Cultura della vita in tempi pandemici. #bioetica #covid19

Cultura della vita in tempi pandemici (1)

Scriveva Chesterton che «se è vero che gli specialisti sono preziosi al fine particolare e pratico di soccorrerci di fronte a enormi e riconosciute calamità, non hanno però il diritto di somministrarci la morte»(2).
Abbiamo assistito a vari abusi in questo tempo. In ognuno è stato facile individuare un giudizio di valore sulla persona umana tanto da diventare, in alcuni casi, una sentenza di morte.
Facciamo alcuni esempi.
I medici di famiglia olandesi hanno chiesto ai propri assistiti più anziani di firmare una sorta di contratto,
secondo il quale, in caso di COVID, avevano due possibilità: una lunga malattia o l’eutanasia lasciando che la malattia “facesse il suo corso” (3). La proposta presentata come una sorta di “selezione naturale” è in realtà una vera e proprio eutanasia selettiva, che considera la vita del soggetto in base a un giudizio di valore nei suoi confronti. La visione centripeta, dove tutto ruota attorno alla contingenza dell’utile e alla cecità del piacere come estremo rifiuto della sofferenza, senza limiti, ma soprattutto senza criteri di senso, tramuta la persona da soggetto a oggetto e da oggetto utile a oggetto non più utile. Questo determina che anche la società si chieda chi le serve e chi no, oppure chi supererà i costi rispetto agli utili, scegliendo, ad esempio, di “congedare” gli anziani con l’eutanasia.
Non è finita. In molti stati americani sono stati decisi nuovi programmi per affrontare la pandemia,
escludendo le persone con disabilità intellettive dalle sale operatorie e dalle terapie intensive. Il disprezzo
verso i disabili non è una novità per gli USA (4); basti pensare che furono circa novemila le persona malate di mente ad essere sterilizzate tra il 1907 e il 1928. Il caso più noto è sicuramente quello di Carrie Buck. Fatto sta che Paesi spesso eretti a modelli di liberalità hanno mostrato, per quanto concerne la considerazione del valore della persona umana, il loro vero volto.
Tra tutti, ad essere esaltata come “modello” dall’OMS è stata la Svezia. Il “modello svedese” stando al Wall
Street Journal mostra che per metà dei decessi si trattava di ospiti di case di cura per anziani. Pare, infatti,
che a questi non siano state date delle cure, ma subito “palliativi” a base di morfina e midazolam, un cocktail che inibisce la funzione respiratoria, dunque niente affatto “palliativa” (5). La scelta non sarebbe stata dei singoli medici, ma di politica sanitaria. L’ente nazionale per la salute avrebbe imposto ai medici di dividere i pazienti in triage in base all’età e poi anche alla salute e all’eventuale prospettiva di recupero.
§ La pandemia ha riesumato la mentalità eugenetica?
Guardando questa situazione con la lente d’ingrandimento, troviamo una modificazione radicale della
dimensione antropologica e valoriale con conseguente deprezzamento della persona umana. Quando si parla di “eugenetica” si fa sempre riferimento all’applicazione che ne ha fatto il nazismo, dimenticando che l’eugenetica in realtà non è un’invenzione del nazismo, ma è precedente (6). Così come anche, prima e dopo il nazismo, numerose società, da quelle anglosassoni a quelle svedesi, imposero la sterilizzazione dei “difettosi” – generalmente individui con ritardo mentale, ma anche alcolisti o prostitute – con programmi di igiene pubblica allo scopo di “preservare” la società dai mali che essi avrebbero propagato trasmettendoli alla loro progenie.
Proviamo ad utilizzare anche noi come “modello” la Svezia, per capire più a fondo questa mentalità che sfocia in una visione antropologica ed etica ben precisa: il funzionalismo.
