Alvin Plantinga e il suo contributo alla filosofia della religione #religione

Breve panoramica

Durante l’era post-positivista della filosofia analitica, la filosofia della religione e la teologia filosofica erano spesso viste come residuati di superstizioni obsolete. Critiche influenti al teismo classico, come le riflessioni di Antony Flew su miracoli e teologia naturale, l’analisi di John Mackie sul libero arbitrio, e l’interpretazione non cognitiva del linguaggio religioso di R.M. Hare dominavano, sembrando chiudere le porte a future difese filosofiche delle credenze tradizionali. Tuttavia, il panorama all’inizio del XXI secolo è radicalmente diverso, con un rinnovato interesse per una difesa razionale del teismo, in particolare del cristianesimo, grazie a filosofi come William Alston, Richard Swinburne, e Nicholas Wolterstorff, e in modo particolare, Alvin Plantinga.

Nato il 15 novembre 1932 in Michigan, nella città di Ann Arbor, Alvin Carl Plantinga ha completato i suoi studi in filosofia presso il Calvin College (ottenendo il bachelor nel 1954), l’Università del Michigan (master nel 1955), e l’Università di Yale (dottorato nel 1958). Ha prestato servizio come docente alla Wayne State University e al Calvin College, per poi essere nominato, nel 1982, titolare della cattedra John A. O’Brien di filosofia all’Università di Notre Dame, posizione che mantenuto fino al suo pensionamento nel 2010. Da allora è ritornato al Calvin College, dove ricopre il ruolo di primo titolare della cattedra “William Harry Jellema” in Filosofia. Plantinga ha inoltre diretto il Center for Philosophy of Religion di Notre Dame dal 1984 al 2002. Ha ottenuto numerosi finanziamenti per la ricerca e ha tenuto molteplici conferenze di prestigio, incluse due serie di Gifford Lectures presso l’Università di Aberdeen, ed è autore di un’ampia gamma di pubblicazioni, inclusi libri e articoli su riviste specializzate.

Il contributo di Plantinga alla filosofia della religione contemporanea è stato notevole e ha esteso il suo influsso anche alla metafisica analitica e all’epistemologia. Nel suo lavoro “The Nature of Necessity” (1974), ha introdotto distinzioni terminologiche fondamentali per il discorso sui mondi possibili e sulla logica modale. La sua teoria della conoscenza esternalista, esposta in “Warrant and Proper Function” (1993), ha animato il dibattito epistemologico successivo ai problemi sollevati da Edmund Gettier. Plantinga ha dunque segnato profondamente la filosofia, avendo avuto come pochi altri filosofi contemporanei un impatto così vasto e significativo su vari ambiti della disciplina.

L’apporto di Alvin Plantinga alla filosofia della religione si estende su due dimensioni principali: contenuto e metodologia. Mentre il primo aspetto ha attratto maggiormente l’attenzione di sostenitori e detrattori, il secondo rivela un’influenza più ampia. Infatti, molti filosofi della religione, anche quelli che trattano temi distanti da quelli specificamente indagati da Plantinga, adottano approcci metodologici che si possono ricondurre alla sua innovativa impostazione. Per comprendere appieno il contributo del filosofo americano a questo campo di indagine, è essenziale considerare entrambe queste dimensioni.

La carriera di Plantinga in questo campo si è articolata in varie fasi:

La fase del teismo razionale: questa prima fase, evidenziata in particolare nell’opera “God and other minds” (1967), ha gettato le basi per i successivi tre decenni di riflessioni sul tema.

La fase modale: ha esplorato le implicazioni della metafisica modale per la filosofia della religione classica, culminando nella formulazione con la sua famosa versione modale dell’argomento ontologico e nella sua ingegnosa difesa del libero arbitrio, presentate rispettivamente in “The Nature of Necessity” (1974) e “God, Freedom, and Evil” (1974).

La fase dell’Epistemologia Riformata: ha elaborato una difesa dettagliata della credenza teistica da una prospettiva teologica riformata, dividendo questa fase in due parti principali. La prima, esposta in “Reason and bilief in God” (1983), e la seconda in “Warranted Christian Belief” (2000).

Plantinga ha arricchito il dibattito con nuove critiche agli argomenti sull’esistenza di Dio, attacchi alla probabilità a priori e ad altre nozioni chiave per l’argomentazione induttiva del problema del male, e incursioni nella teologia filosofica, sempre caratterizzate da argomentazioni ben strutturate e risultati spesso sorprendenti.

