Ipazia è una figura storica, sicuramente esistita, che sappiamo essere morta assassinata nel V secolo dopo Cristo, ad Alessandria, sotto l’episcopato di Cirillo (412-444)[1], probabilmente nel 416[2].
Una donna colta, un’intellettuale, che insegnava, un’appassionata di scienza e di astronomia, avida di sapere e circondata da numerosi discepoli, che “non aveva vergogna di mescolarsi a persone di sesso maschile, perché tutti, non appena volgevano lo sguardo su di lei, così straordinariamente dignitosa, provavano un sentimento di reverenza[3]”. Forse per questo motivo (morale), o forse perché ritenuta colpevole della mancata rappacificazione tra il vescovo ed il prefetto, l’unica certezza è che, capeggiati da un certo Pietro, alcuni uomini compiono un delitto efferato, proprio nel Cesareo, per di più durante i giorni del digiuno[4].
La sua colpa? Cultura pagana, in un contesto che diventava sempre più dominato dalla cultura cristiana. Non era sempre stato così: tutt’altro. Fino a poco tempo prima, era vero l’opposto. Il solo “nomen” cristiano poteva essere considerato un crimine[5]. In un altro contesto, in un’altra epoca, in un altro tornante della vicenda ecclesiastica, forse la vicenda di Ipazia non avrebbe nemmeno avuto modo di esistere.
Nei secoli, si sono succedute le interpretazioni su questo episodio e sulla sua figura, fino ad allontanarsi, via via, dal suo contesto storico originario, per acquisire sempre nuovi tratti, sfumature ed interpretazione, così che ciascuno potesse appropriarsi di una propria interpretazione di Ipazia. Rendendola, di volta in volta, una “bandiera di laicità”[6], cultura erudita e libertà d’insegnamento, “personificazione” della “quintessenza della razionalità dell’Occidente”[7] fino ad essere simbolo dell’emancipazione femminile, di fronte alla prepotenza di una società improntata su un modello maschile, incapace di accogliere istanze differenti. Non ultimo, interroga chiunque sulla linea – non sempre sottile – che demarca il confine tra evangelizzazione in nome della pubblica moralità e accoglienza dialogica di quei “semina Verbi” di cui parla il concilio Vaticano II, in diversi suoi documenti, tra cui Nostra Aetate[8]oppure Ad Gentes[9].
Dal punto di vista prettamente storico, è interessante la rilettura che vede nell’epoca di Ipazia il concretizzarsi della congiuntura di eventi diversi, che concorrono, però, all’immagine di una “totalità infranta” dell’“orbe terracqueo”[10]. Tra i vari elementi, possiamo rilevare senz’altro l’editto di Tessalonica, emanato da Teodosio nel 380, che fa assurgere il cristianesimo, ormai religione ufficialmente accettata (dall’editto del 313 di Costantino e Licinio), a religione ufficiale dell’impero, cui spettano privilegi e favori particolari (già dall’epoca di Costantino, ad esempio, sono concesse esenzioni al clero, che spingono nella direzione di “un invito a una collaborazione”, più ancora di una “liceità di culto”[11]).
Tutto ciò porta – specie in zone “di confine” dell’impero, in cui entrano in contatto diverse culture – ad un equilibrio particolarmente precario tra la cultura pagana consolidata dalla “consuetudine” e la novità, difficile da inquadrare agli occhi dei pagani[12], di un cristianesimo che cerca, tuttavia, di far tesoro delle critiche rivolte al suo scarso fondamento filosofico rivolte da Porfirio e Celso, come si può vedere nei primi apologeti cristiani, come il filosofo Giustino.