Lo sviluppo dell’eugenetica svedese risale agli anni della trasformazione della nazione scandinava da Paese agricolo a società industriale urbanizzata (7). Questo momento storico collocava l’individuo all’interno di una nuova società, libera, che aveva appena eliminato il secolare modello corporativo e di rappresentanza parlamentare democratica, per mezzo di un sistema di governo liberale. Lo sviluppo della Rivoluzione industriale, però, si accompagnò a pesanti costi per la società; nello stesso periodo, vi fu poi un’esponenziale crescita del numero dei malati di mente, degli alcolizzati e dei fenomeni criminali, anche perché, rispetto al sistema agricolo, questi espedienti erano più visibili in città. Quindi, oltre all’entusiasmo industrialista vi era anche la critica valutazione delle condizioni di vita della nuova società; questo concedeva lo spunto alla riformulazione di un lamarkismo sociologico pessimista, il quale sosteneva che le trasformazioni industriali e i suoi effetti sull’uomo sarebbero stati ereditati dalle future generazioni.
L’antidoto a questi e agli altri mali moderni era cercato primariamente nel nuovo campo dell’Igiene. Tale
visione fu promulgata principalmente da alcuni movimenti popolari fra i quali la più forte era l’associazione studentesca social-democratica, la stessa che propagherà il darwinismo e le sue implicazioni spenceriane insieme a una radicale visione neo-malthusiana della società. La politica demografica e lo stesso movimento eugenetico erano, quindi, in Svezia, semplici bracci dell’igienismo, il quale era perfettamente conforme al nuovo ordine dettato dalla società. La presa di posizione ufficiale degli scienziati sull’igiene popolare rappresentò, pertanto, da un lato l’allargamento della sfera di influenza dello stato sulla vita del singolo
cittadino, dall’altro l’innalzamento delle figure degli scienziati stessi a guide dell’intera umanità.
I postulati della teoria mendeliana – e soprattutto la sua versione popolarizzata – crearono tra i genetisti
posizioni di sostegno verso la biologia razziale e il movimento eugenetico svedese, il quale si proponeva di svolgere un sistema artificiale di selezione umana, per fermare il “generating of the unfit, the parasites of society”, mediante l’attuazione di pratiche eugenetiche negative correlate alla simultanea attivazione di
misure eugenetiche positive. L’apice della popolarità del tema fu raggiunto nel 1934 con la pubblicazione
dell’opera “La crisi della questione demografica”, di Gunnar e Alva Myrdal: un piano eugenetico sociale di
auto-purificazione della popolazione dagli elementi inattivi e improduttivi. Il lessico myrdaliano utilizzava le definizioni di “A människan” e “B människan”, per definire l’uomo qualitativamente superiore, quello A, e l’uomo improduttivo, quello B (8).
Figura di spicco per realizzare tutto questo era l’“ingegnere sociale”. Il sistema, infatti, spingeva a ricercare
una sorta di ossessivo efficientismo, applicato non solo in ambito economico ma anche “microarchitettonico”. Si pensi, ad esempio, che le osservazioni svolte circa lo stato di un’abitazione
(tipologia architettonica, igiene, ordine) venivano associate alle condizioni morali di chi vi abitava. Non è
difficile credere che queste visioni possano aver contribuito allo sviluppo di un’ideologia utopistica
eugenetica.
Per l’esame di questo grave problema dobbiamo ricordare che lo sviluppo sociale della società tendeva ad aumentare l’esigenza di intelligenza e qualità. L’investimento statale nella politica sociale doveva rendere un alto profitto per la società, il cui interesse era in primo piano rispetto a quello del singolo individuo. La regolazione dei rapporti tra individuo e società, riprendendo la metafora delle mani invisibili del mercato, trasferisce sul piano medico-sociale la presenza di una “mano invisibile” che impugna questa volta il bisturi per la sterilizzazione, l’aborto o l’eutanasia per l’estinzione del debito contratto dall’individuo con la società, a causa della sua “inefficienza”.
Da ciò si evince la messa in atto dell’eugenetica negativa, prima di tutto con la sterilizzazione. Questa è la
modalità più radicale di “immunizzazione” della società, perché interveniva alla radice, al punto in cui si
comunica la vita. La sterilizzazione vieta alla vita di dare la vita, “devitalizza anticipatamente la vita”(9). Ma se la prima procedura immunitaria dell’eugenetica è la sterilizzazione, allora l’ultima – nel significato definitivo dell’espressione – è l’eutanasia. In un lessico biopolitico rovesciato, alla “buona nascita” o alla “non-nascita”, evidentemente, non può che rispondere la “buona morte”.