Le metodologie innovative introdotte da Plantinga nel campo della filosofia della religione si distinguono per:

  1. Una difesa indiretta del teismo che invita gli scettici a formulare obiezioni contro la fede in maniera chiara e rigorosamente filosofica. Plantinga sostiene che, senza un tale livello di analisi filosofica, il teismo assume una razionalità implicita, simile a quella di numerose altre credenze che non sono sostenute da argomentazioni filosofiche dettagliate o confutazioni incontrovertibili.
  2. Un’indagine descrittiva che inizia dall’osservazione diretta delle credenze religiose, accettandole per quello che affermano di essere, per poi valutarne la coerenza e legittimità attraverso un’analisi normativa attenta alla loro plausibilità filosofica.
  3. Una prospettiva personalizzata sulla razionalità e su altri aspetti epistemici, suggerendo che particolari basi epistemiche possono validare la razionalità o la giustificazione della fede per alcuni individui, pur non estendendo automaticamente tale validità a tutti gli osservatori.
  4. L’adozione di strumenti avanzati propri della filosofia analitica, inclusi argomentazioni logiche complesse, come quelle modali e probabilistiche, e un’analisi dialettica che integra le più recenti teorie epistemologiche, filosofiche della scienza e di discipline correlate.

Questi elementi, caratteristici della filosofia analitica moderna, si avvalgono di un ragionamento preciso e articolato. Plantinga, con queste metodologie, ha contribuito a un significativo avanzamento nella filosofia della religione, dimostrando la necessità di un’attrezzatura filosofica aggiornata e approfondita per affrontare le questioni contemporanee in questo ambito.

Tutti questi approcci riflettono il meglio degli atteggiamenti della filosofia analitica della fine del XX secolo. Inoltre, sono portati avanti nel contesto di un’argomentazione chiara e precisa.

Dio e le altre menti

Successivamente, Plantinga sfida l’idea sottostante a tale critica, ossia che una credenza teistica razionale richieda argomentazioni forti a suo favore. Mette in evidenza come l’assenza di prove dimostrative non debiliti la credenza teistica più di quanto non faccia con la posizione atea, dato che entrambe le visioni del mondo condividono una simile mancanza di argomentazioni empiricamente incontrovertibili. Attraverso un’esplorazione dell’argomento del male e altre sfide al teismo, Plantinga illustra come queste obiezioni non conducano necessariamente a un agnosticismo giustificato, poiché presuppongono erroneamente che la razionalità dipenda esclusivamente da argomentazioni forti.

Nel suo lavoro fondamentale “God and other minds”, Plantinga esplora una delle critiche più antiche e rispettate alla fede teistica: l’idea che la credenza in un Dio onnisciente, onnipotente e moralmente perfetto sia irrazionale, data la mancanza di prove incontrovertibili a suo sostegno. Invece di accettare questa critica, Plantinga la esamina in modo approfondito, dedicando la prima parte del libro a un’analisi critica delle argomentazioni teistiche tradizionali, quali quelle cosmologiche, teleologiche e ontologiche, osservando come nessuna di esse riesca a fornire quegli elementi di certezza rispetto all’esistenza di Dio che la teologia razionale si è da sempre prefissata di raggiungere.

Il libro prosegue affrontando il “problema delle altre menti”, ovvero la questione su come possiamo sapere o credere razionalmente nell’esistenza di menti oltre la nostra. Plantinga critica l’argomento dell’analogia, comunemente usato per giustificare questa credenza, mostrando come questo soffra delle stesse debolezze logiche degli argomenti teistici tradizionali. Questa analisi porta alla conclusione che la richiesta di prove incontrovertibili non è necessaria per giustificare razionalmente una credenza, sia essa nella mente altrui o in Dio.

Concludendo, Plantinga suggerisce che se consideriamo razionale la credenza in altre menti senza prove stringenti, allora dovremmo considerare altrettanto razionale la credenza in Dio, aprendo la strada a una nuova comprensione della razionalità della fede teistica. Questa riflessione non solo mette in discussione l’assunzione che la fede richieda giustificazioni empiriche forti, ma invita anche a una riconsiderazione più ampia del ruolo dell’argomentazione e della prova nel giustificare le nostre credenze più profonde.

