano qualche competenza al di sopra della media. Chessò: gli scalpellini che impreziosivano i capitelli delle chiese; i copisti che assemblavano libri per le università. Ma neanche i contadini ebbero di che lamentarsi.
In fin dei conti, un signore feudale senza terre coltivate è poco più di un nobile decaduto. E ovviamente le terre non si coltivano da sole, se il 50% dei tuoi contadini è morto nell’arco di pochi mesi.
Con le buone o con le cattive (nel 1358 e nel 1381, l’Europa fu scossa da violente rivolte popolari), i contadini riuscirono ad affrancarsi dalla servitù della gleba sostituendola con un sistema di contratti annuali che impiegavano l’agricoltore per non più di dodici mesi, a fronte di una paga che veniva stabilita a seguito della trattativa tra dipendente e datore di lavoro. “Liberi professionisti” (e tra i più richiesti!) i contadini avevano dunque la chance di ridiscutere le proprie condizioni economiche alla scadenza di ogni contratto, se non addirittura di cercarsi un nuovo lavoro quando pensavano di poter trovare condizioni più favorevoli.
Ed è proprio questa la ragione dell’insolito via-vai di agricoltori che la memoria popolare associa ancor oggi a festività religiose come quella di san Michele (29 settembre) o san Martino (11 novembre). Erano quelle le due date in cui, convenzionalmente, scadeva la maggior parte dei contratti agrari, al termine del periodo della raccolta o (alternativamente) o alla conclusione dei lavori necessari per preparare i campi per l’inverno.
E quindi, sì: in quelle date, la gente si muoveva. Immaginate un vero e proprio trasloco collettivo, con feste di addio per i colleghi che se ne andavano e con brindisi di benvenuto per i nuovi assunti. Immaginate matrimoni tra coppiette che si univano poco prima di iniziare una nuova vita assieme. Immaginate, semplicemente, una grande festa popolare data dalla gioia di aver concluso il periodo, pesantissimo, della raccolta.
Davvero erano date importanti, quelle di san Michele e san Martino. Davvero erano date che – a seconda delle aree geografiche e delle tradizioni locali – segnavano una sorta di “Capodanno agrario”: realmente una fine e realmente un inizio.
E come sempre capita in occasione dei Capodanni e delle grandi feste popolari, attorno a una data così sentita si svilupparono, nel corso dei secoli, mille e mille tradizioni.
Qui ne riporto una decina, casomai a qualcuno di voi venisse voglia di festeggiare un san Michele… proprio come una volta!
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1. Fare una bambola di granoturco
La bambola di granoturco che molti di noi potrebbero ricordare di aver visto nelle case di campagna delle nostre nonne deriva probabilmente da un’antica tradizione pre-cristiana, e cioè quella di concludere la stagione della raccolta creando scherzosamente un fantoccio di una, non meglio precisata, “signora dei campi”. Roggenmuhme in Germania, Pzenna Baba in Polonia, questo nume tutelare della raccolta era una via di mezzo tra lo spaventapasseri e il fantoccio antropomorfo, costruito con le rimanenze della raccolta e tradizionalmente portato in trionfo in mezzo ai campi ormai spogli, a sottolineare la fine dei lavori.
Col passar dei secoli, l’usanza venne gradualmente cristianizzata e ridimensionata – in tutti i sensi. Quel fantoccio che una volta assumeva un valore quasi magico, devozionale, si trasformò gradualmente in un balocco per bambini e/o in una decorazione domestica come tante, fatta con paglia o (più recentemente) con foglie di granoturco.
2. Abbandonarsi alla satira sociale
In un giorno in cui, sostanzialmente, si festeggiava il fatto d’aver abbandonato il datore di lavoro in virtù di un contratto più vantaggioso trovato altrove, era tutt’altro che infrequente che le celebrazioni popolari prendessero la forma di una satira sociale. Spesso, il contadino che s’era distinto per esser stato il più abile mietitore della stagione veniva scherzosamente proclamato il Signore della Raccolta (e, talvolta, fatto sposare col fantoccio antropomorfo di cui sopra). Era una sorta di piccolo Carnevale – per il tempo di una giornata appena, prima di tornare al solito tran tran.
3. Ammazzare l’oca
Nell’Europa continentale, la cena a base d’oca è tradizionalmente associata al giorno di san Martino. Nelle isole britanniche, invece, è tradizione portarne una in tavola in occasione della festa di san Michele: secondo la tradizione, il succulento arrosto porterà prosperità alla famiglia nell’anno entrante (un po’ come il nostro cotechino con lenticchie da mangiare nella notte di san Silvestro).
4. Giocare al… gioco dell’oca
Tanto forte era, nelle isole britanniche, l’associazione tra l’oca e il giorno di san Michele che il simpatico pennuto finì col battezzare anche un divertente gioco che teneva occupati i popolani in quel dì di festa.
Per farla breve: chiunque, nel giorno di san Michele, si fosse avventurato fuori casa correva il rischio di essere “acchiappato” da un buontempone che, autoproclamatosi Mamma Oca, pretendeva di trascinare dietro di sé i suoi pulcini.