§ Se la Bioetica abbraccia la visione funzionalista
Uno dei limiti della Bioetica ai suoi esordi – e la gestione etica di questa situazione di emergenza sanitaria
farebbe pensare che tale limite non sia ancora del tutto superato – era il carattere esclusivamente
pragmatico-casistico: la ricerca, cioè, di una sorta di codice di correttezza, privo di fondamento, che per
assurdo potrebbe concepire un medico “che fa bene il male”. In un ambito come questo, l’applicazione di
regole e principi richiede sempre un’adeguata interpretazione a livello antropologico da cui i principi, invocati come garanti del consenso, scaturiscono.
Il funzionalismo in Bioetica comporta la legittimazione dell’aborto, la libertà assoluta nell’ambito della
ricerca, ma anche gli stessi fenomeni accennati all’inizio del contributo, che abbiamo visto susseguirsi
durante la pandemia: il rifiuto di trattamenti nei confronti dei disabili o degli anziani in quanto tali10. Questo è mandare in tilt la Bioetica, relegandola in un cassetto e tramutandone i professionisti da elementi decisivi nella difesa della vita umana a “geografi” che mappano la situazione, incapaci ormai di dare indicazioni su cosa sia giusto o sbagliato (11) . Questo accade quando si perde la bussola morale, ovvero l’orientamento verso il bene a partire dal dato di realtà. Se questo viene meno, al suo posto il giudizio anarchico e arbitrario sulla vita. Può ritenersi la funzionalità, l’efficienza, la “qualità di vita” un elemento qualificante la dignità e quindi l’intangibilità dell’essere umano, laddove tale “qualità” diventasse parametro per il mantenimento in vita, come nel caso di un neonato malformato, per il malato in coma, per l’anziano o per il malato terminale?
Dovremmo chiederci se tali requisiti qualitativi siano legittimanti il diritto alla vita. Ad esempio, per Fletcher, tra le caratteristiche basilari per il diritto alla vita ci sarebbero: minimo intellettivo (Q.I. superiore a 20-40), autocoscienza, senso del tempo, capacità comunicativa, interesse per gli altri, equilibrio tra ragione e
sentimento, curiosità, ecc. Altri autori hanno cercato di privilegiare altri fattori: McCormick la “relazionalità” e Engelhardt la triade “funzioni cerebrali, autocoscienza e relazionalità”(12). Diversamente dall’idea cristianotomista – che fonda il bene sull’essere, per cui abbiamo un ontologia che fonda un’etica – nel sistema analizzato finora abbiamo, invece, un’antropologia fondata su di una fenomenologia, che facilmente si presta ad abusi, come quelli verificatisi durante la pandemia.
Ricordo che questo è determinante anche a livello giuridico; per il neopositivismo, partendo dalla cosiddetta legge di Hume, col dualismo tra fatti e norme, dall’essere non può derivare il dover essere. Di conseguenza, l’azione, sia morale che giuridica, non è governata da alcun imperativo o obbligazione, ma si autogiustifica come decisione cieca, come volontarismo spontaneo, come reazione emotiva, soggettiva. Infatti, non esiste un’idea di giustizia che debba guidare la legislazione, a tal punto che la politica del diritto va discussa in un’ottica relativistica, in relazione, cioè, a valori ipotetici accettati da determinati gruppi – le comunità morali – in quanto nessuna opinione e nessun comportamento ha maggiore legittimità di quelli degli altri. Di conseguenza, i valori in se stessi non possono essere giustificati razionalmente e non esigono un fondamento assoluto e, quindi, non possono essere né veri né falsi. Tutto diventa soggettivo, contingente e relativo, persino l’uomo che, così, diventa necessariamente manipolabile.
In questo modo, si arriva a quell’atteggiamento pratico che evita discussioni sul fondamento etico o giuridico di ogni norma, che ha valore solo perché è stata posta: ius quia iussum, non più ius quia iustum; il diritto della forza, non più la forza del diritto (13). Non si comprende che la pace e la normale convivenza sono in pericolo, non quando non è possibile che ognuno faccia ciò che vuole secondo un’idea minimalista di “tolleranza” – una sorta di libertas a coactione – ma, più radicalmente, quando all’uomo non è riconosciuto ciò che gli è dovuto in quanto uomo, quando non viene rispettata la sua dignità. Infatti, solo il riconoscimento della dignità umana può rendere possibile l’uguaglianza tra culture differenti, oltre che la crescita comune e personale di tutti. Per la costruzione di una società pacifica, inoltre, di importante contributo sono la difesa e la promozione dei diritti umani, la cui radice, però, risiede anch’essa nella verità dell’essere umano e nella sua dignità.