La riflessione di Plantinga sul fallimento argomentativo delle prove dell’esistenza di Dio apre a due distinte interpretazioni, che riflettono differenti livelli di esigenza per la razionalità della credenza teistica. Queste interpretazioni possono essere distinte in:

Tesi della Razionalità Debole: questa prospettiva sostiene che è possibile mantenere razionalmente una credenza teistica senza avere accesso a un argomento che sia universalmente convincente o formalmente dimostrativo di tale credenza. In altre parole, una persona può ritenere razionale la fede in Dio anche in assenza di argomentazioni che costringano ogni osservatore razionale all’assenso. Questo approccio ammette due scenari: una persona può considerare convincente un argomento a favore dell’esistenza di Dio, pur riconoscendo che tale argomento potrebbe non persuadere tutti; una persona potrebbe non conoscere alcuna argomentazione che ritenga convincente per sé o per altri, ma può ancora mantenere la propria fede teistica in modo razionale.

Tesi della Razionalità Forte: Questa tesi va oltre, affermando che è razionale sostenere la credenza teistica anche in totale assenza di argomentazioni che la persona ritenga convincenti. Qui, l’enfasi è sulla possibilità di una razionalità della fede svincolata dalla conoscenza di argomentazioni specificamente teistiche.

Entrambe le interpretazioni giocano un ruolo cruciale nell’evoluzione del pensiero di Plantinga. Durante la sua “fase modale”, egli formula un’argomentazione ontologica che si adatta ai criteri della Tesi della Razionalità Debole, ovvero un’argomentazione che, pur non essendo universalmente accettata come definitiva, può rafforzare la razionalità della credenza in Dio per alcuni credenti. Successivamente, nell’ambito dell’epistemologia riformata, Plantinga approfondisce la Tesi della Razionalità Forte, proponendo una visione della fede teistica come razionalmente sostenibile anche senza il sostegno di argomentazioni convincenti.

Questo sviluppo del pensiero di Plantinga offre una prospettiva rinnovata sulla credenza religiosa, suggerendo che la razionalità della fede in Dio può essere mantenuta anche in assenza di prove dimostrative o argomentazioni irresistibili, ponendo le basi per un approccio più inclusivo e personale alla razionalità religiosa.

La fase iniziale della carriera di Plantinga, dedicata al teismo razionale, seppur preliminare, è già densa di approcci metodologici sofisticati che avrebbero successivamente influenzato e rinnovato il campo della filosofia della religione. Nel suo lavoro “God and other minds”, la difesa di Plantinga del teismo razionale si distingue per essere indiretta: piuttosto che presentare nuovi argomenti a favore del teismo, si dedica a sottolineare l’assenza di critiche incisive e definitivamente convincenti contro di esso. Questo approccio non mira a sconfiggere l’ateismo con argomentazioni irrefutabili, ma piuttosto a evidenziare la mancanza di una base solida per il rifiuto categorico del teismo.

Plantinga adotta un metodo descrittivo, partendo dall’osservazione condivisa che la credenza nell’esistenza di altre menti è universalmente considerata razionale. Da questo punto di vista, qualsiasi tentativo di negare la razionalità della fede in Dio appare come un revisionismo estremo che potrebbe condurre a uno scetticismo totale, minando le fondamenta stesse della ricerca filosofica.

La sua strategia è anche caratterizzata da una certa modestia: Plantinga non asserisce che l’ateismo sia irrazionale e, di conseguenza, non pretende che il rifiuto del teismo sia un segno di irrazionalità. Invece, propone una visione del teismo come posizione razionalmente sostenibile, senza imporre questa conclusione a chiunque.

Infine, l’approccio di Plantinga è innovativo anche da un punto di vista metodologico, utilizzando concetti e strumenti avanzati di logica, metafisica ed epistemologia per articolare le sue critiche agli argomenti classici a favore e contro l’esistenza di Dio. Questa metodologia non solo dimostra la profondità della sua analisi ma anche la sua capacità di rivitalizzare il dibattito sulla filosofia della religione, introducendo nuove prospettive e sfidando le posizioni consolidate.

Logica moderna e teismo

“The Nature of Necessity” (1974), ritenuto da molti il capolavoro di Plantinga, si distingue non come un trattato sulla filosofia della religione, ma come un’ambiziosa elaborazione di una teoria della modalità che esplora in profondità i concetti di necessità, possibilità e contingenza. Quest’opera è celebrata come pietra miliare nel campo della metafisica modale, posizionandosi al fianco dei contributi di figure eminenti quali David Lewis, Saul Kripke e Ruth Marcus. Plantinga, aderendo al realismo modale, difende l’idea che i mondi possibili siano concepiti come stati di cose massimamente coerenti. Questa visione si presenta meno problematica rispetto all’idea di considerarli semplicemente come insiemi o proposizioni, offrendo un’alternativa più intuitiva rispetto alla controversa concezione di Lewis sulla reificazione dei mondi possibili.