L’assassinio di Ipazia, per la molteplicità di prospettive con cui può essere osservata può definirsi senz’altro esemplare come episodio dalle svariate letture, che si inserisce in un contesto complesso, per cui acconsentire che Ipazia diventi emblema di questo o quell’aspetto finisce – in ogni caso – per essere una forma di riduzionismo, rispetto alla complessità della realtà in cui un simile evento avviene. Semplificarlo come episodio di intolleranza religiosa – a maggior ragione, se si sceglie di usarlo come escamotage per asserire che tale modus operandi sia la norma di diffusione del cristianesimo, non è solo un azzardo, ma una fallacia conclamata –[13]. Tanto più se lo si pensa in contrapposizione ad una tolleranza religiosa dell’antichità, vista secondo un’interpretazione anacronistica, cioè secondo un paradigma illuminista[14]. Lo stesso dicasi, tuttavia, di chi voglia affidargli un significato unicamente politico, innestandosi sul nuovo rilievo dell’episcopato, nei confronti del potere civile: basta confrontarsi con le parole di Ambrogio a Valentiniano[15], per comprendere che, anche tra gli ecclesiastici più compromessi col potere civile, difficilmente sfuggiva la portata escatologica e soteriologica della missione cristiana (specialmente, nei confronti dei pagani).
Come spesso accade, è solo nella considerazione di tutti – o, realisticamente, almeno, del maggior numero di essi[16] – i fattori concorrenti un determinato evento, che è possibile comprendere, nel modo più storiograficamente corretto possibile, le cause profonde che lo hanno determinato e da cui esso è scaturito.
Maddalena Negri
[1] Considerato, da molti, il “mandante morale”, poiché, pur non avendovi partecipato direttamente, non intratteneva buoni rapporti con Ipazia, anzi mal digeriva la simpatia di lei per il prefetto Oreste, come veniamo a sapere da Socrate Scolastico (Socrate Scolastico, HE 7,15)
[2] Stando a quanto si può evincere dal brano succitato di Socrate, dal momento che parla di “quarto anno dell’episcopato di Cirillo, essendo consoli Onorio per la decima volta e Teodosio per la sesta, nel mese di marzo, in tempo di quaresima.”
[3] Socrate Scolastico, ibidem
[4] Sono questi i dettagli che fornisce l’ariano Filostorgio, come riportato da S. Ronchey, Ipazia. La vera storia, Rizzoli, 2010, p. 178
[5] Nonostante il Rescritto (di Adriano) a Minucio Fundano (122/123) – riportato in Giustino, 1Apol 69 e in Eusebio, HE 4,9 – inviti, al contrario, a giudicare i cristiani “in base alla gravità della colpa”.
[6] S. Ronchey, op. cit., p.9
[7] F. Pieri, Ipazia e l’Occidente: la parabola di Agora, in Dionysus ex machina II (2011), p. 525
[8] Numero 2: “La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.”
[9] Numero 11: “[I cristiani] debbono conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti”
[10] F.Pieri, ibidem
[11] M. Sordi
[12] Come emerge dalla “cittadinanza paradossale” raccontata dall’anonimo della Lettera a Diogneto ( “Ogni terra straniera è, per loro patria; ogni patria è, per loro, terra straniera” – 5.5.)
[13] Dal momento che, al contrario, non è stata la forza né “l’alleanza con il potere”, bensì la persuasione, particolarmente, tramite “la novità del suo stile di vita”, “la sua rete solidaristica”, “la dignità che vi ricevano categorie sociali marginali – in particolare, gli schiavi, le donne, i neonati -”, oltre che alcuni aspetti della “vita comunitaria” (F. Pieri, op.cit., p. 529). Ciò si può evincere, per altro, anche da E. Norelli (La nascita del cristianesimo, Il Mulino, 2018, p.171).
[14] Questa è la vulgata veicolata – in modo più o meno diretto – anche dal film Agora, in cui non emerge la visione religiosa dell’antichità, al contrario strettamente legata alla società civile, secondo il concetto della pax deorum (F. Pieri, op.cit., p. 528).
[15] Con queste parole si rivolge, infatti, all’imperatore: “Anche voi siete agli ordini di Dio onnipotente e della sacra fede. Ché altrimenti non vi potrà essere salvezza certa, se ciascuno non adorerà sinceramente il Dio vero, cioè il Dio dei cristiani dal quale è retta ogni cosa” (Lettera XVII, 1.3)
[16] Perché, come nota, correttamente, S. Ronchey, con un’eco vagamente kuhniana: “L’evento in sé e per sé, tale e quale si è riprodotto, non riusciremo mai veramente a ricostruirlo”, “tanto più per gli eventi che, come quelli che hanno circondato la vicenda di Ipazia, mantengono vasti margini di segretezza o di indicibilità, di un tipo o dell’altro, rispetto alle parti in causa” (op. cit., p.185).
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