La fonte ultima dei diritti umani non si situa nella mera volontà degli esseri umani, nella realtà dello Stato,
nei poteri pubblici, ma nell’uomo stesso (..). Tali diritti sono “universali, inviolabili, inalienabili”. Universali
perché sono presenti in tutti gli esseri umani senza eccezione alcuna di tempo, di luogo e di soggetti.
Inviolabili, in quanto inerenti alla persona umana e alla sua dignità e perché sarebbe vano proclamare i diritti, se al tempo stesso non si compisse ogni sforzo affinché sia doverosamente assicurato il loro rispetto da parte di tutti, ovunque e nei con- fronti di chiunque. Inalienabili, in quanto nessuno può legittimamente privare di questi diritti un suo simile, chiunque egli sia, perché ciò significherebbe fare violenza alla sua natura (14).
Affinché sia impedito ogni arbitrio, bisognerebbe limitare qualsiasi decisione sulla vita delle persone e
si dovrebbe garantire a ogni cittadino la certezza che il valore della sua esistenza non verrà determinato
in base ad alcuna particolare concezione antropologica. Solo così si garantisce il principio, costitutivo
di ogni democrazia, della non disponibilità della vita umana e della sua intrinseca dignità, che non è un
possesso che si possa acquisire o perdere, ma il segno dell’incommensurabilità della vita umana stessa,
che non ha prezzo e che è fondamento dei diritti umani (15).
La Bioetica che scaturisce da questo punto fermo, «non è un elenco di bei principi dedotti da un’antropologia elevata, quasi si trattasse di applicare meccanicamente alle situazioni diversificate e drammatiche dell’esistenza un sapere astratto» (16), ma è un sapere di tipo pratico. Non siamo di fronte a una ragione diversa da quella speculativa, che conosce per conoscere, ma della medesima ragione inserita però nella dinamica della tendenza operativa. Tale conoscenza pratica ha il suo punto di partenza nell’aspirazione al bene che si realizza mediante l’agire e, in particolare, al bene dell’uomo in quanto uomo. La conoscenza morale non avviene mediante deduzione applicativa da affermazioni metafisiche sulla natura dell’uomo, ma come una luce di verità sul bene umano, che irraggia sulla realtà dell’azione e la dirige. Tanto da far dire a Tommaso D’Aquino che il primo atto della razionalità pratica è la scoperta della verità sul fine ultimo dell’uomo (17).
Paradossalmente, tanto il razionalismo scientista, chiuso a ulteriori forme di conoscenza vera e sfociante a
livello etico nell’utilitarismo o nel convenzionalismo procedurale, quanto l’oggettivismo metafisico, che
separa la ragione dalla libertà, hanno in comune l’esclusione del soggetto della conoscenza e la riduzione
dell’oggetto a un dato perfettamente dominabile dalla ragione mediante il concetto, scientifico o filosofico.
Come sostiene Melina: «in linea di principio, per acquisire la scienza morale basta presupporre
ipoteticamente l’inclinazione razionale al bene dell’uomo e dedurne le conseguenze (..) Nell’applicazione
concreta, tuttavia (e la morale si compie nel giudizio determinato sull’azione concreta), è impossibile cogliere nel segno senza un’adeguata predisposizione virtuosa» (18). Evidentemente nel contesto che stiamo trattando ad essere tirata in causa è fondamentalmente la giustizia (19), la virtù che mi permette di riconoscere l’altra persona per ciò che è in sé, per la sua somiglianza a me e dotata dei miei stessi diritti. Il mio compito non è infatti quello di definire la persona – questo non spetta neanche al Diritto – ma di riconoscerla. Il problema evidentemente è chi devo riconoscere come mio simile, degno di rispetto inalienabile.