Come attualista, Plantinga sostiene che le entità possiedano proprietà unicamente nei mondi in cui effettivamente esistono. Questa prospettiva, insieme ad altri aspetti del suo lavoro, contribuisce a definire una semantica e una struttura logica apprezzate per la loro applicabilità pratica e coerenza teorica nel campo della logica modale.

Nei capitoli conclusivi di “The Nature of Necessity”, il filosofo americano estende il suo quadro modale per affrontare due questioni centrali nella filosofia della religione che avevano già caratterizzato gran parte del suo lavoro precedente: l’argomento ontologico e la difesa del libero arbitrio in risposta all’argomento del male.

Nel decimo capitolo di “The Nature of Necessity”, Alvin Plantinga esplora una variante dell’argomento ontologico precedentemente discussa da Norman Malcolm (1960) e Charles Hartshorne (1962), basandosi sulla versione modale presente nel terzo capitolo del “Proslogion” di Anselmo d’Aosta. In questo contesto, Anselmo si concentra sulla necessità dell’eccezionale grandezza di Dio piuttosto che sulla sua esistenza effettiva. Plantinga, che aveva già esaminato e criticato l’approccio di Malcolm nel suo “God and Other Minds”, in “The Nature of Necessity” riprende tale critica per formulare una versione ritenuta valida dell’argomento.

Plantinga definisce l'”eccellenza massima” come la qualità di possedere al grado più elevato tutte le proprietà che conferiscono grandezza, e la “grandezza massima” come la caratteristica di avere eccellenza massima in ogni mondo possibile. Di conseguenza, propone il seguente schema argomentativo:

(P1) “Esiste un mondo possibile in cui la grandezza massima è esemplificata”.

(P2) “È necessariamente vero che un ente possiede grandezza massima se e solo se ha eccellenza massima in ogni mondo possibile”.

(P3) “È necessariamente vero che un ente con eccellenza massima sia onnipotente, onnisciente e moralmente perfetta”.

Da ciò segue che:

(C1) “La grandezza massima è manifestata in ogni mondo possibile”.

(C2) “Un essere onnipotente, onnisciente e moralmente perfetto esiste effettivamente, possedendo tali attributi in ogni mondo possibile”.

Sulla base della posizione attualista, che afferma che le entità possiedono proprietà solo nei mondi in cui esistono, questo argomento risulta valido secondo la logica modale S5. Le premesse (P2) e (P3) sono accettate come vere per definizione.

Il nucleo della discussione si concentra sulla veridicità di (P1). Plantinga, adottando un approccio cauto, pone l’accento sulla questione della verità della premessa principale, dichiarando: “La questione chiave, a mio avviso, è se la premessa principale sia vera. Credo che lo sia. Di conseguenza, considero questa forma dell’argomento ontologico come valida”. Contro chi potrebbe obiettare che la sua è un’argomentazione circolare, egli sottolinea che non è necessario che l’accettazione della premessa principale derivi unicamente dalla sua conclusione, difendendo così la legittimità dialettica del suo approccio.

Nel suo approccio, il filosofo americano non afferma di aver fornito una prova inconfutabile dell’esistenza di Dio. Piuttosto, egli osserva di aver sviluppato un ragionamento che supera la soglia della Tesi della Razionalità Debole: è razionale credere nell’esistenza di Dio basandosi sull’accettazione, giudicata epistemicamente valida, di tale argomento. Questo non implica che tutti saranno convinti dalla premessa (P1) o che considereranno l’argomento stesso convincente; per alcuni, infatti, questo non sarà sufficiente a fondare razionalmente il teismo. Tuttavia, ciò non invalida la posizione di Plantinga.

Nel nono capitolo di “The Nature of Necessity”, Plantinga propone una Difesa Modale della Libertà in contrapposizione all’argomento logico del male, che sostiene l’incompatibilità logica tra l’esistenza di Dio e quella del male. Secondo questo argomento, se Dio esiste, il male non dovrebbe esistere; poiché il male esiste, Dio non può esistere. La Difesa Modale della Libertà di Plantinga contesta questa visione, affermando che Dio e il male possono coesistere in un mondo che include la libertà morale degli esseri.