Avete presente l’ordinata fila indiana con cui gli anatroccoli procedono dietro alla loro madre? Ecco: gli sventurati che venivano coinvolti in questo gioco erano chiamati a seguire devotamente la loro “mamma oca” – che, generalmente, prima di congedarli, li trascinava attraverso percorsi impervi come prati di rovi, terreni fangosi, torrentelli da guadare e così via dicendo.
5. Radunarsi attorno a un falò
Meno burlona, e più strettamente legata alla religione, era la tradizione (particolarmente diffusa nell’Europa continentale) di radunarsi attorno a un falò che veniva acceso su una montagna, su una collina o comunque sul punto più sopraelevato a disposizione.
È noto infatti (o, quantomeno, era noto ai nostri antenati) che san Michele arcangelo apprezza le alture (e infatti, quasi tutti i suoi santuari sono stati costruiti sul cucuzzolo di un monte). Alpinista così appassionato, san Michele avrebbe probabilmente apprezzato un falò acceso per lui sulla cima d’una montagnola!
6. Dare l’elemosina ai poveri
Altra attività che un angelo avrebbe presumibilmente approvato non è vero? E così, in varie aree d’Europa, era tradizione approfittare del giorno di san Michele per elargire un po’ di denaro ai più bisognosi.
La pia opera poteva assumere connotati diversi da zona a zona. C’era chi, nei giorni precedenti alla festa, donava qualche denaro alla chiesa locale che avrebbe poi provveduto a ridistribuirli. C’era chi ne approfittava per regalare materiale scolastico ai figli delle famiglie povere: le scuole avrebbero riaperto di lì a poco. C’era chi decideva di far trovare un extra in busta paga (e/o un… TFR vantaggioso) ai suoi dipendenti, in quel dì di festa. Uno solo era l’imperativo: non dimenticarsi di chi ha bisogno.
7. Spartire coi bisognosi la torta di san Michele
Nelle isole britanniche, e in Scozia in particolar modo, era d’uso preparare in occasione della festa di san Michele una caratteristica focaccia dolce. La ricetta originale (che secondo me fa un po’ orrore ai nostri schizzinosi palati moderni…) prevedeva una caterva di farine diverse unite in un’unica miscela, senza lievito, e poi fatte cuocere in una teglia bassa e tonda, a formare ‘na specie di focaccia pesante come un mattone.
Due, le particolarità legate alla preparazione di questa torta: l’impasto doveva essere mescolato a turno da tutte le donne della casa (rigorosamente a mano: portava bene!) e la torta doveva essere spartita con tutte le persone che sarebbero entrate in quella casa nel dì di festa. Parenti, domestici, postini, mendicanti: tutti avevano diritto a una fetta!
8. Preparare ugualmente una torta, ma darle un valore propiziatorio (se non divinatorio)
Nell’Europa continentale si andava molto più per le spicce: le torte di san Michele, la gente se le teneva per sé. E grazie tante.
Mani di pasta frolla, sul suo blog, riporta la ricetta di una torta dedicata a san Michele nel cui impasto è nascosto un fico secco. Il commensale che se lo troverà nella fetta che gli è stata servita avrà di che rallegrarsi: secondo la credenza popolare, lo sguardo di san Michele s’è posato benevolo su di lui!
Nell’Europa centro-settentrionale, la tradizione assume una sfumatura diversa. All’interno dell’impasto, viene nascosta una fede nuziale: la torta viene servita alle ragazze da marito, una delle quali esploderà di gioia. Trovare la fede nuziale nella propria fetta, infatti, è una promessa di un matrimonio a breve: entro il san Michele prossimo venturo, la ragazza sarà a sua volta fidanzata!
9. Mangiare le ultime more della stagione
Secondo una diffusa leggenda, quando san Michele scacciò Lucifero dal Paradiso scaraventandolo sulla terra, il diavolo finì con lo spiattellarsi su un grosso cespuglio di more. Con grande scorno di chi, l’indomani (cioè il 30 settembre, secondo la leggenda) si avviò speranzoso nel bosco per raccogliere i suoi frutti: ammaccate e spiaccicate, le deliziose more erano ovviamente da buttare.
E fu così – racconta la leggenda – che la popolazione prese l’abitudine di consumare tutti i frutti di bosco entro la festa di san Michele: per onorare nei secoli la vittoria del potente arcangelo. (…o, più probabilmente, per dare alle more una “data di scadenza” facilmente memorizzabile: entro quale data non è più il caso di raccoglierle perché sono diventate acide?).
Ergo: tradizionalmente, nel giorno di san Michele, si preparava una marmellata con le more rimaste inutilizzate. E buon appetito!
10. Iniziare un nuovo lavoro
In omaggio alla tradizione per cui i braccianti cambiavano lavoro nel giorno di san Michele, non era infrequente che si scegliesse il 29 settembre per gestire l’avvicendamento di personale anche in quelle realtà lavorative che non avevano nulla a che vedere col lavoro nei campi. In particolar modo, era frequente che i personaggi che ricoprivano una carica pubblica si insediassero nel loro ufficio proprio in quel giorno.
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Articolo originariamente apparso sul blog Una Penna Spuntata
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