§ Bioetica, libertà, responsabilità
La parola “dignità” rimanda a qualcosa di “sacro”, cioè sottratto alla disponibilità manipolatrice dell’uomo. Il rischio della società biotecnologica, che vede come suo unico fine l’organizzazione scientifica del benessere soggettivo del maggior numero possibile di individui è quello di voler eliminare come controproducente l’idea della dignità umana, la quale impone alla manipolazione scientifica dei limiti. Ma senza una tale idea
regolativa, l’etica si riduce al calcolo proporzionalistico di vantaggi e svantaggi, perdendo di vista il bene
radicale della persona umana e quindi la specificità dell’esperienza morale.
L’esperienza morale che Emanuel Lévinas (20) ha posto in luce e ha attentamente analizzato è l’incontro con lo sguardo indifeso dell’altro, carico di un appello alla mia libertà: «Non mi uccidere!». Non si tratta di un impersonale o astratto comandamento universale, ma della concreta responsabilità verso un’altra persona che nella nudità indifesa del volto, manifesta l’assolutezza di un imperativo. Lo sguardo dell’altro è carico di un’intenzione che precede la mia azione e, lungi dal limitare la mia libertà con un divieto, la apre ad un senso, imponendole una responsabilità, molto più grande di una semplice gestione responsabile dei conflitti di doveri (come in ambito giuridico).
Hans Jonas usando la genitorialità come emblema della responsabilità dice che «La responsabilità è la cura per un altro essere, che diventa “apprensione” nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di
quell’essere» (21). Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può
immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui? Quanto più oscura risulta la risposta, tanto più nitidamente delineata è la responsabilità.
La pandemia ha mostrato che l’esaltazione della libertà come assoluta autodeterminazione alla lunga
implode e necessita di ritrovare il “tu” a cui rivolgersi, come orizzonte di senso. Il concetto di responsabilità si evince dal quadro dell’esperienza etica originaria in cui ogni uomo si trova coinvolto per il fatto stesso di essere uomo. Esperienza che la ragione comprende e interpreta e che inizia nel momento in cui l’uomo coglie se stesso come esistente e chiamato, nello stesso tempo, a prendere posizione, a rispondere all’esistenza di fronte a un quadro di valori.
La responsabilità morale, pertanto, riguarda l’uomo nella sua totalità. E una responsabilità che si caratterizza per la sua proposizione di valori normativi e obbliganti. Non dice ciò che la gente fa, ma ciò che dovrebbe fare, anche se non lo fa, o potrebbe non farlo. La coscienza etica “valuta” (rem-ponderare) i beni in questione, coglie l’esigenza e l’obbligo di “dover rispondere” (res-pondere) con una libera assunzione di responsabilità, vive il sentimento della gratificazione per aver risposto correttamente attraverso il proprio agire o dell’indignazione e della vergogna nel caso contrario. La responsabilità reclama pertanto un paradigma antropologico di riferimento, una struttura umana di fondo, intesa come un dato e come un compito, ove i valori etici indicano le condizioni attraverso cui passa la realizzazione in quanto uomo. La responsabilità morale si radica appunto sul valore che è l’uomo in quanto tale, nella comprensione coerente del senso del generare e del nascere, della salute e della malattia, del vivere e del morire, nonché degli interventi messi in atto per curare e correggere, per manipolare nell’ottica del compimento dell’humanum o per saccheggiare, avvilire e distruggere l’uomo.
Senza questo ancoraggio e questa fondazione antropologica viene a mancare la giustificazione ultima del
proprio agire e della propria libertà. Tutto diventa semplice questione di convivenza politica o di giustizia
nello scambio sociale (22).
C’è di più: il peso delle nostre azioni è tale in riferimento al nostro destino perchè le nostre azioni sono
chiamate a costruire un dialogo con le altre persone e con Dio. Così l’etica della prima persona – cioè quella che intende l’agire a partire dal soggetto che in esso si autodetermina – viene completata da un’etica della seconda persona, in cui ogni azione è intesa come fase di un di un dialogo che può costruire o distruggere la comunione delle persone. L’identità del mio io dipende dunque dalla fedeltà al patto originario col “tu”, che lega la mia libertà e la orienta alla realizzazione del “noi”: in ciò consiste precisamente il fondamento della dimensione etica dell’agire umano (23). All’inizio dell’agire c’è l’esperienza di un’attrazione verso un bene che ci invita a compiere la promessa della comunione, coinvolgendo la nostra libertà; per questo la libertà autentica non è autonomia senza limiti, o “libertà di”, ma autodeterminazione verso il bene, o “libertà per”.
Perché la libertà diventi fattore di costruzione della persona e della comunione deve riconoscere una verità che la precede e la norma: è la verità dell’amore, che non si risolve in una mera benevolenza soggettiva, o in un’intenzionalità vuota, ma si traduce nella volontà di ricerca del bene dell’altro.
L’io che si avvicina all’altro in termini di gratuità permanente resta soggetto. E anche il tu resta soggetto, in quanto e nella misura in cui l’io si avvicina al tu con immenso rispetto sia formale sia sostanziale. E così, non lo tratta con lo sguardo strumentalizzante, ma gli lascia intatta la sua soggettività al cui servizio si pone.
La comprensione delle modalità di approccio all’altro è fondamentale nella nostra analisi. Si può cogliere
l’altro reificandolo e disgregandolo, guardandolo come un insieme di funzioni o di parti organiche più o meno abili e non riconoscendo in lui un unicum che precede e “sostiene” tali capacità. Oppure, lasciare che egli si manifesti: «La manifestazione ϰαϑ‟αὑτό (kath’autó) consiste per l’essere nel dirsi a noi, cioè nell’esprimersi, indipendentemente da qualsiasi posizione che noi potremmo aver preso nei suoi confronti»(24).
È qui che si inserisce l’Etica, e anche la Bioetica, come un “riconoscimento” dell’uomo, come disciplina che
ricalca con il comportamento la sua fisionomia. È la sua stessa natura a dettarne il criterio di liceità e a
stabilire se qualcosa è bene o è male. La persona è un valore, quindi, mai subordinabile; essa, richiede per
sua stessa natura di essere trattata sempre come fine e mai come mezzo. Di qui la sua inestimabile dignità, che, nell’etimologia originaria (axiotes), indica la “somma valorialità”, intesa come collocazione al vertice della scala assiologia e, dunque, mai riconducibile all’ordine strumentale (25).
Si apre a questo punto un altro riferimento per la libertà: quello relativo ai limiti propri della responsabilità verso gli altri. Infatti, i doveri nei confronti delle altre persone e del mondo in cui viviamo non sono totalizzanti e indifferenziati: si definiscono all’interno di una situazione concreta di relazioni umane, all’interno di un ordine di prossimità e hanno dei confini. Esiste una gerarchia dei nostri doveri. È questo un ulteriore punto che distingue l’interpretazione morale dell’agire da quella utilitaristica.