John Mackie ha offerto una circostanziata critica alla Difesa Modale della Libertà, argomentando che se la libertà implica la possibilità di un mondo in cui tutti gli esseri agiscono bene, allora Dio avrebbe potuto e dovuto creare tale mondo. Plantinga risponde introducendo il concetto di “depravazione transmondana”, sostenendo che la scelta degli enti liberi di compiere il male è indipendente dalla volontà divina. La depravazione transmondana suggerisce che, per ogni ente libero, esiste almeno un mondo possibile in cui quell’ente sceglie il male. Pertanto, un mondo con nti completamente liberi e senza male potrebbe non essere realizzabile. Di conseguenza, la coesistenza di Dio e del male in un mondo con enti moralmente liberi è logicamente possibile.

Plantinga, argomentando a favore della Difesa Modale della Libertà, si discosta dalla precedente modestia filosofica, affermando con forza che la sua argomentazione invalida l’accusa di incoerenza tra teismo ed esistenza del male. Questo cambiamento di tono segna un punto di svolta nella filosofia della religione, spostando il focus dall’argomento logico del male a quello induttivo.

L’Epistemologia Riformata

L’argomento ontologico modale rappresenta una brillante difesa della Tesi della Razionalità Debole (Tesi della Razionalità Debole) del teismo. Nei primi anni ’80, Plantinga ha avviato un’ampia difesa della Tesi della Razionalità Forte (Tesi della Razionalità Forte), che ha definito Epistemologia Riformata, poiché riflette i principi della teologia calvinista.

L’Epistemologia Rirormata mette in discussione l’evidenzialismo, l’idea secondo cui la credenza teistica razionale deve basarsi su prove proposizionali. La distinzione fondazionale tra credenze derivate e credenze basate su intuizioni razionali o esperienze percettive stabilisce le basi dell’epistemologia fondazionalista. L’evidenzialismo nega che la fede teistica possa essere giustificata in modo fondazionale. Al contrario, l’Epistemologia Riformata sostiene che la credenza teistica possa essere razionalmente fondata senza il bisogno di argomentazioni.

Nel suo testo fondamentale “Reason and Belief in God” (1983), Plantinga attacca l’evidenzialismo radicato nel Fondazionalismo Classico, definendo una credenza di base come autoevidente, incorreggibile o evidente ai sensi per il soggetto che la detiene. Queste credenze di base includono verità logicamente indiscutibili e percezioni dirette, escludendo di fatto le credenze teistiche se si accetta il Fondazionalismo Classico come valido, implicando così l’evidenzialismo.

Plantinga presenta due argomenti contro il Fondazionalismo Classico. Il primo sostiene che il Fondazionalismo Classico è eccessivamente restrittivo, escludendo molte credenze quotidiane non sostenute da esso e rendendole irrazionali secondo i suoi criteri. Il secondo argomento è più incisivo, sostenendo che il Fondazionalismo Classico stesso non soddisfa i criteri che impone alle credenze per essere considerate razionali, rendendolo autoreferenzialmente incoerente e quindi invalido.

Attraverso “Reason and Belief in God”, Plantinga non solo confuta il Fondazionalismo Classico ma, facendolo, fornisce una base per rifiutare l’evidenzialismo e legittimare l’Epistemologia Riformata. Questo approccio indiretto sottolinea che l’Epistemologia Riformata è giustificata dall’assenza di motivi validi per scartarla, riaffermando la possibilità di una credenza teistica razionalmente fondata al di là dell’evidenzialismo.

Plantinga affronta due principali obiezioni alla sua Epistemologia Riformata: l’obiezione della Grande Zucca e l’obiezione del fondamento. La prima, che prende il nome da un personaggio del fumetto “Peanuts” di Charles Schultz, suggerisce in modo riduttivo che se una credenza teistica può essere considerata fondamentale, allora potrebbe esserlo qualsiasi credenza, anche quelle apparentemente assurde come la fede nella Grande Zucca. Plantinga contrattacca specificando che l’Epistemologia Riformata si applica esclusivamente alla credenza teistica, senza pretese di estenderla ad altre credenze, le quali devono essere valutate individualmente.

L’obiezione del fondamento solleva dubbi sulla legittimità della credenza teistica in assenza di argomentazioni a suo favore, suggerendo che sarebbe priva di una base solida. Plantinga replica che le credenze ritenute propriamente di base, come quelle derivanti dall’esperienza sensoriale o dalla consapevolezza interiore, si appoggiano a forme di esperienza diretta; di conseguenza, se la credenza teistica si basa su esperienze significative, non è meno fondata di credenze percettive o psicologiche.

