Ignazio di Antiochia. Un breve profilo. #cronachedelcristianesimo #padri

Ignazio di Antiochia (35 circa – 110 circa) fu teologo della Chiesa primitiva e martire. Nato in Siria. subì il martirio a Roma, secondo la tradizione, dilaniato dalle belve nel circo. Ignazio è conosciuto principalmente attraverso sette epistole che scrisse nel corso del suo viaggio da Antiochia a Roma come prigioniero condannato a morte per la sua fede durante il principato dell’imperatore Traiano (98-117). Di origine apparentemente siriana e convertito dal paganesimo, fu uno dei primi vescovi di Antiochia, forse il terzo (Eusebio, Hist. Eccl. 3.22). A Smirne Ignazio fu ricevuto con grandi onori dal vescovo (san) Policarpo e visitato dai rappresentanti delle varie chiese locali. Da questa città scrisse lettere alle chiese di Efeso, Magnesia, Tralle e Roma. Condotto a Troade, scrisse alle chiese di Filadelfia e Smirne e al vescovo Policarpo. Il suo viaggio proseguì poi attraverso la Macedonia e l’Illiria fino a Durazzo, dove prese una nave per l’Italia. Il suo martirio a Roma è attestato da Policarpo, la cui epistola ai Filippesi sembra essere formata da due sezioni: i capitoli 13 e 14 sono una nota che accompagnava una raccolta di epistole ignaziane inviata a Filippi subito dopo la visita di Ignazio; i capitoli da 1 a 12 sono stati scritti intorno al 130 o 140, quando il la memoria del martire Ignazio era già diffusa nella Chiesa.
Riferendosi a se stesso come Teoforo, il portatore di Dio (Rom. praef.; Trall. praef), Ignazio si rivolge alle varie chiese per ringraziarle della solidarietà espressa riguardo alla sua sorte; le esorta poi alla fedeltà a Dio e all’obbedienza ai superiori, mettendole in guardia dalle dottrine eretiche e istruendole sulle verità fondamentali della fede cristiana. Pregò i Romani di non usare l’influenza politica per impedire il suo martirio, poiché si considerava come il “grano di Dio” che doveva “essere macinato dai denti delle belve, per diventare il pane puro di Cristo” (Rm 1,2; 2,1; 4,1).
Ignazio riconosceva la continuità della rivelazione tra l’Antico e il Nuovo Testamento, vedendo la provvidenza di Dio compiuta in Gesù Cristo “nostro unico maestro, di cui i profeti erano discepoli nello Spirito” (Mag. 9.1-2). Egli affermò inequivocabilmente sia la divinità che l’umanità di Cristo, il Salvatore: “il solo e unico medico, che è insieme carne e spirito, nato e non nato, Dio nell’uomo, vera vita nella morte, sia di Maria che di Dio, prima soggetto alla sofferenza e poi incapace di essa, Gesù Cristo nostro Signore” (Ef. 7.2). Contro l’eresia del docetismo, insistette sulla realtà delle sofferenze umane di Cristo, sulla sua presenza reale nell’Eucaristia e sulla sua Risurrezione nella carne: “Egli è veramente della stirpe di Davide secondo la carne, e Figlio di Dio per volontà e potenza di Dio; è veramente nato da una Vergine; ed è stato battezzato da Giovanni secondo ogni giustizia” (Smyr. 1.1). I docetisti, accusa, “si astengono dall’Eucaristia e dalla preghiera perché non confessano che l’Eucaristia è la carne del nostro Salvatore, Gesù Cristo, che ha sofferto per i nostri peccati e che il Padre, nella sua bontà, ha risuscitato” (Smyr. 7.1).
Per quanto riguarda la Chiesa, Ignazio insiste sul suo carattere sacramentale e sulla sua unità sotto il governo del vescovo. “Abbiate cura di usare una sola Eucaristia: perché c’è una sola carne del Signore nostro Gesù Cristo, e un solo calice in unione al suo sangue, e un solo altare, come c’è un solo vescovo, assistito dal presbiterio e dai diaconi, miei compagni di servizio” (Fil. 4). Ignazio descrive il vescovo e i presbiteri come rappresentanti di Cristo e degli Apostoli; e avverte che nulla deve essere fatto riguardo alla Chiesa senza il vescovo; l’Eucaristia, il Battesimo, la celebrazione dell’agape sono validi solo se fatti con la sua approvazione. “Dovunque sia il vescovo, lì sia il popolo, perché lì è la Chiesa cattolica” (Smyr. 8.1-2). Nonostante la sua possibile giovane età, il vescovo “presiede al posto di Dio; i presbiteri fungono da consiglio degli apostoli e ai diaconi è affidato il ministero di Gesù Cristo” (Mag. 6.1).
Per quanto riguarda la vita quotidiana del cristiano, le sue epistole rivelano delle preoccupazioni diverse rispetto a quelle di Paolo. Rivolgendosi a un pubblico ampiamente di origine gentile e quindi lontano dal tema del rapporto tra grazia di Cristo e Legge giudaica, Ignazio affronta l’esperienza ellenistica dell’onnipresenza della morte e della distruzione e il desiderio di una vita imperitura. In opposizione alle superstizioni e alle false credenze dei suoi concittadini pagani, egli focalizza l’attenzione sulla “novità della vita eterna in Cristo” e sollecita i suoi convertiti cristiani a una completa cambio di mentalità (conversione), ottenuto grazie alla rigenerazione in Cristo attraverso il Battesimo.
Il vero cristiano, quindi, imita Dio (Fil 1,2; Pol 1,3) e Cristo nella sua Passione (Rm 6,3); la morte in e con Cristo sarà la consumazione dell’unione con Dio a cui egli tende nella pratica delle virtù, in particolare nella carità (agape), con la quale si dona totalmente alla comunità (Ef 10,1-3; 14,1-2; Smyr 6,2-7). La carità cristiana deve trovare una manifestazione concreta nella cura della “vedova e dell’orfano, dell’oppresso, del prigioniero e del libero, dell’affamato e dell’assetato” (Smyr. 6.2).
Per quanto riguarda il matrimonio, i cristiani hanno il diritto di entrare nello stato matrimoniale con l’approvazione del vescovo, affinché sia secondo il Signore e non per passione. Le mogli che amano il Signore saranno contente dei loro mariti nel corpo e nello spirito; e i mariti devono amare le loro mogli come Cristo ama la Chiesa. Allo stesso tempo, “se qualcuno riesce a rimanere continente per l’onore della carne del Signore, lo faccia senza vantarsi” (Pol. 5.1-2).
Scrivendo ai romani, Ignazio riconosce che la loro Chiesa “presiede nella terra dei romani” ed è degna di Dio; di onore, benedizione, lode, successo e santità; e di presiedere nell’amore. Riconosceva anche di non poterli comandare come fecero “Pietro e Paolo che erano apostoli”.
Il suo stile letterario, pur essendo molto personale, riflette alcune caratteristiche tipiche di chi aveva ricevuto un’educazione di tipo ellenistico. La sua dottrina è vicina a quella paolina, in particolare per quanto riguarda la cristologia e l’orientamento morale, ma mostra anche una stretta familiarità con la teologia giovannea.

Adriano Virgili

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