Questo significa che noi non possiamo metterci al posto di Dio per determinare il nostro dovere: non abbiamo noi il compito di provvedere a tutto, ma quello di compiere il bene nel settore limitato delle responsabilità che ci sono affidate. È qui l’errore dell’utilitarismo e del proporzionalismo che, perdendo la prospettiva del soggetto, pongono la questione dei doveri in forma totalizzante e indifferenziata, caricando sulle spalle di colui che agisce la responsabilità di tutto il mondo. Potremmo dire che la prospettiva utilitaristica, mentre rende il soggetto potenzialmente responsabile di tutto, lo fai poi irresponsabile proprio di ciò che dipende da lui, cioè le sue azioni. La pretesa di collocarci al posto della Provvidenza, abbandonando la nostra condizione creaturale, comporta la pretesa di superare i limiti del bene e del male, arrivando a farci trasgredire la legge morale quando prevedessimo conseguenze buone da questa trasgressione.
Solo il riconoscimento dei limiti creaturali della responsabilità e al tempo stesso della sua portata umana, ci permette di custodire la dimensione morale intrinseca delle nostre scelte. Noi non siamo responsabili di far andare bene il mondo, ma di compiere azioni buone. E credo che, dopo il COVID, proprio da questo dobbiamo ripartire.

Giorgia Brambilla, Bioeticista, Teologa moralista.