Questa argomentazione, esposta in “Reason and Belief in God”, segue un percorso indiretto, cercando di smantellare le obiezioni piuttosto che fornire prove dirette a favore del teismo. Plantinga si impegna a sfidare i pregiudizi contro la possibilità di considerare la credenza teistica come propriamente di base. Si chiede perché non dovremmo riconoscere una base legittima alla fede teistica, concludendo che non esistono argomenti validi contro questa prospettiva. In questo contesto, il suo intento non è quello di affermare che tutti dovrebbero accettare la credenza teistica come di base, ma piuttosto di aprire uno spazio filosofico per riconoscere che alcuni possono legittimamente farlo. Questo approccio dimostra la modestia della sua proposta e sottolinea l’apertura dell’Epistemologia Riformata verso una pluralità di basi razionali per la fede.

Nell’ultima tappa della sua elaborazione dell’Epistemologia Riformata, Plantinga estende l’analisi dalla credenza teistica generale alla specificità della fede cristiana, passando dalla questione della razionalità a quella della veridicità della conoscenza. Questa evoluzione inizia con la riflessione di su cosa sia necessario affinché una credenza teistica di base, ammesso che sia vera, possa essere considerata conoscenza vera e propria. Questo interrogativo lo conduce a esplorare la cosiddetta “funzione corretta”, un principio fondamentale che trasforma una credenza vera in autentica conoscenza.

Plantinga si distacca dall’idea che razionalità e giustificazione, intese in un senso strettamente internalista e cartesiano come promosso da Roderick Chisholm e altri, siano centrali per la conoscenza. Invece, volge la sua attenzione verso un orientamento esternalista, come quello proposto da Alvin Goldman.

Il filosofo americano introduce il concetto di “funzione corretta” per descrivere questo meccanismo trasformativo, argomentando che una credenza è giustificata, o ha “garanzia”, se e solo se deriva da facoltà cognitive che operano efficacemente in un contesto che favorisce il loro funzionamento corretto. Questo si applica tanto alle credenze generate tramite elaborazione razionale o deduttiva, quanto a quelle che emergono direttamente dall’esperienza sensoriale. Quando tali facoltà operano correttamente, le credenze che ne risultano sono non solo giustificate ma, se corrispondenti alla realtà, costituiscono conoscenza autentica. Così la mia credenza su ciò che ho mangiato a colazione, prodotta immediatamente sulla mia riflessione memoriale dalla mia facoltà memoriale cognitivamente non compromessa, è garantita e fondamentalmente vera.

In “Warranted Christian Belief” (2000), Plantinga amplia questa concezione alla fede cristiana attraverso il “modello d’Aquino/Calvino”. Sostiene che, sotto la grazia divina, gli esseri umani dispongono di una facoltà innata, il “sensus divinitatis” secondo Calvino, che genera credenze cristiane immediate e pienamente giustificate, analogamente a come si formano le credenze percettive o mnemoniche. Se le premesse fondamentali del cristianesimo sono vere, allora tali credenze non solo sono giustificate ma costituiscono vera conoscenza.

Questo approccio riflette un salto qualitativo nell’analisi di Plantinga, che passa dall’indagare la legittimità epistemica della fede teistica a stabilire le basi per una conoscenza cristiana autenticamente fondata. La “funzione corretta” si rivela così un principio chiave non solo per comprendere la natura della conoscenza in generale ma anche per apprezzare la profondità e la coerenza della fede cristiana come forma di sapere autentico e giustificato.

Nell’introduzione a “Warranted Christian Belief”, Plantinga distingue tra due diverse obiezioni al cristianesimo (e al teismo in generale): l’obiezione de facto, secondo cui le sue affermazioni centrali sono semplicemente false, e l’obiezione de jure, secondo cui la questione della loro verità è irrilevante poiché non hanno alcuna garanzia (anche qualora fossero vere, nessuno potrebbe saperlo). Potremmo pensare a queste obiezioni come a quelle metafisiche ed epistemologiche, rispettivamente, ed è naturale assumere che si tratti di questioni filosoficamente indipendenti. Dopo tutto, è possibile che qualcosa sia vero anche se nessuno può mai sapere che lo sia. Tuttavia, il modello d’Aquino/Calvino implica che la questione della garanzia del credo cristiano non possa essere separata dalla questione della sua verità. Se il cristianesimo è vero (come il cristiano crede), allora le credenze del cristiano costituiscono (o possono costituire) una conoscenza.

Adriano Virgili

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