Professore aggregato dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”.


1 Su permessso dell’autrice

2 G. CHESTERTON, Eugenetica e altri malanni, Cantagalli, Siena 2008.
3Cf. https://m.ilgiornale.it/news/mondo/olanda-medici-chiedono-ai-pazienti-anziani-rifiutare-cure-
1847356.html?utm_term=Autofeed&utm_medium=Social&utm_source=Facebook#Echobox=1585471194
[25/7/2020]
4 Cf. https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/31/coronavirus-negli-usa-i-disabili-non-hanno-diritto-alle-cure-controil-
covid-attivisti-e-discriminazione-cittadini-di-serie-b-perlegge/ 5755150/?utm_medium=Social&utm_source=Facebook#Echobox=1585652788 [25/7/2020]
5 Cf. https://loccidentale.it/sars-cov2-ora-in-svezia-ce-chi-accusa-eutanasia-attiva/ [25/7/2020]
6 Sulle origini storico-culturali dell’eugenetica, mi permetto di rimandare al mio G.BRAMBILLA, Il mito dell’uomo perfetto, IF Press, Morolo 2009.

7 Cf. L.DOTTI, L’utopia eugenetica del Welfare state svedese (1934-1974), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004

8 G. e A. MYRDAL, Kris i befolkningfrågan [La crisi della questione demografica], Bonniers, Stockolm, 1934, p.263, tradotto e citato in L.DOTTI, op.cit., pp. 86-87.

9 Cf. R.ESPOSITO, Bios, Biopolitica e Filosofia, Einaudi, Torino 2004.
10 Cf. M.CAPORALE, Al confine tra la vita e la morte. Aspetti bioetici e giuridici, Vita e Pensiero, Milano 1997.
11 Cf. Ne parlo ampiamente nel mio G. BRAMBILLA (ed.), Riscoprire la Bioetica. Capire, formarsi, insegnare, Rubbettino, Soveria Manelli 2020.
12 Cf. S.LEONE, La riflessione bioetica sulla qualità della vita, in G.RUSSO, Bioetica fondamentale e generale, Società Editrice Internazionale, Torino 1995, pp.105-112.

13 Cf. R.PIZZORNI, Il diritto naturale dalle origini a S.Tommaso D’Aquino, Città Nuova Editrice, Roma 1985².
14 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2004, n.153.
15 A.PESSINA, Un principio costitutivo di ogni democrazia. La vita umana non è disponibile, in “L‟Osservatore romano”, 11/7/2008.
16 J. RATZINGER, La Bioetica nella prospettiva cristiana, in «La Civiltà Cattolica» (3) 1991, p. 471.
17 Cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 3.

18 L. MELINA, Riconoscere la vita. Problematiche epistemologiche della Bioetica, in A. SCOLA (a cura di), Quale vita? La Bioetica in questione, Mondadori, Milano 1998, p. 110. Si veda anche A. MACINTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando Editore, Roma 2007.
19 Ad esempio, nel Manuale di Morale speciale di Rodríguez-Luño, la parte di Morale della vita viene trattata all’interno della sezione dedicata alla virtù della giustizia. Cfr. A. RODRÍGUEZ-LUÑO, Scelti in Cristo per essere santi, Edusc, Roma 2008, vol. III, pp. 177-282.
20 Cf. E. LÉVINAS, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 2016.
21 Cf. H. JONAS, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi Paperbacks Filosofia, Torino 1990.

22 Cf. L. MELINA, Azione: epifania dell’amore. La morale cristiana oltre il moralismo e l’antimoralismo, Cantagalli, Siena,2008.
23 Cf. L. MELINA – J. NORIEGA – J.J. PÉREZ SOBA, Camminare nella luce dell’amore. I fondamenti della morale, Cantagalli,
Siena 2017.
24 E.LÉVINAS, op.cit., p.64 (aggiunta in greco mia).
25 Cf. E. SGRECCIA, Manuale di Bioetica, Vita e Pensiero, Milano, 2012, vol.1.

Foto di esudroff da Pixabay

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